ESERCIZI DI LETTURA n.9: A scuola da Lev Nikolaevič, con nostalgia e gratitudine

Pietro Citati, Tolstoj, Adelphi, Milano, 1996 (ed. cit. 2007)

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di Gustavo Micheletti

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A scuola da Lev Nikolaevič, con nostalgia e gratitudine. Qualche nota in margine al libro di Pietro Citati su Tolstoj

Non è semplice scrivere un libro su uno scrittore come Lev Nikolaevič Tolstoj senza scadere nel già detto o nello specialismo critico-letterario. La sua personalità e la sua opera sono già state più volte rivoltate e analizzate e dire qualcosa di nuovo, o anche il voler proporre rielaborazioni semplicemente interessanti di quanto già scritto, potrebbe rivelarsi un’impresa vana o troppo ambiziosa.

È vero che Pietro Citati è solito cimentarsi in maniera programmatica con simili imprese (basti pensare, tanto per fare solo qualche esempio, alle monografie su Goethe, Kafka e Leopardi) ma l’impressione è che un progetto tanto impegnativo possa essersi originato in lui solo grazie a un sentimento simile a quello che Vas’ka Morozov, uno degli alunni di Lev Nikolaevič nella scuola di Jasnaja Poljana, nutriva verso il suo vecchio maestro: un sentimento composito di ammirazione, nostalgia e gratitudine. Il ricordo delle giornate trascorse da Vas’ka ad ascoltare i suoi racconti, il giocare con lui a pallate di neve, le passeggiate nei boschi e le lunghe conversazioni sulla terrazza dopo tanti anni risplendevano ancora luminose nelle sua anima e rischiaravano la sua vita.

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L’infinito Leopardi per la contemporaneità. Vincenzo Guarracino, “Poeti per l’infinito”

Vincenzo Guarracino, Poeti per l’infinito, Di Felice Edizioni, 2019, pp. 186, € 20,00

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di Stefano Lanuzza
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Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / E questa siepe, che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”…: è l’incipit che contrassegna e fa volare i quindici endecasillabi sciolti dell’Infinito, dodicesimo dei Canti inclusi nella raccolta degli Idilli (1826) leopardiani dove la tendenza lirica romantica si fonde con una volontà realistica che contraddice l’introspezione puramente contemplativa e perfino arcadica troppo a lungo attribuita al poeta dalla critica idealistica.

L’Infinito, nella sua versione originale marcato con una I maiuscola che tuttavia non vuole suggerire un’interpretazione metafisica del testo, è composto negli anni 1818-’19 dal ventenne Giacomo Leopardi, “giovane” detto “favoloso”, prima del regista cinematografico Mario Martone nel 2014, da Anna Maria Ortese: “Così ho pensato di andare verso la Grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme, da cento anni, il giovane favoloso” (Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi. In Da Moby Dick all’Orsa Bianca. Scritti sulla letteratura e sull’arte. A cura di Monica Farnetti, Adelphi, 2001).

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ESERCIZI DI LETTURA n.8: Dostoevskij e la fede in un Dio assente. Pietro Citati, “Il male assoluto”

Pietro Citati, Il male assoluto, Adelphi, Milano, 2013

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di Gustavo Micheletti

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Dostoevskij e la fede in un Dio assente

Sull’impossibile morte di Dio in Dostoevskij, tra Delitto e castigo e I Demòni, ne Il male assoluto di Pietro Citati.

Ne Il male assoluto Pietro Citati si sofferma sull’opera di alcuni scrittori del XIX secolo, tra i quali, tanto per citarne solo alcuni, Goethe, Manzoni, Dickens e Hawthorne, sul cui rapporto con la Legge e il Peccato avanza considerazioni particolarmente incisive e illuminanti.

Sebbene tutti gli scrittori di cui si parla nel libro siano accomunati dal non aver mai rinunciato a riflettere, attraverso alcuni dei loro personaggi più significativi, sull’inconfutabile presenza del male nel mondo, la parte del saggio dalla quale sembra di poter desumere il senso del titolo è quella dedicata a Dostoevskij, e in particolare all’autore di Delitto e Castigo e dei Demòni.

Su Rascol’nikov e Sonia, sul loro rapporto e su quello che entrambi hanno rispettivamente con Dio, scrive quanto segue: “Cosa è allora il Cristo predicato appassionatamente da Sonja? Un punto lontanissimo che non si manifesta mai sulla terra, e sta nascosto tra i veli del più lontano futuro. La prova della sua esistenza sta nella sua assoluta irrealtà, nella sua inesistenza visibile. Il regno di Cristo, che avviene non sappiamo dove, forse nemmeno nel cielo, troppo limitato per contenerlo, affonda le sue radici nella disperata disarmonia di questo mondo” (P. Citati, Il male assoluto, Adelphi, Milano, 2013, p. 277).

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LE METAMORFOSI E I MITI. Indagine su Pietro Civitareale (agosto, 2008) [In memoria]

[Ogni primo del mese segnaleremo alcuni saggi del Prof. Panella usciti su RETROGUARDIA da gennaio 2008 a oggi. (f..s.)]

di Giuseppe Panella 

 

1. Il perimetro del soggetto possibile

 

«Virbio. […] La colpa è mia, credo. Ma ho bisogno di stringere a me un sangue caldo e fraterno. Ho bisogno di avere una voce e un destino. O selvaggia, concedimi questo.

Diana.  Pensaci bene, Virbio-Ippolito. Tu sei stato felice.

Virbio.  Non importa, signora. Troppe volte mi sono specchiato nel lago. Chiedo di vivere, non di essere felice»

(Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò)

 

 

Anche il poeta – qualsiasi poeta, forse – chiede alla sua poesia di riuscire a vivere e a durare, anche a costo di rinunciare alla felicità. La sua richiesta riguarda la capacità di capire attraverso la scrittura poetica quale sia il suo posto nel mondo e quale perimetro esso ritagli nell’economia dell’essere e del trovarsi in esso. Nella maggior parte dei casi, quel perimetro coincide con la crescita della propria soggettività in esso e attraverso esso, alla ricerca del salto di qualità che gli permetta di bruciarlo.

Pietro Civitareale è uomo schivo ma non umbratile. Seguita da tempo il proprio lavoro di poeta senza concedersi tregua ma anche senza eccedere in un inutile presenzialismo o in quello squallido sgomitamento senza risparmio che spesso contraddistingue anche molti poeti laureati.

Più noto ormai come poeta in dialetto abruzzese (e come studioso e catalogatore degli exploits lirici in questa lingua esatta ma resa marginale dalla grande omologazione in atto ad opera dell’italiano televisivo), Civitareale è anche robusto e definitivo poeta in lingua.

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