Introduzione de “LO SCRITTORE NEL TEMPO. Friedrich Dürrenmatt e la poetica della responsabilità umana” di Giuseppe Panella

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di Giuseppe Panella

     La panne. Una storia ancora possibile (1956) di Friedrich Dürrenmatt è uno dei romanzi brevi più significativi e più corrosivi in una produzione letteraria che vuole, nello stesso tempo, ribellarsi sia alla credenza diffusa che vuole il romanzo ormai “defunto” sia all’altra convinzione, forse ancora più diffusa, che ne esclude le valenze ermeneutiche e conoscitive riguardo la società e la natura umana (1). Il romanzo, invece, per lo scrittore svizzero, è ancora uno strumento di indagine delle passioni e dei sentimenti umani proficuamente utilizzabile:

 

     «Esistono ancora storie possibili, storie degne di uno scrittore? Se non si vuole parlare di sé, generalizzare romanticamente o liricamente il proprio Io, se non si sente l’esigenza di parlare delle proprie speranze e sconfitte con sincera verosimiglianza, e del proprio modo di fare all’amore, come se la verosimiglianza desse a tutto questo un valore universale e non piuttosto clinico, o nel migliore dei casi psicologico – se manca il coraggio e si preferisce defilarsi con discrezione, difendere garbatamente la propria vita privata, procurarsi altro materiale da plasmare come fa uno scultore, lavorarci su, realizzarsi e tentare, come un tempo facevano i classici, di non farsi prendere subito dalla disperazione anche se è difficile negare la palese assurdità che ovunque si manifesta –, allora lo scrivere diventa un lavoro arduo e solitario, e anche insensato: non conta un ottimo voto in storia della letteratura (chi non ha avuto ottimi voti, quante abborracciature non sono già state premiate), sono più importanti le esigenze quotidiane. Anche questo è un dilemma, e la situazione del mercato è sfavorevole. Il mero divertimento l’offre la vita con il cinema serale, alla poesia provvede il giornale coi supplementi; in cambio d’un investimento maggiore, che da un punto di vista sociale è superiore a un franco, si chiedono profusioni d’animo, confessioni, verosimiglianza appunto, forniture di valori superiori, considerazioni morali, sentenze praticabili, asserzioni che avvalorino o accantonino, ora il cristianesimo, ora disperazioni in voga: letteratura, insomma». (2)

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“Arte allusiva” di Giorgio Pasquali

In un articolo del 1942, intitolato Arte allusiva e pubblicato su “L’Italia che scrive” (ora ristampato in Pagine stravaganti, II ediz., pp.275-282), Giorgio Pasquali così condensava il senso delle sue ricerche sulla poesia augustea:

 

«in poesia culta, dotta io ricerco quelle che da qualche anno in qua non chiamo più reminiscenze, ma allusioni, e volentieri direi evocazioni e in certi casi citazioni. Le reminiscenze possono essere inconsapevoli; le imitazioni, il poeta può desiderare che sfuggano al pubblico; le allusioni non producono l’effetto voluto se non su un lettore che si ricordi chiaramente del testo cui si riferiscono… Quel procedimento è (nella poesia augustea) essenziale. Anche se gli avvocati, medici, preti che per secoli hanno letto a scuola Virgilio e Orazio e l’hanno mandato a memoria non se ne sono accorti; quei due poeti, per tacere dei minori, presuppongono che il lettore abbia in mente, anche in particolari minuti, Omero ed Esiodo, Apollonio e Arato e Callimaco e chissà quanti Alessandrini, dei Romani per lo meno Ennio e Lucrezio, ma anche propri contemporanei».

  

L’allusione solo in rari casi consiste nella pura e semplice ripresa di un verso o di un’espressione di un modello; ciò era considerato troppo banale dai lettori latini; i procedimenti più frequenti sono quelli della variatio in imitando (ad es. Orazio, Epod.16, 33 che allude a Virgilio, Bucol. 4, 22) e dell’oppositio in imitando (si allude al contesto di un modello, ma si attribuisce a tale contesto il valore opposto)

f.s.

