IL TERZO SGUARDO n.57: Adriano Tilgher, “La filosofia di Leopardi e altri scritti leopardiani”

Adriano Tilgher, La filosofia di Leopardi e altri scritti leopardiani, a cura e con un introduzione di Raoul Bruni, Torino, Aragno, 2018

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di Giuseppe Panella*

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Adriano Tilgher è certamente più famoso per i suoi studi sulla filosofia teatrale di Luigi Pirandello e le sue analisi del teatro contemporaneo (Studi sul teatro contemporaneo, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1923 e sgg.) e per la sua grottesca e sconcertante liquidazione del pensiero di Giovanni Gentile (Lo spaccio del Bestione trionfante, Torino, Gobetti, 1926) che per la sua analisi del pensiero di Leopardi. Eppure è stato uno dei primi a valutare positivamente Leopardi come pensatore e a rifiutare la stroncatura che della sua poesia aveva fatto proprio Benedetto Croce (la celebre definizione di una “vita strozzata” che si trova in Poesia e non poesia del 1923, anno della sua prima edizione). Scrive Raoul Bruni nel suo intelligente saggio introduttivo a questo volume che raccoglie tutti gli interventi leopardiani del pensatore di Ercolano:

«Con La filosofia di Leopardi, Tilgher fornì un contributo fondamentale alla conoscenza del pensiero leopardiano. Eppure questo saggio viene quasi sempre ignorato o trascurato nei manuali di storia letteraria, che attribuiscono il merito di aver scoperto il valore filosofico dell’opera di Leopardi a Cesare Luporini, e al suo fortunatissimo saggio Leopardi progressivo» (p. IX).

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Francesco Muzzioli, “Mario Lunetta. La scrittura all’opposizione”

Francesco Muzzioli, Mario Lunetta. La scrittura all’opposizione, Odradek, Roma, 2018, pp. 141, € 16,00

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di Antonino Contiliano

Un poligrafo alchimista e proliferante. Una vita e una parola oppositiva, l’opera di Mario Lunetta. Una scrittura anti-sistema-mondo variamente proposta ma sempre nell’ottica di una espressione polisemica e plurilinguistica aggressiva. Una lotta materialista e una sottrazione engagé – giocate tra denuncia e demistificazioni, autoironia, ironia e sarcasmo (troskianamente permanente, direi) – che, nonostante il degrado invadente e pervasivo del sistema-mondo e della stessa “Forma Italia” (sventrata e sminuzzata dal capitalismo globalizzato dell’impresa finanziarizzata) mai sono dimentiche della possibilità antagonista-alternativa: hasta la vista, “il giovanissimo nome di comunismo”. Una scelta e un “fine vita” che Mario Lunetta (caro il caravaggesco moto “Senza Speranza. Senza Paura”) affida ai versi dell’opera “L’allenamento è finito” (Robin, Torino, 2016) e che Francesco Muzzioli richiama a chiusura della prima parte – “Il percorso poetico” – dello studio monografico (p. 65) che gli dedica. Ne riportiamo il pezzo:

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SUL TAMBURO n.75: Gianluca Barbera, “Magellano”

Gianluca Barbera, Magellano, Roma, Castelvecchi, 2018

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di Giuseppe Panella
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«12 settembre 1568. Mi chiamo Juan Sebastián del Cano – detto el Perro, il cane – e, come la maggior parte dei miei connazionali senz’altro ricorda, ho viaggiato in qualità di nocchiero sulla Trinidad, al fianco di Ferdinando Magellano, per un anno, sette mesi e diciassette giorni: tanti ne ho contati. Delle cinque caracche partite per sfidare gli oceani con a bordo duecentosessantacinque uomini di equipaggio solo una tornò, la Victoria, che il destino aveva posto sotto il mio comando, quale ultimo ufficiale rimasto di tutta quella gran spedizione; invero la più piccola e fragile della flotta dopo la Santiago, affondata tra i crepacci del Rio Santa Cruz, ad appena due gradi di latitudine dallo stretto di Todos los Santos, da noi scoperto il 1 novembre dell’anno di grazia 1520. Sì, io ebbi la ventura (o chiamatela come vi pare) di essere stato uno dei diciotto uomini cui fu concesso di fare ritorno, dopo tre anni intorno al globo e avventure e tragedie al di là di ogni umana sopportazione. Io, Sebastián del Cano, el Perro, lo confesso, qui, ora, per la prima volta, ho tradito il mio comandante e ammiraglio, Ferdinando Magellano, nel più abietto dei modi…»

