CLERICUS DI UN ALTRO MEDIOEVO. I due tempi della poesia di Luciano Fintoni. Saggio di Giuseppe Panella

[Immagine: Wilhelm Hammershoi, Interno con ragazza al pianoforte (olio su tela, 1901)]

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«…la vita secondo un disegno si manifesta nella coscienza facendo apparire l’interna ‘necessità’ a cui è soggetta ogni parte come ‘volontà’»

(Ernst Bernhard, Mitobiografia)

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di Giuseppe Panella

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1. Il primo momento: elegia lirica e riflessione cosmica

 

In Tempo immite, una raccolta di sonetti in metro classico pubblicata nel 1985 dall’Editore Luciano Manzuoli di Firenze, Luciano Fintoni  scriveva:

«Oh, le sere, le sere fra gli ulivi / di Bellosguardo ! Non dimenticare / le sere fra gli ulivi, quelle rare / sere di madreperla sopra i rivi // persi, affogati fra i fumi cattivi / del nostro tempo e la città che appare / sfocata, in basso. Le ferite amare / delle sirene tagliano i declivi, // il verde pallido, il cemento, il cuore / atteso ai rosa densi. Non ha prezzo / la bellezza e la grazia, ti dicevo // una volta. Non so se era un errore. / Sono vissuto in un’età di mezzo, / io, clericus di un altro Medioevo» (1).

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QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.71: Aforismi per tutto quello che resta. Alberto Casiraghy,” Gli occhi non sanno tacere. Aforismi per vivere meglio”

Aforismi per tutto quello che resta. Alberto Casiraghy, Gli occhi non sanno tacere. Aforismi per vivere meglio, con un testo di Sebastiano Vassalli, Novara, Interlinea, 2010

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di Giuseppe Panella*

Alberto Casiraghi (che preferisce, però, la più esotica versione Casiraghy) non scrive poesia (anche se ne pubblica parecchia e di altissima qualità nelle sue ormai mitiche Edizioni PulcinoElefante). I suoi “aforismi per vivere meglio”, tuttavia, ricordano la poesia più di quanto degli aforismi tradizionali dovrebbero fare. Essi, infatti, sono intrisi della “sostanza di cui sono fatti” i versi proprio perché la loro scansione lirica non ha nessuna funzione analitica o “didattica” come, invece, gli aforismi filosofici o politici (o scientifici – come insegna la storia della scienza stessa) avrebbero da dichiarare. Casiraghy preferisce stupire o illuminare o almeno inquietare i suoi lettori piuttosto che insegnare qualcosa. Preferisce mostrare tutto e dare da conoscere tutto quello che pensa o in cui crede. Scrive Sebastiano Vassalli nella sua Presentazione al libro:

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STORIA CONTEMPORANEA n.74: Ansia esistenza sovrana. Giorgio Todde, “Dieci gocce”

Ansia esistenza sovrana. Giorgio Todde, Dieci gocce, Milano, Frassinelli, 2009

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di Giuseppe Panella*


Giorgio Todde è un medico (per la precisione un oculista) ma il suo non è un medical thriller. Dopo cinque romanzi noir dedicati al medico-imbalsamatore Efisio Marini (un personaggio realmente esistito), questa sua narrazione dedicata alla storia di un’angoscia durata tutta la vita è tutto fuorché una vicenda dal taglio diagnostico (e quindi consolatorio). Mario ha sempre sofferto di ansia, di svenimenti, di trasalimenti legati alla salute e alla necessità di vivere comunque una vita normale, come tutti fanno nel corso del tempo che passa. Archivista modello, creatore poetico di altrimenti gelide pratiche burocratiche che cerca di arricchire di umanità, Mario ha bisogno di una vita inquadrata entro perimetri ben definiti, quasi ferrei, per non stramazzare sotto il peso di essa. Sua madre, rimasta solo dopo la morte del padre ma ormai insofferente alla presenza costante del figlio in casa, vorrebbe che il suo unico e immobile rampollo si sistemasse e la lasciasse vivere fino in fondo la sua relazione con il pur anziano dottor Cosimo, da molto tempo medico di famiglia. E’ quest’ultimo a prescrivere a Mario le “dieci gocce” di tranquillanti che danno il titolo alla narrazione di Todde. Ma le gocce non sempre bastano e anche una vita che eviti ogni compromissione con il mondo esterno (esemplare è l’abitudine di Mario di andare al lavoro rigorosamente chiuso nella sua automobile con i finestrini praticamente sigillati) non è sufficiente a preservare dall’impatto spaventoso con una vita odiata e temuta. Un giorno, però, una ragazza dal “collo indifeso” e dalle belle ginocchia unite gli passa a fianco anch’essa difesa da un’automobile ben chiusa. Il collo e le ginocchia di quella donna lo attirano ma Mario cerca di evitare la tentazione. Aprirsi e proiettarsi all’esterno gli sembra troppo pericoloso:

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Racconti morali. Simone Ghelli, “L’ora Migliore e altri racconti”

Simone Ghelli, L’ora Migliore e altri racconti, Edizioni Il Foglio, 2011, pp.81, € 10,00

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di Francesco Sasso


La raccolta di Simone Ghelli (Cecina, 1975), scrittore e critico cinematografico, è formata da undici racconti già usciti in antologie, fanzine, siti, riviste e oggi raccolti in volume con il titolo L’ora Migliore e altri racconti.

Nella premessa, l’Autore scrive:

«Questi racconti abbracciano un arco temporale lungo sei anni, durante i quali l’acqua ha continuato ad accompagnarmi nel mio modo di procedere, di farmi portare dalla scrittura anziché anteporle una trama; forse perché la mia vita, sin dall’inizio, è stata messa in mano d’altri» (p.7)

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IL TERZO SGUARDO n.30: Una vita nel cinema e per il cinema. Marino Biondi, “Fellini: il sogno italiano. Cinquant’anni dalla “Dolce vita””

Una vita nel cinema e per il cinema. Marino Biondi, Fellini: il sogno italiano. Cinquant’anni dalla “Dolce vita”, Cesena, Società Editrice Il Ponte Vecchio, 2010

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di Giuseppe Panella*


Sono già passati cinquant’anni da quel 5 febbraio del 2010 in cui La Dolce Vita fu proiettato per la prima volta a Roma e il suo fascino di film epocale non è ancora stinto e trascorso sugli scaffali delle Cineteche in cui  vengono conservati i film non più distribuiti nelle sale. Si trattò davvero (e la consapevolezza di questo suo destino era già presente nelle menti di chi lo vedeva per la prima volta) di un film destinato a costituire un punto di passaggio nell’immaginario collettivo e nella cultura sociale del suo tempo. Ci fu chi ne parlò male e lo criticò severamente bollandolo come film immorale e da censurare per i suoi contenuti negativi e nichilistici (la parte più retriva del clericalismo italiano ma non tutti i cattolici, soprattutto quelli più aperti al dialogo iniziato con l’elezione al soglio pontificio di Giovanni XXIII; molti esponenti della sinistra delusi dall’abbandono definitivo del neorealismo da parte di Fellini, ma non Elio Vittorini, ad esempio, cui il regista riminese aveva proposto la parte dell’intellettuale suicida Steiner).

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QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.70: Oltre la geremiade. Gianmario Lucini, “Sapienziali (Nove sequenze e 36 poesie)”

Oltre la geremiade. Gianmario Lucini, Sapienziali (Nove sequenze e 36 poesie), Novi Ligure (Alessandria), Puntoacapo Editrice, 2010

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di Giuseppe Panella*


«[…] Le colpe di nessuno sono accumulate / per il disgusto collettivo fra i canneti / rifiuti con nomi e cognomi / che nessuno osa pronunciare / che nessuna forza della Legge / potrebbe mai indagare. // So di essere un poeta indisciplinato / e scrivo versi brutti raccontando le brutture / so d’aver deviato / dileggiando i canoni estetici: / scrivo corsaro e veloce in prosa / versi che mai avrei voluto scrivere / se altra fosse stata la coerenza / fra l’ideale e l’esperienza; // ma l’esistenza qui pare un beffardo / rifiuto d’ogni decenza / e anche il volto di Dio sembra fuggire / nella luce del mare avvelenato. // Vorrei scrivere che ho trovato la parola / quella sola che raddrizza ogni stortura / ma sono coerente / col mio niente che domanda e tace» (pp. 65-66).