“La dimora in ombra dei suoi cristalli vivi”. Postfazione di Luigi Metropoli a “Impronte sull’acqua” di Francesco Marotta

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 La dimora in ombra dei suoi cristalli vivi (postfazione a Impronte sull’acqua)

di Luigi Metropoli

     L’impronta sull’acqua è qualcosa che non permane e non si trattiene. Un segno che tende al movimento più che alla posa. È voce più che scrittura, con tutte le conseguenze del caso. Scorrendo grossa parte della produzione di Marotta è sempre possibile scorgere un fil rouge, quel disporsi della parola come atto transitorio, quasi a farsi sostanza che partecipa dell’aria, del vento, di ciò che scorre (dell’acqua appunto), inafferrabile e mai testamentario. È una scelta di campo che, al di là di ogni ragione poetica, si pone come stile di vita, ricco di implicazioni sociali, politiche, in una parola: umane.

     La parola che partecipa dell’aria, come elemento naturale, è la parola che cresce con e nella realtà, in un rapporto complesso che confonde (da intendersi sull’etimo) la causa e la conseguenza di una nascita: è l’hic et nunc che adombrandosi apre all’altrove, declinandone la temporalità in un prima posto dinanzi a noi (e perciò innescando uno slittamento della dimensione-tempo, inducendola a trasmigrare, a rigenerarsi, dilazionarsi continuamente, a farsi attesa: «anche ieri / fa giorno da un / grumo di secoli», «la morte che / ci segue, che ci precede / in forma di stagioni») e in un luogo a cui si accede per negazioni e sottrazioni («un sogno / che cancella le tracce»). L’alfabeto è costitutivo del mondo, in un intreccio indecidibile (dice bene Guglielmin, quando, sottolineando le analogie tra la poesia del Nostro e quella di Jabès, ricorda la matrice grammaticale-derridiana della scrittura di Marotta).

    

     Errare è il verbo (e l’azione) soggiacente al disegno compositivo: l’essere nomade, viaggiare senza posa, che reca nell’accezione pur positiva, fondativa, eraclitea, un sapore di condanna, errore, peccato originale. Il compito della parola è quello di trovare un senso nei segni spesso illeggibili della realtà e della storia (privata o umana), è quello di porre un argine alla deriva, al disordine che pur fonda il reale. Perciò resta impossibile, nella prismatica girandola dei versi e dei verbi, estrarre un senso. Qui ogni segno vale se stesso e il contrario, in un azzeramento della logica aristotelica.

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“Non sottrarsi al dolore: un sofferto umanesimo”. Prefazione di Ivan Fedeli a “Impronte sull’acqua” di Francesco Marotta

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Non sottrarsi al dolore: un sofferto umanesimo (prefazione a Impronte sull’acqua).

di Ivan Fedeli

Francesco Marotta. Di professione fabbro, levigatore, cesellatore. Se la poesia è magma, materia da plasmare e – proprio per questo – in continuo divenire, nessuno più di Marotta dimostra da tempo di affinare gli strumenti necessari a forgiarla, renderla evoluzione, fabbrica di senso.

Impronte sull’acqua conferma questa ricerca più che ventennale: ricerca seria, inappagata, fuori dai riflettori della facile comunicazione e necessariamente dotata di forza etica, energia primordiale.

Perché è questo il primo dato che emerge dalla lettura di Impronte sull’acqua: alla sensazione iniziale di spaesamento, segue una ragnatela di immagini che ingabbia, modella, rivela. Energia poetica delle migliori.

Già in Per soglie d’increato, l’autore matura una precisa scelta formale: sostantivi assoluti, utilizzo di parole-cardine al centro delle lunghe monostrofe a cascata e di incipit visionari e rivelatori, spaccature – meglio ferite – del verso che s’interrompe improvvisamente sulle preposizioni, linguaggio volutamente analogico e oracolare.

