“La «petite musique» di Céline”. Saggio di Domenico Carosso. (Parte II)

Louis-Ferdinand CélineLa «petite musique» di Céline (seconda parte)

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di Domenico Carosso

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Céline e Proust

Il riferimento a Proust è inserito nella presentazione che Céline fa dell’attività di Madame Herote, la quale

«Unissant les couples et les désunissant avec une joie au moins égale, à coups des ragots, d’insinuations, de trahisons, imaginait du bonheur et du drame sans désemparer. Son commerce n’en marchait que mieux».

Così Proust,

«Mi-revenant lui-meme, s’est perdu avec une extraordinaire ténacité dans l’infinie, la diluante futilité des rites et démarches qui s’entortillent autour des gens du monde, gens du vide, fantômes du désirs, partouzards indécis attendant leur Watteau toujours, chercheurs sans entrain d’improbables Cythères».1

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“La «petite musique» di Céline”. Saggio di Domenico Carosso. (Parte I)

celineLa «petite musique» di Céline (prima parte)

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di Domenico Carosso

Capire l’argot per leggere Céline non basta, tanto più che l’autore è consapevole del rapido invecchiamento di lingue e dialetti, che guarda con fastidio, come una possibile fonte di blocco mentale, come sanno i suoi lettori francesi. E d’altronde l’uso che Céline fa delle 37 varianti argotiche contate da Henri Godard, il suo maggiore studioso, non è mimetico, ma occasionalmente omeopatico, come dice bene il traduttore italiano Ernesto Ferrero, il migliore, con Gugliemi e Celati.

Il problema è andare verso l’asprezza tagliente di Céline, la densità fauve che caratterizza la sua pagina, tenendo conto che il suo intraducibile jazz è quello di chi è cresciuto sotto le vetrate del passage Choiseul, nel II Arrondissement, tra l’odore di orina, i merletti inamidati della madre Marguerite, le canzoni di Aristide Bruant, dure ed epiche, e di Fréhel, forti e commoventi. Nella voce stessa di Céline, nel suo modo di parlare e nella sua scrittura, c’è sempre il suono di una vecchia parlata da faubourg, un impasto di gerghi vari che per sonorità e cadenze non ha niente a che fare col francese scolastico.

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IL TERZO SGUARDO n.54: Franco Ferrarotti, “Al Santuario con Pavese. Storia di un’amicizia”

Franco Ferrarotti, Al Santuario con PaveseFranco Ferrarotti, Al Santuario con Pavese. Storia di un’amicizia, Bologna, EDB, 2015

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di Giuseppe Panella*

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«Ciò che forse non è stato capito dai contemporanei è che in Pavese, come del resto in Adriano Olivetti, benché in tutt’altro modo, era sempre presente e nel fondo, misteriosamente operante, un sentimento religioso che lo rendeva estraneo allo storicismo “laicistico” allora dominante e lo spingeva invece allo studio dei grandi miti, archetipi strutturali, racconti metastorici, risposte criptiche alle pulsioni profonde che costituiscono l’uomo in società. Vico e Frazer al posto di Hegel, per non parlare dei suoi garruli italici nipotini. Ricordo come se fosse ieri che provammo un sommesso divertimento nel riuscire a far passare sotto il naso del crociano-marxista Ernesto de Martino il libro antropologico- strutturale di Theeodor Reik da me tradotto» (p. 49)1.

Franco Ferrarotti, giunto alla soglia dei novanta anni, rievoca, con passione e accoratezza, la passata e condivisa amicizia con Cesare Pavese. In un libro breve ma denso e tutto concentrato sui fatti, il sociologo vercellese racconta del suo incontro con lo scrittore di Santo Stefano Belbo, del loro rapporto di confronto produttivo e qualche volta di scontro, della loro corrispondenza e del loro ritrovarsi a ogni snodo della loro vita (fino all’interruzione brusca ma non imprevedibile legata al suicidio di Pavese). Pavese emerge come “un uomo complesso e privato”, con un interesse serrato e vibrante per la dimensione mitopoietica della vita umana, delle origini della coscienza, del senso ultimo e profondo della vita. – una dimensione astorica che urtava con i convincimenti più forti dell’ambiente culturale in cui egli vive e da cui traeva linfa. La sua fama di “eterno adolescente” affibbiatogli dalla critica letteraria italiana (in ultimo in un saggio pur importante come quello di Cesare Segre che costituisce la sua introduzione all’ultima edizione di Il mestiere di vivere2) ha continuato da sempre a perseguitarlo.

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SUL TAMBURO n.15: Ilaria Gaspari, “Etica dell’acquario”

Ilaria Gaspari, Etica dell'acquarioIlaria Gaspari, Etica dell’acquario, Roma, Voland, 2015

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di Giuseppe Panella

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L’”acquario” indicato e profilato nel titolo è la Scuola Normale Superiore di Pisa, l’istituto universitario di eccellenza dove anch’io ho studiato e dove attualmente insegno. Ma il luogo descritto nelle pagine rarefatte e impregnate di dolorosa malinconia del romanzo di Ilaria Gaspari è ben diverso da quello in cui io ho vissuto alcuni degli anni più intensi (e più interessanti e felici) della mia vita. L’acquario è metafora (è il caso di dirlo) del tutto trasparente di una vita alienata e vissuta al di fuori dell’esistenza quotidiana degli altri esseri umani (quelli che godono la loro giovinezza e i vent’anni e non passano il tempo soltanto a studiare per gli esami universitari e a specializzarsi in discipline esoteriche e conosciute solo da pochi eletti); l’etica non è (o non è soltanto) la dottrina filosofica che permette di comportarsi in maniera adeguata nel mondo ma allude a una forma di etologia il cui oggetto di studio sono soprattutto gli uomini e non soltanto le specie animali. I normalisti che risultano gli attori protagonisti di questo romanzo che oscilla tra la confessione morale e il thriller hanno vissuto la loro “meglio gioventù” in un acquario e, come i pesci rossi della vasca del giardino del Collegio Timpano, si sono gonfiati, imbruttiti, divenuti irriconoscibili (i pesci rossi descritti nel romanzo hanno subito questa in-necessaria mutazione perché qualche bello spirito ha pensato bene di gettare dei piranha nello specchio d’acqua dove vivevano, i giovani studiosi perché costretti a una vita di rinuncia e di competitività esasperata).

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