DINO CAMPANA: LA POETICA DELL’ORFISMO TRA PITTURA E SOGNO di Giuseppe Panella

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 [Si tratta di un primo capitolo per un libro che sto scrivendo nel corso degli anni… più che un capitolo è in realtà un’introduzione un po’ più lunga del solito per mettere in chiaro criteri e valutazioni, bilanci e prospettive, punti di vista e ricordi del passato (non a caso il testo è dedicato a Piero Cudini, un amico che non c’è più…). Giuseppe Panella]

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DINO CAMPANA: LA POETICA DELL’ORFISMO TRA  PITTURA E SOGNO

 di Giuseppe Panella

“Si chiamava adesso Orfeo o Arfa che vuol dire:

       colui che guarisce mediante la luce

                                                                   (Edouard Schuré)

[alla memoria di Piero Cudini]

     Il mito fondatore

Nella poetica orfica di Dino Campana, sono assai probabilmente confluite tutte le più importanti e variegate esperienze espressive ed estetiche europee di inizio secolo; esse sono state poi, in tempi e modi diversi, successivamente riprese e messe dialetticamente a confronto, rapprese e come decantate nel crogiuolo linguistico della sua impresa poetica.

Di esse due, per le loro caratteristiche precipue e per il loro impatto generale, sono particolarmente interessanti ai fini di una pur necessariamente sintetica ricostruzione: da un lato, la lettura dell’opera di Edouard Schuré, praticata da Campana negli anni di formazione precedenti i Canti Orfici, dall’altra la probabile frequentazione dell’esperienza pittorica del Cubismo osservato a partire dalla rivalutazione dell’opera di Cézanne (considerato quale l’ideale precursore del movimento pittorico in questione) fino a giungere alla “svolta” del 1912 effettuata dall’orfismo pittoriale di  Robert Delaunay.

Tali aspetti, comunque – che furono sicuramente tra i più significativi nel corso della cultura europea a cavallo tra i due ultimi secoli – andranno, tuttavia, sempre inquadrati e riverificati nell’ambito dell’evoluzione poetica di Campana e ritrascritti, come in filigrana, nella sua successiva produzione.

La scelta del mito di Orfeo (e delle soluzioni espressive che esso richiede, permette e obbliga) è indicativo della volontà di Campana di esplorare le possibilità semantiche e concettuali della poesia fino ai suoi limiti estremi.

Nell’Orfismo, infatti, la volontà di riforma all’interno del culto dionisiaco nasce – giusta l’influente opinione contenuta in Psyche di Erwin Rohde (la grande sintesi di storia delle religioni del 1894 la cui importanza non era sfuggita a Campana) – dal desiderio di spostare nella dimensione dell’ascesi e in forma catartica l’originaria caratterizzazione estatica, di culto e ritualizzazione dell’orgia che aveva contraddistinto la religione di Dioniso.

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F. De Sanctis: La dissoluzione delle forme nella Divina Commedia

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amanuense-web: trascrivo da F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Totino, Einaudi, 1958, vol 1, p.201. (f.s.)

[…] Il concetto dantesco, lo spirito che alita per entro al suo mondo, è dunque la progressiva dissoluzione delle forme, un costante salire di carne a spirito, l’emancipazione della materia e del senso mediante l’espiazione e il dolore, la collisione tra il satanico e il divino, l’inferno e il paradiso, posta e sciolta. Omero trasporta gli dèi in terra e li materializza; Dante trasporta gli uomini nell’altro mondo e li spiritualizza. La materia vi è parvenza; lo spirito solo è; gli uomini sono ombre; i fatti umani si riproducono come fantasmi innanzi alla memoria; la terra stessa è una rimembranza che ti fluttua avanti come una visione; il reale, il presente è l’infinito spirito; tutto l’altro è “vanità che par persona”. Questo assottigliamento è progressivo: il velo si fa sempre più trasparente. L’Inferno è la sede della materia, il dominio della carne e del peccato; il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in presenza; la pena non modifica i caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre si continua nell’altro mondo e s’immobilizza in quelle anime incapaci di pentimento: peccato eterno, pena eterna. Nel Purgatorio cessano le tenebre e ricomparisce il sole, la luce dell’intelletto, lo spirito; il terreno è rimembranza penosa che il penitente si studia di cacciar via, e lo spirito sciogliendosi dal corporeo si avvia al compiuto possesso di sè, alla salvazione. Nel Paradiso l’umana persona scomparisce, e tutte le forme si sciolgono ed alzano nella luce; più si va su, e più questa gloriosa trasfigurazione s’idealizza, insino a che al cospetto di Dio, dell’assoluto spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento: […]

Il volo della martora di Mauro Corona

Corona è uno scultore e un alpino, prima d’essere cantore delle montagne, dei boschi e di un’intera valle (Erto, Cassio, Longarone).