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Remainders n.2: Cicerone, “Lettere”

Cicerone, Lettere, introduzione di Luca Canali, trad., comm. e scelta di Riccardo Scarcia, BUR, 1981, p.320

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di Francesco Sasso

Le Lettere di Cicerone, oltre ad essere un documento e una fonte preziosa per la conoscenza delle vicende politiche e della società romana dell’epoca, hanno la vivacità di una narrazione avvincente in cui si racconta l’esistenza di un uomo alla ricerca di un equilibrio tra le alterne vicende di un’epoca turbinosa, da Catilina a Ottaviano. Infatti le Lettere, selezionate e tradotte da Riccardo Scarcia per l’edizione BUR, ci presentano l’autore latino sotto una luce non sempre favorevole.

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STORIA CONTEMPORANEA n.73: “Mimicry” e letteratura. Francesco Recami, “Il ragazzo che leggeva Maigret”

Mimicry e letteratura. Francesco Recami, Il ragazzo che leggeva Maigret, Palermo, Sellerio, 2009

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di Giuseppe Panella*


Il ragazzo Giulio ha solo tredici anni ma ha già un fisico ben formato (è grosso, ha le spalle larghe e un’ombra di pelo sulle labbra) e dei gusti ben definiti: gli piace la cucina saporita e un po’ greve della madre composta essenzialmente di piatti di carne e di dolci con la panna e ama leggere i romanzi di Georges Simenon, soprattutto le storie con protagonista il commissario Maigret (d’altronde si chiama Giulio proprio come lui…). La sua passione per le inchieste del grosso e umanamente ispirato poliziotto del Quai des Orfevrès gli ha fruttato il nomignolo di Maigret con il quale lo interpellano quasi tutti quelli che lo conoscono (tranne i genitori, ovviamente). Suo padre è il fattore di una tenuta, quella di San Vittore (come quella di Saint Fiacrei in cui era vissuto Maigret fino al momento di trasferirsi a Parigi), che ha certamente conosciuto momenti migliori e che ora si è ridotta ad un’unica fattoria e a non molti vigneti e capi di bestiame. Il proprietario è la Contessa di San Vittore ormai vedova ma c’è anche un erede, detto il Signorino, che non bada agli affari di casa ma si concede un’intensa vita mondana, auto di lusso (possiede una Porsche 3600 Carrera) e donne di livello superiore al normale anche come pretese economiche. Maigret va a scuola dove va bene ma non ha molti amici – è appartata, più serio di quanto lo siano i ragazzi della sua età, pensoso e con una forte vena di immaginazione creativa. Giulio è in realtà più  “adulto” di quanto dovrebbe essere e ha molta più esperienza di altri ragazzi.

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Arcadie e disincanti. Sebastiano Vassalli poeta della Neoavanguardia. Saggio di Giovanni Inzerillo

Arcadie e disincanti.  Sebastiano Vassalli poeta della Neoavanguardia

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di Giovanni Inzerillo

Dire non significando nulla, dunque;

ma dire, appunto, per necessità di significare.

 

Pochi sanno, ad oggi, che Sebastiano Vassalli uno dei maggiori scrittori in prosa della nostra letteratura contemporanea, conosciuto esclusivamente per i suoi romanzi, abbia esordito nella veste di poeta. L’esordio vero e proprio avviene nel 1965 con Lui (egli) a cui segue, nel 1968 Disfaso, raccolta di poesie di chiara impronta neoavanguardistica. L’epigrafe, tratta dalla citazione di Franco Cavallo alla raccolta, ben sintetizza lo stile poetico del primo Vassalli, fortemente attratto dai giochi funambolici della Neoavanguardia e da uno sperimentalismo capace di sfruttare tutte le potenzialità della parola.

