La ricezione del testo

La lingua scritta è, per molti versi, svincolata dall’emittente: può essere sottoposta a varie e ripetute letture, secondo ritmi e tempi che dipendono solo dal ricevente; le circostanze e situazioni di ricezione sono di solito assai diverse rispetto alla situazione storica in cui l’emittente-autore ha prodotto il testo; il ricevente-lettore è in grado di controllare più strettamente la coerenza, l’unità e gli scopi del testo, senza essere condizionato (come accade nella comunicazione orale) dalla presenza dell’emittente, che può intervenire a rettificare, precisare, cambiare il messaggio.

In un testo della cultura (e in specie in un testo letterario) hanno uno spazio rilevante il “non detto”, l’implicito, il presupposto, la citazione e, in una parola, l’intertestualità (il riferimento ad altri testi).

f.s.

da Parola Plurale: “Datemi dunque un corpo: dateci dunque un popolo”

Da un mese ho ripreso in mano l’antologia di poesia italiana Parola Plurale a cura di Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublena. Sessantaquattro poeti. Uscita nel 2005 per l’editore Luca Sossella di 1177 pagine al prezzo di 20 euro.

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[QUI] e [QUI] trovate la prima e la seconda parte dell’introduzione 1975-2005 Odissea di forme.

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Ebbene, forse parlerò dell’antologia più in avanti su queste pagine elettroniche oppure no. Tuttavia, per adesso mi preme trascrivere in codesto mio quaderno elettronico la parte finale del saggio Io è un corpo di Andrea Cortellessa. A conclusione del suo ragionamento intorno ai poeti Giuliano Mesa e Gabriele Frasca, Cortelessa, riprendendo le parole di quest’ultimo, accenna alla cultura orale:

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<< […] Frasca, da parte sua, esplicita la valenza politica della declinazione ‘orale’ della letteratura: riandando addirittura alle origini della poesia (con lo storico viatico di Havelock 1963, cit. in Frasca 2005, 24 e passim), alla “partecipazione etimologicamente ‘entusiasta’ (vale a dire di invasamento estatico) dell’uditorio che ascoltava, ripeteva, danzava e, infine, assimilando porzioni di epos, ‘ricordava’, defluendo per così dire nella personalità dell’aedo che a sua volta si annullava nell’esecuzione”. La cultura orale pre-alfabetica era “una sofisticatissima e apparentemente impalpabile macchina per il riposizionamento dei sensi, che avrebbero però finito col modificare, tramite la memoria, il corpo stesso che si disponeva a ospitarla”. Resti di tali “pratiche entusiastiche” (ivi, 70), secondo Frasca, si rintracciano anche nella cultura alfabetica: dalle Epistole di Paolo di Tarso alle grandi paranoie postmoderne. Per questo “tutti i possibili lettori, se sono per davvero un ‘popolo che manca’, lo sono esattamente in quanto un messaggio deve ancora giungere, e magari è già in viaggio. Un ‘popolo che manca’ è un popolo cui manca qualcosa. Perché scrivere ancora, se no?” (ivi, 283). “Letteratura” dev’essere “‘trasmigrazione’, e cospirare dunque per ‘nuovi legami’ da instaurare, sia pure nel tempo di ‘fusione’ della sua materia, fra gli uomini” (ivi, 312).
In uno degli ultimi scritti di Artaud, Il teatro e la peste, basterà (ai nostri fini) sostituire teatro con poesia:

Può darsi che il veleno del teatro, iniettato nel corpo sociale, lo disintegri, come dice sant’Agostino, ma lo fa come una peste, come un flagello vendicatore, come un’epidemia salvatrice […] Il teatro, come la peste, è una crisi che si risolve con la morte o con la guarigione […] dal punto di vista umano l’azione del teatro, come quella della peste, è benefica, perché, spingendo gli uomini a vedersi quali sono, fa cadere la maschera, mette a nudo la menzogna, la rilassatezza, la bassezza e l’ipocrisia; scuote l’asfissiante inerzia della materia che deforma persino i dati più chiari dei sensi; e rivelando alle collettività la loro oscura potenza, la loro forza nascosta, le invita ad assumere di fronte al destino un atteggiamento eroico e superiore che altrimenti non avrebbero mai assunto. (Artaud 1961-64, 149-50).
 
