Borges, Macedonio e la Belarte.
Macedonio Fernández «precursore» di Borges in un saggio di Daniel Attala
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di Gustavo Micheletti
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Quando in qualche scritto si parla di Macedonio Fernández è ormai invalsa la consuetudine di chiamarlo per nome, al contrario di quanto si fa normalmente con tutti gli altri autori dotati di un cognome. Si deve probabilmente a Jorge Luis Borges quest’abitudine, che contribuisce a rendere Macedonio subito familiare a chi si avventura nei suoi scritti, sebbene contengano tesi desuete e assai sorprendenti.
Borges eredita l’amicizia di Macedonio da sua padre, ma ancor prima di essere un suo amico, Macedonio fu per lui un maestro influente, tanto da indurlo a rilevare che nessuna persona famosa lo aveva “mai impressionato come lui, neppure in modo analogo. Cercava di nascondere, non di sfoggiare, – scrive Borges – la sua straordinaria intelligenza; parlava come ai margini del dialogo, eppure ne era il centro. Preferiva il tono interrogativo, il tono di modesta consultazione, piuttosto che l’affermazione magistrale. Non pontificava mai: la sua eloquenza era di poche parole e perfino di frasi lasciate a mezzo. Il tono abituale era di cautelosa perplessità”.1 L’insieme di queste ed altre prerogative del suo amico e maestro lo porteranno poi a dire, e lasciar scritto sulla sua tomba, che il non imitarne il canone, letterario e filosofico, avrebbe costituito “un’imperdonabile negligenza”.2
Macedonio, dal canto suo, “paragona Borges al poeta spagnolo J.R. Jimenez: «tanto intelligente quanto dolorante di passione e vita, che sembra preoccuparlo». L’intelligenza è in effetti, secondo Macedonio, l’unico talento di Borges visibile nella sua letteratura; si tratta però, a suo avviso, di “un talento pratico, d’una muscolatura dell’anima senza interesse per l’Arte, né più né meno che le capacità dell’atletismo”.3
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