La raccolta di racconti Il volo della martora si divide in quattro parti: Alberi, Animali, Gente e L’erto cammino.

Nelle 26 brevi storie di questo libro si rivive la durezza, l’asprezza della vita sulle montagne e nella Valle del Vajont prima della tragedia che spazzò via in pochi istanti 2000 uomini, ovverosia 2000 microstorie travolte dalla furia dell’acqua che, su scala abbastanza grande rispetto alla vita di ogni uomo, vuol significare la fine della tradizione secolare di una comunità: era il 9 ottobre del 1963.

Lo scrittore di Erto è attratto in modo quasi incontenibile dalla suggestione delle memorie. Il ricordo, lontano, presenta le cose vissute come dietro una lente deformante, che ora esalta e trasfigura il passato dandogli l’aspetto di una favola meravigliosa, ora lo annebbia nella malinconia.

Infine, i temi principali della raccolta sono la natura, l’evocazione della vita povera e dignitosa della gente di montagna, gli antichi mestieri scomparsi nel passato divenuto sogno, il bracconaggio, i ricordi della sua infanzia, il taglio del bosco ed altro.

Scrive Claudio Magris nella prefazione: “Scrittore scarno e asciutto, e insieme magico nell’essenzialità con cui narra storie fiabesche e insieme di brusca, elementare realtà. I suoi racconti hanno l’autorità della favola, in cui il meraviglioso si impone con assoluta semplicità, con l’evidenza del quotidiano. In loro c’è comunione con la natura, col fluire nascosto e incessante della vita, e un’infinita, intrepida solitudine“.

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Racconti evocativi, semplici, onesti. A me il libro è piaciuto, nonostante alcune lievi cadute nella retorica del sentimento. Più che narratore, Corona è un cantastorie: poeta della memoria.

f.s.

[Mauro Corona, Il volo della martora, Mondatori (I Miti) 2003, pagine 208, euro 4,6]

La mano sulla fronte. “Arte estrema” e poetiche “vomitanti” di Santi Barbagallo

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 di Santi Barbagallo 

Una serie di fotografie in bianco e nero che il trascorrere degli anni ha lievemente ingiallito ritraggono una giovane donna nuda con un foglio di carta sul quale s’intravedono, scritti a mano, i versi di una poesia d’amore. Nella prima foto, la bella ragazza “di-corpo-vestita” (sic!) è in piedi, i capelli barboncinamente bioccoluti le nascondono il viso come nelle istantanee di una rivista  di “cronaca amatoriale”, la mano sinistra  è accostata cordialmente al pube mentre la destra mostra all’obiettivo la lettera d’amore con un bacio stampigliato sopra a mo’ di sensualissima firma. Le altre foto, variazioni sul tema, mostrano la donna in pose intime e spregiudicate, con ecografie molto rifinite, sempre col viso coperto dai capelli quasi per un accesso tenero e resipiscente di pudori fuori posto, o mal riposti, cioè tatticamente paradossali (s’intende: “voluti”), come l’ultima immagine, che la ritrae in posizione di decubito prono – mi si passi l’argotismo tomografico ma si tratta, almeno per ora, di essere “scientifici” o, come si dice, “au-dessus de la mêlée” (tricologica o riccioluta) – in tutto lo splendore del suo trionfo callipigico, ancora con la famosa lettera sbaciucchiata bene in vista. Su tutte le foto campeggia e risuona, ossidionale, il tam tam frenetico di un “disperato erotico stomp” (“che neroooo!”) che il selettivo ed essenziale monocromatismo fotografico esalta con l’incisività di un “true color”.

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Walden or life in the woods (Walden o vita nei boschi) di Henry David Thoreau

Nel 2000 lessi Walden or life in the woods (Walden o vita nei boschi), scritto dal ribelle, anarchico e non molto ottimista Henry David Thoreau.