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SUL TAMBURO n.74: Rita Monaldi – Francesco Sorti, “Malaparte – Morte come me”

Rita Monaldi – Francesco Sorti, Malaparte – Morte come me, Milano, Baldini & Castoldi, 2016

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di Giuseppe Panella
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Rita Monaldi e Francesco Sorti sono autori molto conosciuti di romanzi storici e di brillanti ricostruzioni satiriche di eventi del passato che probabilmente non hanno bisogno di presentazioni per il vasto pubblico dei loro lettori. Le vicissitudini del loro primo romanzo, Imprimatur, pubblicato con buon successo da Mondadori nel 2002 e poi non più ristampato dallo stesso editore per ragioni mai compiutamente emerse nel corso della violenta polemica che ne seguì, sono state anch’esse l’oggetto di un importante dibattito sulla scrittura letteraria e i condizionamenti esterni esercitati su di essa (ne parlai proprio su Retroguardia in anni non sospetti, per la precisione il 16 luglio del 2009). Nel 2016, pur proseguendo la serie di romanzi storici incentrati sulla figura della spia vaticana Atto Melani e le sue imprese politico-poliziesche ambientate in tutta Europa (alla conclusione della serie mancano i due volumi conclusivi), i due scrittori hanno deciso di dedicare un ampio e intrigante volume a una vicenda poco nota della biografia umana e intellettuale di Curzio Malaparte, ambientandola in gran parte nella Capri mondana di fine anni Trenta. Ma la storia della persecuzione poliziesca ai danni dello scrittore pratese, la ricostruzione delle sue indagini effettuate con lo scopo di evitare l’arresto e un processo che ne avrebbe distrutto la reputazione e infine la scoperta della verità sulla misteriosa morte di Pamela Reynolds, giovane poetessa dal profilo dolcissimo con la quale Malaparte aveva avuto quattro anni prima un breve flirt, non esauriscono la fitte rete di rimandi storici, politici, letterari e umani che attraversano e sorreggono la potente ricostruzione effettuata dai due autori.

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SUL TAMBURO n.73: Domenico Cipriano, “L’origine”

Domenico Cipriano, L’origine, Forlimpopoli (Forlì-Cesena), L’Arcolaio, 2017

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di Giuseppe Panella
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Che cosa c’è alle scaturigini prime, all’origine vera e profonda della poesia, della sua produzione inevitabile? Cipriano ha pochi dubbi al proposito, c’è il ritmo, c’è la musica, c’è la scansione delle parole che si intrecciano con il suono e il significante prodotto dal suono stesso.

«Io sono / tutte le terre che ho visitato / anche se da una sola / ho preso vita. // Lì / è rimasta ferma una ferita / per ogni passo / trascinato stanco / per ogni sguardo / che non mi riconosce. // E sono tanti i segni sul mio corpo / che ha tracciato la poesia / di chi / non ha più un luogo / e chiede asilo» (p. 15).

E’ il primo testo poetico, quello che apre la raccolta, e dà il senso dell’operazione messa in atto da Cipriano. L’origine della poesia affonda nel passato, in un passato così lontano che di esso rimane poco da analizzare e di condividere – si può soltanto accertarne l’esistenza e trasformarla in una parola che cerchi di delimitarlo. Il poeta rappresenta, di conseguenza, ciò che esiste fin dagli albori e lo sintetizza nelle sue parole del presente. Il corpo vivente della poesia si rastrema nell’immagine del corpo ferito del poeta che porta su di sé i segni del percorso che lo porta verso la propria autorealizzazione. La scrittura poetica non ha luogo definito e si realizza sempre nell’esilio della mente dove avviene ciò che la rende visibile e comprensibile ai più.

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