Il Decameron Hamilton 90

Il Decameron nella tradizione manoscritta: Boccaccio ed i suoi primi lettori, mercanti, monaci e lo stesso Petrarca. Una intervista a Marco Cursi
L’intervista inedita che presentiamo on-line è stata curata dal Centro culturale Gli scritti, in occasione della pubblicazione del libro del prof.Marco Cursi, Il Decameron: scritture, scriventi, lettori. Storia di un testo, Roma, Viella, 2007. Marco Cursi è ricercatore presso la cattedra di Paleografia latina della Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma ed è autore di numerosi contributi incentrati sulla tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio e sui meccanismi di trasmissione manoscritta in botteghe di cartoleria nella Firenze nei secoli XIV e XV.

Il Centro culturale Gli scritti (13/9/2007)

Quali manoscritti autografi del Decameron ci sono pervenuti?
È giunto fino a noi un solo testimone autografo del Centonovelle, il manoscritto Hamilton 90, conservato presso la Biblioteca di Stato di Berlino. Si tratta di un codice in membrana – la materia di scrittura più diffusa nel Medioevo – di dimensioni medio-grandi, integralmente di mano dell’autore; Boccaccio si serve di una scrittura inconfondibile, definita dai paleografi “semigotica”; si tratta di una tipologia grafica piuttosto simile alla gotica ma caratterizzata da maggiore ariosità e da un contrasto di tracciato meno pronunciato, una scrittura piuttosto simile a quella utilizzata in quegli stessi anni da Francesco Petrarca. La storia di questo eccezionale testimone è piuttosto avventurosa: fu confezionato dal Boccaccio nei suoi ultimi anni di vita (intorno al 1370) ma ben presto se ne persero le tracce.

Ricomparso nei primi anni del Cinquecento nella Firenze dei Medici, da quel momento è stato a disposizione dei letterati e degli studiosi interessati al capolavoro della narrativa trecentesca. Anche Pietro Bembo ebbe la possibilità di consultarlo, tanto che appose una nota in margine al codice; il grammatico e linguista veneziano, però, come i suoi contemporanei e tutti coloro che ebbero la possibilità di avere tra le mani il manoscritto nei secoli seguenti, pur ritenendo il testimone berlinese un codice di ottimo livello quanto alla resa testuale, non lo considerarono mai come l’originale del Decameron. Nell’Hamiltoniano, in effetti, si leggono alcuni errori che non erano ritenuti compatibili con una copia d’autore; un esempio celebre viene dalla novella settima della seconda giornata, nella quale si raccontano le incredibili peripezie vissute da Alatiel, la figlia del sultano di Babilonia. Il nome di uno dei suoi spasimanti, Marato, in un caso è reso nel codice berlinese con marito; siamo quindi dinanzi ad un tipico errore derivante da una banalizzazione, secondo una dinamica di copia che può essere attribuita ad un copista ma certamente non all’autore. L’interesse intorno all’Hamiltoniano si riaccese agli inizi degli anni ’30 del Novecento, quando il codice fu inviato a Firenze per essere esaminato da uno dei più grandi critici letterari del tempo, Michele Barbi, che tra l’altro era un esperto conoscitore della scrittura del Boccaccio. Il primo incontro tra l’anziano professore e il manoscritto berlinese fu breve e memorabile: i presenti raccontano che il Barbi, dopo aver sfogliato il codice quasi distrattamente, dato un rapido sguardo, lo attribuì senza alcuna esitazione alla mano dell’autore, con un giudizio che non concedeva spazio ad ulteriori dubbi: «È lui, e non dei primi, ma piuttosto degli ultimi anni». Passati tre lustri, ormai nel primo dopoguerra, tale ipotesi di autografia, affermata dalle caratteristiche della scrittura ma negata dalla presenza di errori come quello segnalato sopra, animò il dibattito tra gli studiosi, specialmente grazie ad alcuni interventi di un allievo di Barbi, Alberto Chiari, strenuo sostenitore della paternità boccaccesca del codice; alla sua tesi, però, non fu concesso molto credito. Soltanto nel 1962 avvenne il definitivo riconoscimento; anche in questo caso fu necessaria una trasferta del manoscritto (nel frattempo depositato a Magdeburgo, dopo essere stato sottratto alla biblioteca berlinese per evitare la sua dispersione negli anni caotici della seconda guerra mondiale). Un altro studioso italiano, Vittore Branca, ebbe la possibilità di far arrivare il codice in Biblioteca Marciana, a Venezia, e dopo averlo studiato attentamente insieme all’amico Pier Giorgio Ricci fu in grado di sciogliere definitivamente ogni riserva, identificando la mano con quella dell’autore, Giovanni Boccaccio.

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