Il libro contiene la sua diretta e veritiera esperienza di due anni di vita in una capanna nella solitudine delle foreste e dei laghi e la sua filosofia ribelle nell’amara constatazione che gli uomini si rendono volontariamente schiavi conformandosi alle tradizioni e alla società (in verità, andando a vivere solo qualche miglio da Concord: non è necessario andar lontano, insomma).

Per lui, ritrovare la natura doveva significare non essere più “macchina” vuota, non vivere più in “quieta disperazione”, riscoprire “i fatti esenziali della vita” e la propria autenticità umana.

Il libro registra ogni dettaglio: da come costruire una capanna con pochissimi attrezzi a come gestire le risorse naturali. Descrive i ritmi più profondi della natura e dell’autoconsapevolezza del suo animo in simbiosi con le idee, gli oggetti, i sentimenti.

«Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiarne tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici; se si fosse rivelata meschina, volevo trarne tutta la genuina meschinità, e mostrarne al mondo la bassezza; se invece fosse apparsa sublime, volevo conoscerla con l’esperienza, e poterne dare un vero ragguaglio nella mia prossima digressione. […]»

La legge cui Thoreau obbediva era una legge interiore e superiore, che non lasciava spazio a comode razionalizzazioni.

f.s.

Estensione del dominio della lotta di Michel Houellebecq

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Recensione/schizzo

Il protagonista del romanzo è un trentenne analista-programmatore presso una società di servizi informatici. Nichilista, misogino e misantropo, depresso, osservatore implacabile della banalità umana, inzuppato di noia e indifferenza, teorico ipercritico di una società basata sul sesso e danaro (“[…] noi viviamo in un mondo enormemente semplice: da un lato c’è un sistema basato sulla dominazione, sul denaro e sulla paura – un sistema decisamente maschile, che chiameremo Marte; dall’altro c’è un sistema femminile basato sulla seduzione e sul sesso, che chiameremo Venere. Tutto qua. È davvero possibile vivere e credere che non ci sia altro?”)

Ecco il protagonista de Estensione del dominio della lotta, romanzo d’esordio di Michel  Houellebecq. Romanzo disincantato, schietto e intransigente, ma al tempo stesso pieno di ironia e cinismo, con leggere sferzate sarcastiche.

 La prosa è asciutta, i capitoli brevi. Il tutto si accorda nel racconto gelido di un’esistenza il cui significato non si può afferrare. Esistenze sterili dentro un mondo sempre più estraneo e vuoto (“Questo mondo non mi piace. Decisamente non lo amo, la società in cui vivo mi disgusta; la pubblicità mi nausea; l’informazione mi fa vomitare…un inutile ingorgo per i neuroni”).

Non c’è speranza nel romanzo di Michel  Houellebecq, bensì solitudine e morte.

f.s.

[Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, Bompiani, 2000, pag. 152, euro 12,91]

Etimologia popolare: hamburger

 La lingua è un corpo vivo: si modifica, si combina continuamente. Lo sviluppo di forme contaminate e le retroinformazioni dimostrano che il mutamento morfologico, per esempio, può avere come conseguenza la creazione di nuove forme arbitrarie.

Ecco un esempio tratto dal libro di Lehmann:

<< Un elemento di questo genere che ha conosciuto uno sviluppo negli ultimi decenni è il suffisso inglese -burger In tedesco –er è un comune suffisso per la formazione di aggettivi derivati da toponimi, come in Berliner ‘berlinese’, Wiener ‘viennese’, Frankfurter ‘di Francoforte’. Alcuni di questi aggettivi venivano anche utilizzati per denominare particolari piatti tipici di una certa città, come Frankfurter (un tipo di salsiccia). La stessa sorte aveva avuto la parola Hamburger, ma una volta importata negli Stati Uniti, questa forma era stata reinterpretata come contenente la parola ham ‘prosciuto’ (benché il prosciutto non sia un ingrediente degli hamburger). Di conseguenza, la seconda parte della parola è stata reinterpretata come suffisso che denota un particolare tipo di bistecca, e utilizzata in altre forme come cheeseburger, fishburger, e via di seguito. Processi di questo tipo, in cui una forma viene interpretata in base a quella che si suppone sia la sua origine (come qui, ham + burger) vengono detti etimologie popolari>> (1).

(1) W. P. Lehmann, Manuale di linguistica storica, il Mulino, 1998, pag. 266

f.s.