È con ogni probabilità di qui che proviene il concetto di salute che dà un tono eroico agli ultimi scritti di Gilles Deleuze (quelli raccolti in Critica e clinica): per il quale, appunto – e a dispetto di tutto –, “la letteratura è salute” (Deleuze 1993, 11). “Non che lo scrittore abbia necessariamente una salute vigorosa […], ma gode di un’irresistibile salute precaria che deriva dall’aver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce, ma gli apre dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili. Da quel che ha visto e sentito, lo scrittore torna con gli occhi rossi, i timpani perforati”. Soprattutto, “la salute come letteratura, come scrittura, consiste nell’inventare un popolo che  manca […] un popolo a venire, ancora sepolto sotto i suoi tradimenti e rinnegamenti” (ivi, 16).
Datemi dunque un corpo: dateci dunque un popolo. >>

Appunti su latino. Latino volgare.

Palese è la continuazione dal latino delle lingue romanze. Più precisamente, però dal latino volgare, che altro non è se non il latino parlato. Non è del tutto corretto, a dirla con il Vossler, sostenere che le lingue romanze siano ‘figlie’ del latino.
Queste, come anche lo stesso latino volgare, altro non sono che un latino parlato oggi. A cosa ascrivere le differenze che saltano immediatamente all’occhio? La risposta è: al sostrato, cioè a dire la lingua che i vari popoli assoggettati da Roma parlavano prima della conquista romana. Il latino, quel modesto dialetto parlato dai pastori che fondarono Roma, quell’idioma che, ancora in epoca documentabile attraverso fonti storiche, occupa un’area assai limitata del Lazio, stretto com’era tra i dialetti italici e l’etrusco e che poi, fissandosi definitivamente come lingua letteraria, nell’aspetto che gli fu dato dai grandi scrittori dell’epoca repubblicana, fu diffuso nel mondo dalla forza conquistatrice dei romani, è un idioma appartenente alla grande famiglia Indoeuropea. Esso ci è noto, con una documentazione ininterrotta e organica, solo dal III sec. a.C. (le iscrizioni anteriori sono sporadiche) e cioè un’epoca assai più recente di quelle in cui abbiamo attestazioni di altre lingue indoeuropee quali l’ittita, l’antico indiano, l’iranico e il greco.

Fissata la lingua letteraria, specialmente per merito dei grandi scrittori del periodo aureo, il latino scritto con intenti artistici mantiene una relativa fissità, che è imposta dalla fedeltà ai modelli, alla tradizione e dall’autorità dei grammatici. Ma come in ogni paese, anche nella stessa Roma, la lingua comunemente parlata differiva più o meno considerevolmente, secondo le epoche e le categorie sociali, dalla lingua scritta con intento artistico. Noi ce ne possiamo agevolmente accorgere mettendo a confronto fra loro passi di uno stesso autore, là dove questi, libero da schemi retorici e da preoccupazioni letterarie, si rivolgeva ad amici o parenti (Cicerone, ci dicono i latinisti, in alcune sue epistole familiari non destinate alla pubblicazione, usa uno stile considerevolmente diverso da quello delle Orazioni o delle opere filosofiche e retoriche) oppure vuole, ad arte, imitare la comune parlata (Petronio imita la lingua popolare e scorretta di un “nuovo ricco” nella sua Cena di Trimalchione e, del resto, in tutta l’opera raccoglie largamente forme della lingua parlata).

Il latino scritto e letterario, il latino della cultura appare ai nostri occhi sostanzialmente unitario e difficilmente distinguiamo certe peculiarità regionali, che pure gli antichi sentivano.

Il latino parlato, per quanto anch’esso fino ad un certo punto fosse unitario, a causa del livellamento provocato dall’unità politica e culturale, conteneva un certo maggior numero di differenze regionali e sociali.