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Fight club di Chuck Palahniuk

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Recensione/schizzo

Fight club, romanzo fra il pulp e la new age, descrive la nostra epoca consumistica e cinica a colpi di sarcasmo e violenza. La storia raccontata nel romanzo è singolare. Non la riassumerò per non rischiare di svelare troppo. Posso dire, però, che lo scrittore americano ci fa sussultare pagina dopo pagina lasciandoci in balia di infinite supposizioni che solo alla fine troveranno una verità.

I protagonisti lottano per non avere più nulla da perdere, lottano contro la Storia, lottano contro le cose che ti possiedono, lottano contro la paura della morte e contro l’alienazione. Tutto, insomma, farebbe apparire Fight club come un prodotto di un anarchico. Eppure non credo che un libro così fatto possa spingere il lettore a conoscere e a interpretare i propri istinti, a dominarli. Tuttavia possiamo dimenticare noi stessi per un po’. Leggendo il libro di Palahniuk, io mi sono divertito.

f.s.

[Chuck Palahniuk, Fight club, Mondadori, pag. 220, € 8,00]

“Il naturalismo e Zola: una teoria filosofica del romanzo” in ÉMILE ZOLA, SCRITTORE SPERIMENTALE di Giuseppe Panella

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[Pubblico qui l’introduzione “Il naturalismo e Zola: una teoria  filosofica del romanzo” in ÉMILE ZOLA, SCRITTORE SPERIMENTALE. Per la ricostruzione di una poetica della modernità di Giuseppe Panella, appena pubblicato da Solfanelli editore (collana Micromegas) . f.s. ]

di Giuseppe Panella

«Il metodo moderno che io tento di seguire consiste nel considerare le opere umane in particolare come fatti e prodotti di cui bisogna rilevare le caratteristiche e cercare le cause, e niente di più. Così intesa, la scienza non proscrive né perdona: constata e spiega … Fa come la botanica, che studia con ugual interesse sia l’arancio che l’abete, l’alloro come la betulla: essa stessa è una sorta di botanica, applicata non alle piante ma alle opere dell’uomo»

[…]

«Ancora, nell’opera d’arte è necessario che i caratteri di cui abbiamo riconosciuto il valore divengano quanto più possibile dominanti. E’ solo così che riceveranno il loro splendore e il loro rilievo; solo in questo modo saranno più visibili che in natura. A tal fine, bisogna evidentemente che tutte le parti dell’opera d’arte contribuiscano a manifestarli. Nessun elemento deve restare inattivo o distogliere altrove l’attenzione: sarebbe una forza impiegata alla rovescia. In altri termini, in un quadro, una statua, un poema, un edificio, una sinfonia, tutti gli effetti devono essere convergenti. Il grado di questa convergenza segna il posto dell’opera, ed ecco allora una terza scala che s’innalza a fianco delle prime due per misurare il valore delle opere d’arte»

(Hyppolite Taine, Filosofia dell’arte)

1. Un “giudice istruttore” della Storia

Nel 1880, quando è già ben noto per le polemiche suscitate con la pubblicazione di alcuni dei suoi romanzi più famosi (nello stesso anno, ad esempio, uscirà Nana che avrà il compito di rinnovare lo scandalo destato da L’Assomoir del 1876 e del quale dovrebbe essere la continuazione almeno virtuale), Zola pubblica un libro che ambisce al rango di testo di poetica del “nuovo romanzo” naturalista e che si chiamerà programmaticamente Il romanzo sperimentale.

Fin da questo titolo, l’opera vuole essere un omaggio all’opera di Claude Bernard, il grande medico autore dell’Introduzione allo studio della medicina sperimentale [1].