Occhi di cane azzurro di Gabriel García Márquez

Recensione/schizzo #12

Gli undici racconti di Occhi di cane azzurro sono i primi scritti da Gabriel García Márquez. Li ho letti tre giorni fa e do qui un sommario quanto impreciso giudizio. Non è una recensione.

Il primo racconto, La terza rassegnazione, è datato 1947, mentre l’ultimo, Monologo di Isabel mentre vede piovere su Facondo, è del 1955. Il primo è un racconto confuso e noioso; l’ultimo è invece un racconto affascinante. La raccolta, dunque, si presenta in crescendo. Se infatti si deve registrare nei primi racconti il tentativo dell’autore colombiano di imitare Kafka e Faulkner, nel prosieguo della lettura le cose migliorano.

Nel complesso siamo dinnanzi ad una raccolta di racconti non bella, a mio parere, ma con qualche lampo interessante. Il grande scrittore era alle porte.

f.s.

[Gabriel García Márquez, Occhi di cane azzurro, Mondatori, 2000, pag. 126, € 5,68 ]

L’azzurra memoria. Poesie 1970-2005 di Luigi Fontanella

di Giuseppe Panella

Luigi Fontanella, L’azzurra memoria. Poesie 1970-2005, Bergamo, Moretti & Vitali, 2007, pp. 174, euro 11

Si tratta del libro di una vita – un’antologia che parla di un tempo ormai lontano e dell’esistenza trascorsa per approdare alla dimensione significativa di un presente in cui quel passato congruisce con la facilità (e la felicità) del sogno.

Le prime poesie antologizzate sono del 1970-1972 e appartengono a una raccolta (La verifica incerta, Roma, De Luca) che esibisce già la presenza dei temi che contraddistingueranno anche in futuro la poesia di Fontanella: il viaggio come dimensione espressiva della presa di distanza, l’apparizione larvale di un mondo in composizione (o talvolta in decomposizione – quello che successivamente il poeta chiamerà laicamente parusìe), i colori della realtà quale emergenza forte delle forme della Natura in contrapposizione al grigio dell’esperienza puramente culturale.

(“Di notte le strade ingoiate fanno all’amore / l’aria più scura negli stagni sospesi… / ci si perde in un muro di spazio richiuso / sognando uno stormire improvviso di rondini / con la palude nel corpo…” – si legge a p. 27).

Nelle sillogi immediatamente successive (La vita trasparente, Venezia, Rebellato, 1978 ; Simulazione di reato, Manduria, Lacaita, 1979 ; Stella saturnina, Roma, Il Ventaglio, 1989) il tono e il taglio della scrittura evolve lentamente, quasi per approssimazioni successive.

Non tanto per indebolimento della passione lirica ma per volontà di chiarezza e di espressione più purificata nella permanenza del verso, Fontanella tende maggiormente ad esporsi in proprio e a raccontare eventi preziosi per lo scatenamento della sua ri-scoperta dell’italiano:

Postilla ultima (a Adriano Spatola). Caro Adriano, l’aggressività non è una conquista / un attributo di qualità per far buoni versi / anche se tu gli dai l’appellativo / di “linguistica” (come malaggettivo). / Io non mi pongo programmi, vedi, / procedo per reazioni, ed è forse solo / una buona dose di disgrazia / che ci fa ancora aver fede” (p. 37).

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William Blake: “Nota del traduttore” di Roberto Rossi Testa

[Pubblico la nota che Roberto Rossi Testa scrisse per la rivista universitaria americana YIP. Quest’ultima accolse un’anticipazione dei testi poi confluiti nel volumetto di SE. Ringrazio l’autore per avermi concesso l’autorizzazione a pubblicare il testo su Retroguardia. f.s. ]

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NOTA DEL TRADUTTORE

(da Y I P Yale- Italian Poetry, Volume I, Number I, Spring 1997)

