Storie ed eventi storici n.5: Bartolomé de Las Casas, “La leggenda nera”

Bartolomé de Las Casas, La leggenda nera. Storia proibita degli spagnoli nel Nuovo Mondo, Jouvence, 2018

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a cura di Francesco Sasso

Bartolomé de Las Casas (Siviglia, 11 novembre 1484 – Madrid, 17 luglio 1566)  è stato un vescovo cattolico spagnolo impegnato nella difesa dei nativi americani. Per comprendere quali conseguenze ebbe l’esplorazione e poi la colonizzazione spagnola in alcuni territori del Nuovo Mondo, basta leggere queste poche righe tratte da La leggenda nera.

«Il governo di Hispaniola [Haiti] assegnò, ad ogni spagnolo che lo richiedess, a chi 50 a chi 100 indiani, fra cui vecchi, donne incinte e puerpere. Egli permise, nonostante questo fosse contro la legge, che gli spagnoli trascinassero via gli uomini capi di famiglia nelle miniere d’oro anche 10, 20, 30, 40 e 80 leghe [1 lega = 6 km circa] lontano da casa e che lasciassero nelle case e nelle fattorie le donne a svolgere il lavoro dei campi. Così succedeva che gli uomini e le loro mogli praticamente non si incontravano mai e le nascite cessarono. Essi per l’aratura non avevano zappa o aratro trainato da buoi, ma come i loro antenati dovevano spezzare la terra con bastoni induriti dal fuoco. Così gli uomini morivano nelle miniere d’oro, le donne per la fatica nei campi e i neonati morivano perché non venivano allattati e questa grande isola fiorente ben presto si spopolò.

I governanti spagnoli colpivano gli indiani con lo scudiscio e con il bastone, li frustavano, li schiaffeggiavano, li prendevano a calci, e non li chiamavano mai in altro modo che cani. Così si verificò la progressiva estinzione di questi infelici e nulla di questo si seppe in Spagna»

da Bartolomé de Las Casas, La leggenda nera, a cura di A. Pincherle, Feltrinelli

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Il “Teatro anatomico” di Mario Lunetta

Mario Lunetta, Teatro anatomico, Fermenti, 2020, pp. 150, € 15,00

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di Stefano Lanuzza
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“… teatro senza spettacolo…” (C. Bene, Autobiografia di un ritratto”, 2002).

Nel variegato mondo letterario romano dal Secondonovecento a oggi, Mario Lunetta resta una figura indimenticabile di poligrafo autore di un’opera che spazia dalla poesia alla narrativa, alla saggistica, alla critica militante, al giornalismo. Di rilievo, con le sue incursioni nell’ambito dell’arte figurativa, anche una produzione teatrale non ancora pubblicata per intero.

Relativamente alla ricerca drammaturgica di Lunetta appare preziosa la sua raccolta postuma Teatro anatomico (Roma, Fermenti, 2020, pp. 150, € 15,00): “5 pièces inedite” (Smash, 1983; Un grande leone fulvo, 1985; Ma il mondo non c’è più, 1987; Beatitudine, 1997; Arkadia nonsense, 1999; Rancore, s.i.d.) che, scritte in tempi diversi, escono con una testimonianza dell’attrice Giuliana Adezio e la cura di Francesco Muzzioli, anche autore della monografia Mario Lunetta. La scrittura all’opposizione (2018).

Implicitamente ambientato, si potrebbe immaginare, in contesti romani borghesi variamente delocalizzati – con vago antefatto un Moravia che, in Gli indifferenti (1929) come in molti racconti, spesso adotta per le proprie narrazioni dei moduli teatrali –, il teatro lunettiano mette in scena personaggi dall’Io incerto e franto, maschere intente a giocare con la propria sfuggente immagine, soggetti blandamente doloranti. Caratterizzati da una psicologia contraddittoria e da scambi verbali che restano sospesi nella negazione o nel non-detto, si nascondono quando non si rivelano appena con accenni che denunciano velleità ciarlatanesche o problematiche irrisolte, amarezze senza riscatto, ipocrisie, ambiguità, passioni abortite o malate.