Ma, nonostante il tono sia quello di chi pubblica testi del passato anche remoto raccolti un po’ alla rinfusa e messi insieme con un puro intento documentario [2] (il che peraltro non era certo rispondente al vero), l’intento non è soltanto quello di divulgare e discutere la metodologia di ricerca di Claude Bernard ma quello di giustificare, in chiave estetica e soprattutto in quella “filosofica” il proprio impianto di pensiero alla base del gigantesco progetto narrativo del ciclo dei Rougon-Macquart.

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Per mia incompetenza

Resto sempre affascinato e sbalordito dalla sicurezza interpretativa di tanti lettori, professionisti e non, di poesia contemporanea, poiché per me le difficoltà di interpretazione di un testo di poesia sono tante. Eppure tale testo è fatto di parole; rispetta fino a un certo punto le regole del codice (registri, stili, scritture); rientra bene o male in un sistema letterario che, a sua volta, è incluso in un sistema linguistico; ha un rapporto intertestuale ed extraestetico. Eppure non poche volte mi risulta difficile riconoscere un testo poetico contemporaneo come tale.

Non mi consola Eco quando osserva che: «Un testo vuole lasciare al lettore l’iniziativa interpretativa, anche se di solito desidera essere interpretato con un margine sufficiente di univocità. Un testo vuole che qualcuno lo aiuti a funzionare». [1]

Non ho dubbi in merito. Non riesco ad intendere molta della poesia contemporanea per mia incompetenza metodologica e culturale. Eppure a me pare impossibile che in Italia ci siano così tanti poeti.

[1] U. ECO, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979, p.52

f.s.

Octavia di Seneca

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La tradizione manoscritta attribuisce a Seneca una tragedia praetexta, l’Octavia, che ha per soggetto l’infelice vicenda della prima moglie di Nerone, ripudiata e poi uccisa dall’imperatore, che si era invaghito di un’altra donna; fra i personaggi figura lo stesso Seneca e per alcuni studiosi questo è un indizio della non autenticità dell’opera: nessun autore drammatico dell’antichità, infatti, aveva mai rappresentato se stesso nei suoi lavori. Inoltre, l’Octavia non può essere di Seneca perché contiene delle predizioni esatte sul modo della morte di Nerone e, come sappiamo, alcuni anni prima Seneca ricevette dall’imperatore l’ordine di darsi la morte.

 

«[…] L’Octavia pseudosenechiana, pur informandosi al dettato aristotelico per i caratteri ed il contenuto, innova, presentando la superiorità del personaggio storico su quello mitico, propone un nuovo modello di comportamento scenico e morale e denuncia i limiti del verosimile.» [1]

Tuttavia, è opera non adatta alla rappresentazione scenica, ma è testo che si presta alla lettura. Infatti l’enfasi, i toni macabri, la ricerca del pathos sono artifici particolarmente adatti a colpire l’attenzione e l’immaginazione dell’ascoltatore grazie alla forza espressiva della parola.

 

Inoltre è possibile scorgere alcune anticipazioni del teatro elisabettiano, come, per esempio, la comparsa in scena dell’ombra di Agrippina, madre e vittima dell’imperatore romano. A me ricorda tanto il fantasma del padre in Amleto.

Nota

[1] PASQUALINA VOZZA, “Paradigmi mitici nellOctavia“, in “L’Antiquité Classique”, LIX, 1990. pp.113-138.

f.s.

[Seneca, “Octavia” in Tutte le tragedie, trad. Ettore Paratore, pp. 575-627, Newton Compton editori, 2006, € 7,00]

Inchiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce

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Recensione/schizzo

“Voi chi dite che io sia?” chiede Gesù ai discepoli. La risposta non è semplice. Corrado Augias, noto giornalista, e Mauro Pesce, biblista e storico del cristianesimo, hanno tentato di dare una risposta a quella domanda in Inchiesta su Gesù, un libro scritto nel tentativo di ricostruire la figura storica di Gesù.