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di Roberto Rossi Testa

I Canti dell’innocenza e dell’esperienza mostrano, come indicato dalla stessa epigrafe dell’autore, le varie età del mondo e dell’uomo: in essi Blake passa quasi vertiginosamente, nel volgere di pochi versi, da ambientazioni pastorali volutamente stucchevoli ai drammatici scenari della Londra della Rivoluzione Industriale. Ma non bisogna credere che il “contenuto” influenzi più di tanto la “forma”, sottoponendola a torsioni e a sviluppi interni da testo a testo. E’ come se Blake avesse concentrato in un istante e in un punto tutte le emozioni possibili, per non esserne distolto nel seguito; e, concependo così l’intera doppia raccolta in un unico getto (ciò che in effetti non è), l’avesse poi realizzata sviluppando rigorosamente le proprie premesse. Le quali sono contenute nell’Introduzione ai Canti dell’innocenza: questa è una poesia dell’energia e del ritmo, che balla e che batte le mani; che potrà anche alludere a fatti terribili, e giungere magari a rappresentarli direttamente, ma senza mai far vestire al suo autore i panni del predicatore, del tribuno, o del pedante: figure tutte che rappresentano il perfetto contrario del vero profeta quale Blake è. Qui lui ci appare piuttosto come un impertinente che si compiace di asservire il modello cui si ispira (o meglio che ostenta), nella fattispecie quello della poesia popolare e per l’infanzia, al proprio gusto di “spararle grosse”: ma è proprio dalla velocità trascinante, dall’allegria tagliente, dallo schematismo impassibile che il suo “sparare grosso” attinge forza e verità. D’altra parte non ci sono soltanto Wesley e Watts in questa poesia, ci sono anche Gray e Milton; e c’è soprattutto la Bibbia in una lettura non certo popolare o infantile, e che già preannuncia gli esiti delle future opere profetiche.
C’è ancora un’osservazione importante da fare, che mi sembra corrobori quanto appena detto. Blake, oltre che poeta, fu pittore e illustratore superbo; ed anzi illustrò e stampò personalmente la maggior parte dei propri lavori, sulla base di intuizioni tecniche e di un concetto del proprio ruolo che fino a qualche anno fa potevano sembrare arcaici e che oggi si devono riconoscere come avanzatissimi. Da quelle sue edizioni possiamo trarre riguardo ai testi delle indicazioni che come è facile capire sono eccezionalmente preziose, anche perché sovente pare che Blake si studi di produrre delle frizioni fra testo e immagine dall’infinita malizia. Una poesia come “La Tigre”, ad esempio, la si potrebbe supporre corredata dalla raffigurazione di un mostro possente e orrendo, quintessenza della malvagità. Al contrario Blake la commenta con quello che sembra non più di un gattone di pezza. Incredibile a dirsi, ma è possibile che proprio Blake sbagli?
Quanto precede, che è ovviamente la base e la giustificazione delle mie scelte traduttorie, non ha la pretesa di giungere a conclusioni, ma proprio di far capire che con Blake a conclusioni è impossibile giungere. Da vent’anni leggo Blake, insieme a Dante lui è l’autore (ma anche l’Uomo, capace com’è di far parte a se stesso e di negare l’evidenza per crearne una più alta) con cui quotidianamente sento di dovermi confrontare. E in tutto questo tempo ho imparato (non è molto ma l’ho imparato bene) che Blake è difficile, inesauribile e pericoloso; che con lui è tutto enormemente più complicato, o più semplice, di quanto lo si penserebbe – o vorrebbe; che in lui tutto, la personalità la vita e l’opera, è un prismatico enigma, e fa pagare a caro prezzo i tentativi di strumentalizzazione.
Credo che questo mio lavoro, se non altro, abbia il merito di darne conto.

[Willam Blake, Canti dell’innocenza e dell’esperienza, SE, Milano 1997, trad. di Roberto Rossi Testa, pp.149, euro 13 ]

La teoria della letteratura e la sua storia

 di Giuseppe Panella

La teoria della letteratura e la sua storia

A proposito di Giovanni Bottiroli, Che cos’è la teoria della letteratura? Fondamenti e problemi, Torino, Einaudi, 2006, pp. 472

«Dimmi, perché lo stilema / il sintagma e l’idioletto / compaiono col fonema / in ogni tuo articoletto? // Perché ami tanto Jakobson / la metonimia e il significante / Claude Lévi-strauss and Sons, / il diacronico e il commutante? // Perché t’angoscia la differenza / tra fonetica e fonologia / E non puoi vivere senza Barthes e la semiologia?»