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GLOSSA n.1

GLOSSA 1

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a cura di Francesco Sasso

– Evocare tempi migliori in un momento di sofferenza malinconica. Questa idea conta illustri precedenti, dal Boezio di De Consolatione Philosophiae e dall’Ovidio delle Epistulae ex Ponto al Dante di Inferno V.

– Nel Medioevo la letteratura era inserita in un orizzonte che permetteva di collegare i classici antichi con autori contemporanei senza filtri storici. Per loro non esisteva nemmeno il concetto di “classico”, che si fisserà soltanto a partire dal XVI.

– La nascita delle “universitas” tra il XII e il XIII secolo, porta un dato rivoluzionario rispetto alle concezioni medievali del lavoro intellettuale: l’insegnante universitario riceve una paga e si forma una nuova opinione circa il prestigio e l’utilità sociale dell’uomo di cultura. Si insinua la nozione che il lavoro culturale deve essere remunerato in denaro. San Bernardo polemizza aspramente contro questa moderna venalità della scienza, che per lui, essendo un dono di Dio, non può essere venduta e, quindi, non è collegata a finalità materiali ed economiche. Quanti San Bernardo oggi propongono lavori culturali gratis e dicono… “tanto a te non costa nulla”

– È significativo, o forse no, che la storia della letteratura italiana si inaugura con l’intervento casuale di un ignoto copista veronese che accenna al proprio lavoro a margine di un’orazione mozarabico (Indovinello veronese scoperto nel 1924 da Luigi Schiaparelli alla Biblioteca Capitolare di Verona).

Altresì, il primo vero documento ufficiale della lingua italiana è il Placito capuano, una testimonianza inserita in un documento giuridico del 960. Insomma, ad oggi, per ciò che ci è dato sapere, un religioso che scrive facezie e una testimonianza giuridica sono alla base della nostra storia letteraria.

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Giuseppe Panella e il coraggio che segna questo nostro tempo [In memoria]

A un anno dalla scomparsa dell’intellettuale che viveva a Prato

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di MICHELE BRANCALE

 

Prato, 24 maggio 2020 – C’è un’assenza che parla, che fa desiderare il ritorno, di superare quel senso del limite su cui Giuseppe Panella (1955-2019), scomparso un anno fa, scherzava. E’ in fondo il ministero e il mistero di ogni assenza. “Conosco il giorno e l’ora/e il tempo giusto per vivere/felice./ Ho provato la sensazione esatta/ di una felicità infinita/ il giorno stesso in cui sono morto/ e rivissuto/ come una sorta di Lazzaro redivivo”. Il senso del limite lo abbiamo scoperto in questa stagione segnata dall’emergenza sanitaria e anche alla luce dell’epidemia trovano pregnanza alcuni versi de ‘L’occasione della poesia’ che, più passa il tempo, più assumono lo spessore del testamento di un uomo che si era preparato all’arrivederci (“tempo di attendere altro tempo ancora/ per concludere il ciclo di ciò che è stato”), cercando il senso stesso di una vita “che il rumore sordo/ del destino riempie/ di storico coraggio”. C’è un coraggio che segna questo nostro tempo ed è negli umili che resistono, negli anziani che non ce l’hanno fatta e in coloro che prendono l’iniziativa per difenderli e sono medici, infermieri, preti (come quelli della bergamasca o della diocesi di La Spezia), volontari e tanti tanti altri che di quel coraggio, di quella forza di vita, non vogliono fare a meno perché il senso del limite si supera lì.

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Storie di scuola. Alfonso Lentini, “Le professoresse meccaniche”

Alfonso Lentini, Le professoresse meccaniche, Graphofeel, 2019, pp. 155, € 13,30

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di Stefano Lanuzza
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“‘Razionalismo è l’idea che noi si possa sempre comprendere tutto sullo stato dell’essere’. È un viaggio verso la morte. Lo è sempre stato. […] Ma l’ altro motivo per cui siamo qui sono i sogni e i sogni sono irrazionali. […] forse dovremmo cominciare ad accettare (solo nell’inconscio per ora e con un’infinità di remore dovute a ritardi culturali) una diversa definizione dell’esistenza. L’idea che non arriveremo mai a comprendere tutto sullo stato dell’essere. E se il razionalismo è un viaggio verso la morte, allora l’irrazionalismo potrebbe essere il viaggio verso la vita… almeno fino a prova contraria” (S. King, The Stand, 1978, 1990).