Le notizie di cui disponiamo sono frammentarie e scarse le fonti in merito. Gli studiosi hanno discusso a lungo sulla figura “storica” di Gesù. Si tratta, però, di una discussione dai limiti evidenti, perché le informazioni giunte a noi grazie ai quattro vangeli canonici e ai vari vangeli apocrifi sono assai manipolate e, quindi, presentano vari problemi storiografici. Tuttavia, Inchiesta su Gesù è un libro che invita il lettore ad allargare la propria conoscenza e la propria consapevolezza storica, anche perché, come scrive il prof. Pesce nella postfazione, “la ricerca storica rigorosa non allontana dalla fede, ma non spinga neppure verso di essa”.

f.s.

[Corrado Augias – Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù, Mondadori (I miti), 2007, pp.356, € 6,00]

GARANTIRE IL COLPEVOLE. Logica dell’errore giudiziario. Postfazione di Giuseppe Panella a “L’ERRORE GIUDIZIARIO. L’affaire Dreyfus, Zola e la stampa italiana” di Massimo Sestili

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Postfazione al volume L’errore giudiziario. L’affaire Dreyfus, Zola e la stampa italiana a cura di Massimo Sestili

di Giuseppe Panella

 

“La sala straripava di gente: malgrado le imposte, il sole filtrava dentro qua e là e l’aria era già soffocante. Avevano lasciate le vetrate chiuse. Mi sono seduto e i gendarmi sono venuti a mettersi uno per parte. E’ a questo punto che ho visto una fila di facce davanti a me. Tutte mi guardavano: ho capito che erano i giurati. Ma non saprei dire che cosa li distinguesse l’uno dall’altro. L’impressione che avevo era soltanto questa: ero di fronte a una panca del tram e tutti quei viaggiatori anonimi osservavano il nuovo arrivato per scoprire ciò che era ridicolo in lui. So bene che era un’idea sciocca perché qui non era il viaggiatore che cercavano, ma il delitto. Comunque la differenza non è tanto grande e in ogni modo è questa l’idea che mi è venuta”

   (Albert Camus, Lo straniero, trad. it. di Alberto Zevi, Milano, Bompiani, 196713 , pp. 102-103).

 

    Dreyfus, Crainquebille e altre vittime di una giustizia sempre più “giusta”

 

Il solido lavoro e l’accanita ricerca che Massimo Sestili ha compiuto per anni per ricostruire l’impatto che l’affaire Dreyfus ha avuto sulla cultura italiana e europea conserva caratteristiche di originalità anche in un contesto già abbondamente studiato e verificato storicamente come quello relativo alle tragiche vicende giudiziarie subite dallo sfortunato capitano francese di origine alsaziana.

Il segno lasciato dall’affaire nella cultura francese di fine secolo lasciò cicatrici non facilmente rimarginabili se non a costo di immensi sacrifici umani e politici.

E, infatti, bisognerà aspettare il gigantesco “lavacro di sangue” della Prima Guerra Mondiale e l’approdo allo “spirito di Verdun” per ritornare ad una dimensione di Union Sacrée tale da ripetere e riproporre l’unità nazionale in termini simili a quelli nati dalle battaglie contro l’invasore durante la Rivoluzione del 1789 o dalla resistenza contro l’avanzata prussiana in territorio francese del 1870. La cesura introdotta dall’affaire nella storia di Francia fu, per questo motivo, davvero epocale.

Ma la ricostruzione di Massimo Sestili (e le sue implicazioni storiografico-politiche) impongono non soltanto un riesame in chiave storica dell’impatto avuto dall’affaire nel mondo culturale e politico europeo quanto un riepilogo della sua “fortuna” in ambito letterario e soprattutto la sua valutazione in una dimensione più generalmente teorica.