(Ennio Flaiano, L’uovo di Marx. Epigrammi, satire, occasioni)

E’ certamente molto importante il fatto che ogni tanto, nonostante il proliferare degli studi settoriali di ricerca, almeno qualcuno ci provi: dopo la buona riuscita del grosso volume di Adriano Marino (Teoria della letteratura, Bologna, Il Mulino, 1994) Giovanni Bottiroli si propone di rimettere insieme le molti parti che vanno a ricomporre l’edificio dei suoi diversi momenti di intervento sulla realtà della fabbrica letteraria, convergendo nei “fondamenti” (e nei “problemi” – così recita il titolo) per costruire un edificio nuovo (o almeno parzialmente nuovo). Studioso soprattutto di retorica, teorico dello stile ed assai affilato interprete dell’opera di Jacques Lacan per quanto compete la pratica della letteratura (una dimensione quest’ultima investigata a lungo dallo psicoanalista francese in maniera assai più compatta e significativa di quanto di solito si creda), Bottiroli tenta l’affondo della sintesi in un volume di ampia e rilevante significatività. Ma non vuole che si definisca affatto una “sintesi” il suo libro, bensì ribadisce che il suo intento è stato quello di redarre un’introduzione:

«Ho scritto questo libro perché credo che esista una forte richiesta di teoria, soprattutto presso i giovani: però l’accesso alla teoria non è facile, e non è immediato. I testi divulgativi, almeno a mia conoscenza, commettono l’errore di presentare delle sintesi – e in genere una sintesi, nonostante le buone intenzioni, non rende affatto comprensibile l’autore; ne fornisce solo un’idea, più o meno vaga. A ciò si aggiunge il difetto già segnalato da Hegel relativamente ai manuali di storia della filosofia: senza una prospettiva concettuale, la successione delle teorie appare come una disordinata “filastrocca di opinioni” (G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Firenze, La Nuova Italia, 1981, p. 20). Perciò ho deciso di scrivere un’introduzione e non una sintesi. Mi è sembrato indispensabile presentare, nella loro problematicità, i concetti che trasformano una visione in un programma di ricerca, e formano il terreno da cui nascono le tecniche. Non sarebbe stato possibile presentare  tutte le tecniche, cioè la ‘cassetta degli attrezzi’ della teoria letteraria; e in ogni caso sarebbe stato un errore dare la precedenza alle tecniche rispetto alle prospettive e ai problemi. Nella mia esposizione, ho scelto il tono della lezione universitaria, e ne ho mantenuto le caratteristiche: un filo conduttore sempre riconoscibile, una modularità evidenziata anche dall’indice tematico, il ricorso a schemi, talvolta ripresi e rielaborati, la frequenza degli esempi – non soltanto esempi didascalici, ma abbozzi di una possibile analisi testuale» (pp.XVII-XVIII).

 Il libro di Bottiroli vuole essere, quindi, un’introduzione alle teorie sulla letteratura piuttosto che una “nuova” interpretazione della stessa ma non rinuncia a cercare nelle pieghe della cultura novecentesca gli spunti adeguati a fornirla. Non è un caso che il volume si apra sotto il segno di Ferdinand de Saussure le cui teorie linguistiche sono fin troppo note perché sia necessario ripeterle o riassumerle nel contesto di una recensione. Il punto più  interessante riguardo questa scelta però è il fatto che le analisi del linguista ginevrino su langue e parole vengano accoppiate non solo alla ricostruzione linguistica dell’inconscio di Freud (e ovviamente di Lacan)  ma anche al pensiero estetico e linguistico-filosofico  di Heidegger.

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Diario inverso di Lucianna Argentino

Recensione/schizzo #11

Ad un anno dalla lettura di Diario inverso di Lucianna Argentino, ecco un breve resoconto per i lettori di Retroguardia.

Squisito il sentimento che mena la penna sino al fondo del libro. Le poesie di Diario inverso raccontano la paura e la solitudine che nasce da un amore infelice e dall’impossibilità di comunicare con l’amato. Del resto, la poetessa trae da un’esperienza personale, dai turbamenti e dal dolore, materia di poesia, senza eccedere in inquieti e morbosi stati d’animo, come spesso mi capita di leggere in tanta poesia contemporanea.

La raccolta è costituita da liriche di stupefacente essenzialità, dai toni levigati e vibranti, in cui il sublime e il quotidiano si mescolano disinvoltamente con improvvise escalations verso altezze metafisiche. In breve: scrittura densa d’emozioni e schietta.

f.s.

[Lucianna Argentino, Diario inverso, Manni, 2006, pagine 52, euro 8. Prefazione di Marco Guzzi]