Le professoresse meccaniche (Roma, Graphofeel, 2019, pp. 155, € 13,30), come un traslato o quasi una parodia del quadro delle Muse inquietanti (1918) di De Chirico, è il titolo del secondo racconto dell’omonimo libro di Alfonso Lentini, da cui possono ricavarsi pagine-campionatura ognuna emblematica. In esso, l’autore stabilizza la sua visionarietà fingendo dapprima la biografia, risalente all’infanzia e poi alla contemporaneità, di un personaggio ultracentenario rammemorante aure metafisiche con meccani e manichini che assumono vita propria richiamando certe atmosfere, oltre che dechirichiane, dei Bontempelli, Paola Masino, Dino Buzzati o d’un simpatetico Savinio con le sue le metamorfosi animalistiche; senza trascurare le magnetizzazioni dei quadri di Escher…

Sulla scorta di cotali maestri, l’autore prende a fare i conti con parvenze che solo la mancanza d’immaginazione fa credere siano quelle comunemente intese o interpretate. Poiché esistono, se vuoi, anche una “Valle Taciturna” stretta tra i monti, una “scuola senza suoni” con un “insegnante di Silenzio”, bizzarri “grattacieli nani” e “scalatori di Roseti”, “cercatori di Dei” e un’“Isola delle Bidelle”, “demiurghi uranici” e un fenomenologo dell’Invisibile, una “professoressa Volante” e uno “zio dal Collo lungo”, un “Professore a rotelle” docente di “Lucore Lunare”, una “Macchina Emanatrice di Buio” e un “Reclutatore di Bambini prodigio”…, distopiche fenomenologie non approssimabili a prima vista e disposte in un contesto alieno dove ciò che conta non è “l’amore per il prossimo, ma l’amore per il lontano”… Vi sono anche dei modi di percepire il senso ‘distante’ delle cose senza determinarne l’assoluta identità o negarne i processi combinatori, le mutevolezze illimitate, le avventure oniriche, le variazioni e ripetizioni, le inaspettate trasformazioni e le repentine sparizioni.

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Stefano Lanuzza, “Caos e bosco”

Stefano Lanuzza, Caos e bosco, Oèdipus, 2020, pp.199 €16,00

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di Francesco Sasso

Durante la lettura di Caos e bosco di Stefano Lanuzza, pensavo “ bisogna sì rifare la società degli uomini, ma la società che s’andrà organizzando dovrà apparire come il colmo del disordine”. Il libro di Stefano Lanuzza è un ibrido, un collage di titoli giornalistici, appunti di un moralista, aforismi, saggi brevi. Al centro il caos e il bosco (metafora della vita).

L’autore sembra volerci segnalare che, quando un’epoca s’avvia alla consunzione, appaiono segni di stanchezza e di smarrimento; ma dopo, qualcosa si modifica, ciò che prima era parso inevitabile malanno, poi sembrerà un beneficio comune.

Stefano Lanuzza in questo libro afferma il primato del cuore sulla ragione, dell’intuizione sul pensiero puro, tenendosi ben lontano dalla corrosione d’ogni idealità. Le illuminazioni dell’autore, a volte, diventano risate malinconiche, a volte irriverenti. Dal saggio sul pittore e la pittura, si passa alla riflessione letteraria; dall’altezza superba del fatto noi scendiamo fino al frammentarismo moraleggiante dell’assioma, del detto, del proverbio, dell’aneddoto, dello scherzo. Vi è in tutto ciò l’amarezza di un’età, la nostra, che bisogna tener presente durante la lettura di Caos e bosco per non perdere il senso delle proporzioni.

L’autore raggiunge un così elegante equilibrio tra pessimismo ed ironia, desolazione e speranza, stile e secchezza d’immagine, da apparire antico. I pensieri e le riflessioni di Stefano Lanuzza si leggono più che volentieri e, tra le sue righe, scoviamo le radici dei molti malesseri contemporanei.

Detto questo, non c’è molto da aggiungere, se è vero che al lettore intelligente ogni scrittore sa ben presentarsi da solo.

f.s.

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