Ma questa ‘rusticitas’, per dirla con Cicerone e Quintiliano, porta nella lingua di Roma dapprima dagli Italici e dagli Etruschi, poi dai Galli e da altre popolazioni più distanti, non era ovunque la stessa ed il SERMO VULGARIS (il latino volgare) doveva avere già in se stesso quei germi di differenziazione dialettali che si svilupperanno poi nelle singole lingue romanze, anche se alcuni fenomeni di origine volgare erano già entrati a far parte della koinè latina parlata. In alcuni casi si tratta di tendenze manifestatesi già nel latino arcaico e che non furono accettate dalla lingua letteraria, cosicché in molti punti troviamo concordanze fra il latino volgare e il latino arcaico, mentre il latino classico presenta un’evoluzione diversa.

La denominazione di latino volgare (da sermo vulgaris) può prestarsi a qualche equivoco. Sarebbe forse meglio parlare di ‘latino parlato, latino comune, koinè latina’. Non si tratta infatti solo del latino parlato dalle classi più basse del popolo, ma della lingua parlata da tutte le classi sociali, con infinite sfumature.

f.s.

Gli esordi di Antonio Moresco

Antonio Moresco, scrittore irrequieto e singolare. Rifiutato per anni dalle case editrici, ha elaborato a lungo la sua scrittura nel silenzio, in aperta polemica con un certo modo di concepire la narrativa. A mio parere, è uno degli autori più interessanti del panorama narrativo contemporaneo italiano.

Ho letto nel 2006 il romanzo Gli esordi, apparso verso la fine del 1998 per Feltrinelli. E’ un libro impegnativo e ambizioso. Conturbate.

La struttura è in tre parti, intitolate “Scena del silenzio”, “Scena della storia ” e “Scena della festa”.

Il romanzo contiene una straordinaria profondità d’immaginazione. Con quest’opera, l’autore affronta l’enigma della vita da un angolo originale. Descrive la solitudine dell’uomo in una realtà insudiciata e obliqua, instabile, dove il sogno e l’incubo sono anch’esse realtà tangibili, come la stessa angoscia e la vacuità.

I personaggi del romanzo sono claustrofobici, anime chiuse in sé, che mai conoscono o ri-conoscono gli oggetti più comuni né gli esseri umani. Lo sguardo dei personaggi è perennemente sfocato, la percezione di sé fatta a pezzi, la pupilla psichica così dilatata da non riuscire a scorgere che oscura luce.

Il linguaggio e lo stile: asciutto, preciso, allo stesso tempo iperrealistico e visionario.

f.s.

[Antonio Moresco, Gli esordi, Feltrinelli, Milano 1998 – pp. 535, € 17,04]

Segno, significato, significante, referente

Appunti sparsi  

Per Ferdinand de Saussure la lingua è un sistema di segni assai complesso, un insieme organico di elementi posti in rapporto funzionale l’uno con l’altro. Un segno è l’associazione di un significante e di un significato. Il significato è l’<<immagine mentale>> di un oggetto, vale a dire un concetto; il significante è l’<<immagine acustica>>, la serie di suoni con cui si veicola il concetto. Il rapporto fra significato e significante, come molti ben sanno, nel comune sistema linguistico, è arbitrario, non motivato, frutto di una convenzione fra parlanti.

Il referente è la realtà extraletteraria a cui rinvia il segno. Esso è estraneo alla considerazione della scienza linguistica.

I referenti, cioè gli elementi della realtà esterni al testo- storici, concettuali o immaginari che siano- costituiscono i materiali su cui lavora la lingua. In un’opera letteraria (il testo è un insieme di parole, di segni) l’uso di un referente vero (un personaggio storico, una data situazione sociale) serve di norma a creare un effetto di realtà di cui l’autore si serve per rendere credibile la fictio inventiva.

f.s.

Vita Nuova di Dante Alighieri

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(con disgressione: dall’adolescenza a Ligabue) 

Ho letto ben due volte la Vita Nuova di Dante: la prima per motivi di studio all’università, la seconda per puro piacere personale.