Dall’esame delle risultanze del processo e della detenzione del capitano francese si desume, in primo luogo, quanto la giustizia sia tanto più efficace quando è libera dalla necessità di scoprire a tutti i costi un colpevole “immediato” e che l’azione giudiziaria (in buona sostanza e dopo essersi scrollati di dosso i cascami retorici e burocratici dei sogni sulla possibilità della sua “giustezza” assoluta) si riduce quasi sempre alla ricerca del colpevole.

Il che coincide poi (ancora quasi sempre) con la ricerca di un colpevole (qualunque esso sia e quanto incredibile esso sia da un punto di vista logico e indiziario – il caso della Colonna Infame di manzoniana memoria docet ancora oggi e temo probabilmente per sempre) (1).

Il compito della giustizia (qualsiasi sia l’ordinamento politico, sociale, morale, di classe, di ceto o di categoria economica cui fa riferimento e di cui è il braccio armato) è, quindi, quello di garantire sempre l’esistenza di un colpevole.

Riches, grand commis della giustizia del paese immaginario (ma che a uno sguardo più attento non sembra poi più tale) in cui si svolge l’azione de Il contesto. Una parodia di Leonardo Sciascia non ha dubbi al riguardo. 

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PAULU PIULU. Intervista a Giorgio Morale di Sebastiano Aglieco

[Pubblico qui l’intervista rilasciata da Giorgio Morale a Sebastiano Aglieco, pubblicata su Scritture in attesa (il blog è stato cancellato). A suo tempo segnalai l’intervista perché mi parve bella. Ringrazio Giorgio Morale per avermi inviato il testo. Inoltre, tra non molto, Manni editori pubblicherà il nuovo romanzo di Morale: Acasadidio (collana Pretesti). f.s.]

di Sebastiano Aglieco

1. Nel tuo romanzo di recente pubblicazione PAULU PIULU, pubblicato da Manni, emerge chiaramente quanto dobbiamo, nella nostra vita, ai padri, agli insegnanti, agli avi. O quanto non dobbiamo, a seconda dei punti di vista.

A volte ancora adesso guardandomi allo specchio cerco in me i tratti delle persone a cui somiglio; allo stesso modo a volte faccio il gioco di dirmi: “Cosa devo a questo e cosa a quello?”, cominciando da mio padre e mia madre, da insegnanti e conoscenti, e trovo cose di cui sono debitore, riconoscibilissime. Ad esempio, devo a mio padre, mi dico, la pazienza e l’accettazione della fatica, a mia madre una certa inclinazione sentimentale… e così via. Altre cose invece sono nate, in modo altrettanto evidente, come reazione agli altri, come una correzione di quanto ho visto o mi è stato proposto e che più o meno coscientemente ho rifiutato. Ad esempio, ho rifiutato la chiusura della mia famiglia di origine e ho cercato a mio modo di volgerla in apertura, e chi sa, forse anche questo lo devo a mio padre e a mia madre, il sentire l’apertura non come un dato di fatto ma come un bisogno e una conquista.

Perciò direi che il mondo in cui nasciamo è comunque il nostro riferimento, nel bene e nel male; alla fine però ognuno trova la sua strada, senza che l’esito possa essere prevedibile. Sempre più vivere mi pare infatti un’avventura, sulla cui conclusione non trovo altro da dire che le parole antiche di Erodoto: “Di tutte le cose bisogna vedere come vanno a finire”.

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“EVA E ADAMO” di Marinella Galletti. SCEMPIATI TASSELLI DI UN UNIVERSO IN COSTRUZIONE di Alfonso Lentini

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di Alfonso Lentini

Mi scrivi: “La terra che attraversiamo è in parte raccolta negli specchi della nostra casa. Noi siamo questi specchi, che vanno consumandosi nel viaggio intrapreso. Siamo la loro lucentezza e il loro lento offuscamento”.

(Flavio Ermini, Il moto apparente del sole)

 

Tagliando idealmente a metà in senso verticale il corpo di un essere umano, notiamo che (in base a quella che viene comunemente definita “simmetria bilaterale”) esso è formato di due parti specularmente identiche.