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IL TERZO SGUARDO n.29: Le notti di Dino Campana. Monika Antes, “Tra sogno e realtà. La vita e l’opera di Dino Campana. «I Canti Orfici»”

Le notti di Dino Campana. Monika Antes, Tra sogno e realtà. La vita e l’opera di Dino Campana. I “Canti Orfici”, trad. it. di I. Becchino e R. Nanini, Firenze, Polistampa, 2010

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di Giuseppe Panella*


Sono lontani i tempi in cui Dino Campana veniva considerato un poeta “minore” rispetto a Giosuè Carducci o Gabriele D’Annunzio e la sua opera veniva letta come l’espressione straordinaria di una mente malata o la produzione unica di un folle tanto bravo come scrittore quanto pazzo come uomo.

La critica letteraria del periodo successivo alla morte del poeta di Marradi ha sfatato questo pregiudizio di carattere psichiatrico (frutto di una testimonianza – sicuramente interessante e pregevole – ospitata dal medico Luigi Pariani nel suo Vita non romanzata di Dino Campana scrittore che è del 1938) o puramente aneddotico preferendo insistere piuttosto sulle qualità innovative formali del linguaggio campaniano. Il progetto di scrittura di Campana era stato del tutto ignorato dalla critica al momento in cui emerse con la realizzazione del grande poema orfico:

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QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.69: Lezioni di intimità. Roberta Degl’ Innocenti, “Un vestito di niente” e “D’aria e d’acqua le parole”

Lezioni di intimità. Roberta Degl’ Innocenti, Un vestito di niente, prefazione di Paolo Ruffilli, Venezia, Edizioni del Leone, 2005; Roberta Degl’Innocenti, D’aria e d’acqua le parole, prefazione di Paolo Ruffilli, Venezia, Edizioni del Leone, 2009

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di Giuseppe Panella*


Scrive Paolo Ruffilli nella sua nota introduttiva a Un vestito di niente della Degl’Innocenti che è del 2005 e immediatamente precede D’aria e d’acqua le parole, quasi suo preludio simbolico e in qualche modo simpatetico:

«La poesia di Roberta Degl’Innocenti è commisurata a regole precise, a canoni addirittura classici. Limpida, trasparente, lucidissima, sul piano della forma; ma densa e avviluppata in improvvisi nodi drammatici, quanto a sostanza (“Respiro aria in odore di tempesta… In pensiero limpido pianto erba maligna”). Anche se alla fine la ricomposizione delle forze, sia pure attraverso spasmi e singulti, fa dichiarare: “Respiro aria in sinfonia di tramonto”. Dove, a vincere, è la pace. In un bilanciamento, improvviso, di paura e desiderio (binomio o aporia cari all’autrice di questi versi). La fuga del tempo, il defilarsi delle occasioni, la corsa in avanti e, in fondo, il dissolversi graduale della vita non hanno partita vinta in questa poesia, che appare consegnata alla consapevolezza dell’incontro paradossale tra l’eterno e il tempo, tra l’infinito e il finito, su una linea di confine che la morte non sembra in grado di violare» (Un vestito di niente, pp. 6-7).

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Dario Schönberg: “Là dove nessun uomo è mai giunto prima” e “La mistica del granello di sabbia”

Dario Schönberg, Là dove nessun uomo è mai giunto prima, Andrea Oppure Editore 2009, pp.209, € 8,00

Dario Schönberg, La mistica del granello di sabbia, Andrea Oppure Editore 2010, pp.160, €10,00

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di Francesco Sasso

Le due opere Là dove nessun uomo è mai giunto prima (2009) e La mistica del granello di sabbia (2010), entrambi pubblicati da Andrea Oppure Editore, rappresentano il tentativo poetico di un uomo che desidera conciliare i principi di fondo della ricerca esistenziale con le istanze politiche dell’Italia contemporanea. Nato a Tarvisio (Udine), Dario Schönberg (1956) vive e lavora a Venezia. Le due opere qui segnalate si qualificano per un’ossessiva esigenza di concretezza e verità. Questo avviene attraverso l’esibizione minuziosa di ogni piega dell’anima del poeta, con la tipica tendenza istintiva allo scavo psicologico e alla confessione disarmante delle proprie frustrazioni personali. Le tante liriche, a nostro giudizio troppe e troppo spesso ripetitive, trovano qua e là squarci illuminanti, accenti profondamente sinceri, ciò soprattutto nelle brevi note intimistiche:

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