L’opera è stata composta subito dopo la morte di Beatrice. In essa il poeta raccolse ventiquattro sonetti, quattro canzoni, una stanza e una ballata, le collegò con prose più che altro dirette a spiegare le circostanze e gli stati d’animo da cui quelle rime erano nate e ci diede così la tenera storia del suo amore per Beatrice.

Ci dice che non aveva ancora nove anni quando, vedendola per la prima volta, si sentì dominato da Amore; nove anni dopo la vide passare per via e tutto trepidante ne ricevette un virtuoso cenno di saluto. D’allora in poi tutta la sua gioia fu in quel saluto che lo inebria e lo solleva al più alto grado di felicità; non voleva però che gli altri lo intuissero, perciò fingeva di sospirare per altre donne, che gli facevano da <<schermo de la veritade>> (tra parentesi, chi di voi, adolescente, non ha mai usato un’uguale tattica in amore?).
E tanto insiste nel corteggiamento ad una di esse (altra digressione: secondo me a Dante non dispiaceva poi tanto far finta di interessarsi ad altre donne), che voci pettegole si levarono contro di lui infamandolo come persona sensuale, dedica ai facili amori.
Giungono codeste chiacchiere a Beatrice che lo priva del saluto: il dolore del poeta fu terribile, non osò più rivolgere a lei i suoi versi, ma, indirizzandosi alle donne gentili, incominciò a tessere le più alte lodi di lei, trasfigurata già in creatura celeste: i famosi sonetti Tanto gentile e Vede perfettamente sono frutto di questa nuova poesia, originale e perfetta, quale nessun stilnovista aveva composto.

Naturalmente non vi racconto tutta la storia, ché non desidero togliere al lettore il gusto della scoperta dell’opera dantesca (per esempio, le pagine in cui Dante sta per svenire davanti a Beatrice e si appoggia alla parete, tale è l’emozione, ma ella, incredula della sua sincerità, ride, con le altre donne, di lui. E’ l’episodio del <<gabbo>>, una tristezza da non ridire).

Ammalatosi, Dante si fermò sempre più sul pensiero della fragilità umana e fu preso dall’angoscioso presentimento della morte di Beatrice: ciò avvenne realmente poco dopo e riempì di lutto non solo il poeta, ma tutta la città. Mentre così egli si consumava nel dolore, lo vide Donna gentile, che cercò di consolarlo (e qui io vi rinvio alla canzone di Ligabue Certe notti: “Certe notti c’hai qualche ferita che qualche tua amica disinfetterà”): già il poeta si sentiva attratto da un sentimento nuovo per la fanciulla, quando TAC Beatrice, apparendogli in sogno così come egli l’aveva vista il giorno in cui se ne  era perdutamente innamorato, gli fece sentire che nulla avrebbe mai spento in lui il suo ricordo e promettere di non parlare più di quella <<benedetta>> finché non avesse potuto <<più degnamente trattare di lei>>.

Le solennità quasi religiosa del racconto, il mistico rapimento del poeta, la contemplazione della donna divenuta creatura terrestre, l’uso della visione (Rimbauld deve ancor nascere), l’indeterminatezza con cui sono volutamente indicati persone e luoghi e che trasporta il lettore in un mondo di sogno, tutto il pathos dell’opera insomma e specialmente quella solenne promessa finale sono il vero e più degno annuncio della Divina Commedia.

Spesso anche le pagine di prosa non sono meno spirituali, assorte e malinconiche, delle liriche; e se risentono certamente delle dottrine filosofiche e retoriche, hanno però accenti notevolmente personali, forse perché furono composte tutte insieme con un disegno prestabilito, probabilmente nel 1290, quando il poeta decise di riunire in un’opera organica la sua storia d’amore.

Queste, le prose, assolvono anche la funzione di raccordare nell’economia narrativa le varie liriche fra loro, affinché nessuna di esse risulti l’espressione di un momento irrelato e tutte concorrano all’organicità della vicenda. Insomma, caro lettore, possiamo leggere la Vita Nuova anche come un romanzo d’amore. Nacque da questa operazione il primo modello di prosa d’arte, in senso moderno, della nostra letteratura.

f.s.