C’è dunque nel corpo (e forse anche nella natura) degli umani una sottile armatura specchiante, inesauribile fonte di mille diramazioni mitologiche, iconologiche, religiose, filosofiche, fra cui spicca un’allusione al mito dell’Ermafrodito, cioè alla coesistenza del due nell’uno; e alle due nature, femminile e maschile, che solo se fuse insieme conducono a una qualche completezza, per quanto problematica. C’è nei corpi (e forse nella natura umana) questo taglio verticale, questa ferita primigenia: un’interfaccia speculare che ognuno porta celata dentro di sé. Una cerniera che separa, si direbbe. Ma anche una tessitura che “rispecchia” e per questo tende a gettare ponti, riannodare. Come quella dell’orizzonte, è una linea che distacca ma nello stesso tempo congiunge terra e cielo.

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Novità libri: “Èmile Zola. Scrittore sperimentale. Per la ricostruzione di una poetica della modernità” di Giuseppe Panella

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[Panella Giuseppe,  Èmile Zola. Scrittore sperimentale. Per la ricostruzione di una poetica della modernità, Editore Solfanelli  (collana Micromegas) 2008, 120 p.,  € 9,00]

Note di copertina

La statura intellettuale e letteraria di Émile Zola (Parigi, 1840-1902) non avrebbe bisogno di particolari presentazioni. Padre della corrente letteraria del Naturalismo e autore di una lunga serie di romanzi (solo il ciclo dedicato alle vicende umane e sociali dei Rougon-Macquart occupa uno scaffale di ben venti volumi), Zola è stato una personalità eminente nelle lettere e nella cultura francese del secondo Ottocento.
Tuttavia la sua figura è più nota oggi per l’intransigente partecipazione all’affaire Dreyfus (è celebre il suo articolo “J’accuse!” che riaprì il caso giudiziario relativo all’ufficiale francese accusato ingiustamente di spionaggio) che per il suo contributo alla ridefinizione del romanzo moderno.
     L’obiettivo di questo libro è, invece, quello di cercare di illustrarne la poetica per temi scelti attraverso una serie di analisi relative alle sue opere principali per verificarne testualmente l’attualità. In appendice al volume viene pubblicata la traduzione di Omaggio a Zola, il controverso discorso tenuto da Louis-Ferdinand Céline nel 1933 in onore dell’autore di Nanà – in esso emerge una lettura inconsueta e sconvolgente del destino della letteratura venuta dopo il Naturalismo nell’epoca del totalitarismo incombente.

 

Giuseppe Panella si è laureato in filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa dove attualmente insegna. Si è occupato di storia dell’estetica (ha curato la Lettera sugli spettacoli di Jean Jacques Rousseau per Aesthetica Edizioni di Palermo e Il paradosso sull’attore di Denis Diderot per La Vita Felice di Milano) e in particolare del concetto di Sublime (Il Sublime e la prosa. Nove proposte di analisi letteraria, Firenze, Clinamen, 2005). Più recentemente è passato ad occuparsi di teoria della letteratura e di filosofia del romanzo moderno (ha curato l’edizione del romanzo Jcosameron di Giacomo Casanova, Milano, La Vita Felice, 2002) e i volumi monografici: Alberto Arbasino, Firenze, Cadmo, 2004, Lo scrittore nel tempo. Friedrich Dürrenmatt e la poetica della responsabilità umana, Chieti, Solfanelli, 2005 e Il lascito Foucault (in collaborazione con Giovanni Spena), Firenze, Clinamen, 2006. Come poeta, ha pubblicato otto volumi di poesia, tra i quali Il terzo amante di Lucrezia Buti (Firenze, Polistampa, 2000) ha vinto il Fiorino d’oro del Premio Firenze dell’anno successivo.

f.s.