Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaire Dreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)
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di Giuseppe Panella
Conversa acabada. Michela Murgia, Accabadora, Torino, Einaudi, 2009
Acabar in lingua spagnola vuol dire finire, terminare (lo stesso termine identico si ritrova in portoghese). La parola accabadora (di solito accoppiata con il sostantivo femmina) aveva nella cultura sarda il compito di designare una persona che si prendeva il compito oneroso e furtivo (ma mai retribuibile) di condurre alla fine inevitabile i malati terminali o quelli ormai considerati inguaribili dai medici oppure di difficile accudimento da parte dei familiari. Secondo Francesco Alziator, uno dei più cospicui studiosi delle tradizioni folcloriche della terra di Sardegna (è suo un testo fondamentale come Il folklore sardo, Bologna, Edizioni La Zattera, 1957, poi frequentemente ristampato anche nell’isola), il compito dell’ accabadora, tuttavia, non era soltanto quello materiale di finire il malato terminale soffocandolo con un cuscino (o con un piccolo giogo di legno appoggiato sotto il cuscino del letto in cui esso era adagiato) quando mettere in scena un rito di separazione dalla vita antico quanto il mondo. Si tratterebbe, in questo caso, di una figura che profila i compiti delle divinità psicopompe così frequenti nelle religioni di tutto il mondo e che nella mitologia cattolica assume i tratti dell’Arcangelo Michele.
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