Capolavoro, Poesia, Poeta

 [un pensiero improvvisato on-line: 19-12-07]

Capolavoro, Poesia, Poeta: parole pronunciate di continuo. Eppure, mai come oggi ci si è dimenticati dell’eternità nella contemporaneità: trattasi di trarre l’infinito dal finito. Leggere, vivere e cercare i mezzi per esprimere la vita. Dialogare con il passato- poiché in vita non c’è possibilità di dialogo-, pur serbando in se stessi l’idea che si frequenta un fantasma, aiuta ad illuminare di luce il movimento della vita contemporanea, e il passato si farà presente, chissà. E forse il presente troverà la morale e l’estetica del proprio tempo, per minima e lieve che sia.

f.s.

Una questione privata- I ventitré giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio

 I ventitré giorni della città di Alba (1952) e Una questione privata (1963). 
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Beppe Fenoglio (1922-1963) non mostra alcun interesse per le istanze sociali, e tanto meno per le motivazioni ideologiche della lotta di liberazione: essa si identifica, per lui, nella guerra partigiana, e quest’ultima a sua volta gli si rappresenta come avventura esistenziale, come esemplare occasionale di conoscenza, come sfida con se stessi, come scommessa sulle proprie qualità.

Ne I ventitré giorni della città di Alba il respiro è più corale. I partigiani di Fenoglio non si comportano come messaggeri di verità assolute, né incarnano il mito dell’eroismo proteso a nuove aurore della storia: sono esseri comuni, legati ad una cronaca senza epoca. Magnifiche pagine quando lo scrittore si sofferma ad analizzare la condizione psicologica turbata dal dubbio o stretta dall’orrore.

Una questione privata– da Calvino considerato <<il libro che la nostra generazione voleva fare>>. Esso costituisce una “saga” partigiana dello scrittore piemontese. La figura centrale è Milton sopraffatto dal sentimento d’amore che lo porta alla fanciulla da lui amata, che ora è sparita, per frugare nel passato di lei e sapere quale parte abbia avuto nella sua vita, mette in moto un meccanismo di disperata ansietà. Opera intensa.

Ma ne scriverò nei prossimi giorni, riportando le parole di alcuni grandi critici.

[Beppe Fenoglio, Una questione privata- I ventitré giorni della città di Alba, Einaudi, 1990, p. 330, euro 9,30]

f.s.

Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra di Roberto Saviano

Il testo di Roberto Saviano non lo si legge come un romanzo o come un reportage qualsiasi. Esso è il documento intimo e sociale di un’epoca, la nostra. La reazione dei lettori, il boom delle vendite, riflette il modo in cui la gente vede se stessa. E’ questa idea di sé, sia essa realtà o fantasia, o una combinazione di entrambe, che prevale nel plasmare il nostro senso del presente.

Visto alla luce di questo incasellamento in un certo senso emotivo della nostra storia, l’epoca in cui viviamo è senz’altro un’età di frustrazione e violenta sociale, ed ha come simbolo il libro di Roberto Saviano: Gomorra.

C’è senza dubbio violenza e frustrazione sufficiente a convalidare questa immagine nel libro di Saviano.

Gomorra è la “monnezza” dello smaltimento dei rifiuti delle imprese del nord-est, è la gara al ribasso delle multinazionali della moda, è la grande impresa edilizia, è l’acquisto di depositi di armi nell’Europa dell’Est, è lo smercio di droga, è il lavoro in nero, è la morte bianca.

Gomorra è più “capace”, più dinamica, più “lungimirante”, più efficiente, più “scaltra”, più spietata, più “avida” di ogni altra organizzazione economica privata e statale.

Gomorra non è solo camorra, non solo Napoli o Campania o l’Italia. Gomorra è il motore della società capitalista internazionale. E’ una potenza perfettamente organizzata ed economicamente all’avanguardia in ogni settore finanziario ed imprenditoriale, in ogni direzione commerciale. Gomorra è senza frontiere. Agisce su scala internazionale: Spagna, Scozia, Australia, Francia, Olanda, Germania, Albania, Somalia, Serbia, Angola, America del sud, Oriente, Usa, Russia ecc.

