Personale d’Arte figurativa di Stefano Lanuzza
Galleria “La Cornice” – Lugano Via Giacometti 1, Lugano
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di Vincenzo Guarracino
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L’occhio abbagliato del tempo
Tra immagini e versi
È come un bosco strano, “senza sentieri” e senza indicazioni, pieno di anfratti e di misteri, una sorta di hypnerotomachia, di “battaglia d’amore nel sogno”, quello in cui ci immette Stefano Lanuzza (in arte, talora, Laínez = Lanuzza: dallo spagnolo Diego Laínez, successore del Loyola, 1512-1565. Cfr. Carlo Battisti – Giovanni Alessio, Dizionario etimologico italiano. III, G. Barbèra, Firenze, 1968).
È, quello dell’artista, un viatico nell’atto di inoltrarsi nell’intrico sintattico di un “diario crittografico” e pittorico se non l’avvertimento che qui “scorrono le Furie”, come scriveva venti anni fa lo stesso autore nella sua raccolta di poesie Bosco dell’essere (2000). Perciò non giova attrezzarsi di nient’altro se non della disponibilità a ritrovarsi e viversi in una storia altra di ordinaria “crudeltà”: in un bosco di scorie e “oscure bestie”, di “marcente verde” e di “rovi e fratte scoppiate”, in cui “l’umore dell’anima deserta” esala in soffi d’inquietudine, in deliri e orrori, in tremori e deliqui…
Un mondo nero e senza luce, un “cosmo” senza redenzione di stralunate “figure di una storia che non finisce”, questo additato da Stefano tra parole e immagini, suoni e colori: una “selva” che non nasconde alcuna verità, tanto meno la consolazione dell’analogia, dell’essere contemporaneamente se stesso e altro, esposta com’è al delirio visionario di un fratello del Maldoror di Lautréamont, impadronitosi per caso del pennello e della penna di Grozs. Niente intimità e complicità, dunque: questa è una natura o una realtà di quotidiana follia da cui ci si deve solo guardare, pena un disperante smarrimento, una perdita di orientamento, di senso. Certo, cautela, misura, presenza vigile e razionalità occorrono, altro che se occorrono (e soccorrono). Non sono ammessi ripensamenti e nostalgie, tentazioni di aggiramento o ingenuità da Pollicino.
“Da qualche parte di questo bosco / senza sentieri una bocca di foglia / canta con voce d’allodola il nulla” scrive l’autore. Ecco, è la vita che è in agguato tra queste allegoriche asprezze (boschive e salottiere), tra alcove e boudoir metropolitani, da imbarchi a Citera dove ci si aspetta di udire da un momento all’altro bramiti e ruggiti, assieme al raglio del Lucio delle Metamorfosi di Apuleio: la vita come trappola, come regno dell’imprevisto, come gogna e capestro di ogni istinto e vitalità, in una dimensione che chiama in causa tutti e non soltanto lo “strazio solitario” d’un poeta… A dirlo è “una lingua lacerata”, concreta e dissonante, “fatta di cicatrici / vive, che balbetta e supplica nell’emisfero / di luce filtrante, nell’occhio abbagliato // del tempo”, salvo improvvisamente sorprendersi in forme e colori antinaturalistici e visionari: come non sentire un brivido di fronte a quell’“occhio abbagliato”? Come non vedersi coinvolti in quell’implacabile sguardo senza pupille, vittime certo innocenti di un’orrenda castrazione, ma anche colpevoli di un’assurda dimissione di responsabilità di fronte alla Storia, “tempo” di Crudeltà e Follia, tempo di Vuoto e Noia.