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L’autore descrive tutto ciò con meticolosa precisione: nomi, date, riti, strade, regole, strategie criminali. Saviano ha seguito da vicino la guerra di Secondigliano, andando ai funerali dei morti ammazzati – colpevoli e innocenti-, visitando i luoghi in cui la guerra ha massacrato, bruciato corpi, torturato; parlando con gli affiliati d’ultimo livello, respirando l’aria viziata della morte o quella tossica delle discariche abusive, calpestando i pavimenti delle ville costruire da capi clan invasati dall’immagine cinematografica americana, tanto da far costruire una villa identica a quella di Toni Montana (Al Pacino) in Scarface.

Uno solo di questi elementi basterebbe a gettare ombra sugli altri avvenimenti della nostra epoca; tutti insieme riescono ad oscurare quasi completamente i pochi sviluppi positivi della nostra società.

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La prosa di Saviano è fortemente espressiva, ritmata dalla ferma volontà di far chiarezza, puntigliosa nelle ricostruzioni, schiumosa di rabbia, lucida, incalzante, omerica.

Un libro che ti colpisce allo stomaco, poiché l’autore ci dimostra che l’illegale sta alla base di ciò che appare legale.

[Roberto Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondatori, 2006, p. 331, euro 15,50]

f.s.

Le arti figurative. Saggi di critica estetica di Charles Baudelaire

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Charles Baudelaire (1821-1867): il mio poeta preferito, seguito da Rimbaud. A vent’anni avevo già letto tutte le opere dell’autore francese, finanche i saggi di critica estetica.

Baudelaire. Si tratta della più importante e inquietante personalità poetica di tutti i tempi. Con Les Fleurs du Mal (I fiori del male) Baudelaire pone le basi di una estetica in cui prevale una sensualità obiettiva, atta a penetrare le corrispondenze segrete fra immagini, voci e colori della natura. A tale estetica si accompagna uno stile capace di rivelare nelle parole e nei ritmi metrici quelle stesse realtà celate di cui è colmo l’universo come «una foresta di simboli».

Baudelaire ebbe anche la certezza dell’unità assoluta di prosa e poesia, mirando ad un linguaggio ideale che non potesse essere definito né in un modo né nell’altro. Non sta a noi giudicare se egli vi giunse o no. Certo i suoi «poemi in prosa», Le spleen de Paris, pur nella loro perfezione, vennero considerati da Baudelaire solamente come un tentativo sulla via di codesto stile. Egli, d’altronde, fu un prosatore impeccabile, nel vero senso della parola, come ci documenta la novella La Fanfarlo, i saggi Du vin e du haschisch, Les paradis artificiel, gli scritti di critica letteraria e di critica d’arte.

Continua a leggere “Le arti figurative. Saggi di critica estetica di Charles Baudelaire”

da i Quaderni (1914-1916) di L. Wittgenstein

Trascrivo/ripropongo (Amanuense web) 

Il mondo incapsulato nel linguaggio

I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.

C’è realmente soltanto una anima del mondo, che io di preferenza chiamo la mia anima, e in base alla quale solamente concepisco le anime degli altri.

La precedente osservazione dà la chiave per decidere in che misura il solipsismo sia una verità. [L. Wittgenstein, Werkausgabe, Band I, Frankfurt a.M., 1984, p.141]

*** Continua a leggere “da i Quaderni (1914-1916) di L. Wittgenstein”

Recensione

Francamente, nonostante tutto il piacere che si ha a leggere le opere d’uno scrittore, non sempre si riesce a scrivere una recensione. Leggo tutto, sia chiaro, ma non scrivo su tutto.

Chiunque abbia redatto una recensione riconoscerà che non sempre chi scrive ha l’estro giusto per riprodurre criticamente l’opera appena letta: saremmo ben crudeli ed insolenti a forzare la mano col mestiere. No: al contrario, cerchiamo d’esser imparziali. Non abbiamo amici né nemici, ma opere letterarie. Si può sbagliare nel giudizio, si può tacere perché non si sa riprodurre l’essenza dell’opera appena letta, tuttavia mai inganneremo noi stessi e il lettore con false recensioni.

f.s.