Stefano Lanuzza, “Senza meta. Biblioteca degli erranti”

Stefano Lanuzza, Senza meta. Biblioteca degli erranti, Arsenio Edizioni, 2022, pp.322, € 25,00


di Ernestina Pellegrini (Università di Firenze), “Antologia Vieusseux”

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Clip del libro su RetroguardiaTV

La bibliografia delle opere di Stefano Lanuzza (critico militante, saggista, poeta, artista figurativo) è imponente, e si farebbe fatica a farne un regesto completo, a cominciare da Alberto Savinio (1979) a Senza Storia. ‘900 e contemporanei della letteratura italiana (2021) e fino al recente Senza meta. Biblioteca degli erranti (Arsenio Edizioni, 2022, pp.322, € 25,00) – solo per stabilire dei limiti, ricordando il primo testo con cui l’ho conosciuto e l’ultimo che ho letto integralmente; anche se mi sono arrivati sul tavolo, negli ultimi mesi, altri suoi libri molto interessanti: Una tragica giovinezza. Il Rosso e il Nero di Stendhal (2022), che è una rilettura attenta ed empatica del capolavoro del romanziere francese di cui Sciascia disse “Non è mai stato anziano, né mai lo saranno i suoi lettori”.

Senza meta è un libro sulla letteratura di viaggio ripercorsa attraverso le varie letterature di epoche diverse, un vero e proprio regesto, arguto, informatissimo e originale, di marca comparatistica, su cui vorrei qui spendere qualche parola di apprezzamento. Come si legge nella quarta di copertina: “[…] ne risulta una policentrica rassegna per un itinerario sperimentale di critica militante dove, tra passaggi storici e tematici d’una viandanza ininterrotta, prevale l’esperienza conoscitiva”, una catena di opere inserite in “mappe reticolari, specchi covergenti, flussi di pagine che mischiate come un mazzo di carte da gioco si connettono e intersecano per analogie comparatistiche dove ‘tutto c’entra con tutto’”. Il lettore è catturato dentro un labirinto di “ordinato disordine”, composto da saggi ma anche da resoconti e schedature. Ci sono affondi su testi molto noti dell’odeporica ma anche analisi minute di altri per lo più sconosciuti, rari, come quelli scritti da autori mai inclusi nei canoni letterari, fra i quali troviamo molti scrittori appartenenti a comunità rom perseguitate dal nazismo: i nomadi (i “dannati dell’economia selvaggia”, scrive l’autore nell’Introduzione) che “non posseggono storia, hanno soltanto geografia” – come chiosano Gilles Deleuze e Claire Parnet (Dialogues, 1977). Così, fra le pagine più interessanti e inedite incontriamo quelle presenti nel Capitolo IV, dedicato a Scrittori zingari, autori ai margini dei margini, perché privi lungamente di una tradizione culturale scritta, ma sconosciuti anche perché molto spesso hanno scelto di usare le lingue dei paesi che li ospitano. Qua e là si trovano capitoli di carattere storico, quasi messi a commento o cornice del materiale letterario – come nel V cap., Razzismo nazismo stermino – che rendono il libro molto utile per la didattica sia universitaria, sia per la scuola secondaria.

La scrittura – lo stile – di Stefano Lanuzza ha la mobilità, l’imprevedibilità di un romanzo-saggio che rende la lettura molto piacevole, conducendo il lettore a esplorare Le bateau ivre (1871) e Une saison en enfer (1873) di Arthur Rimbaud, ma anche The painted bird (1967) di Jerzy Kosinski, pseudonimo di Józef Lewinkopf, ebreo polacco naturalizzato statunitense, che narra una storia di sradicamento e di violenze patite durante gli infiniti orrori del ‘secolo breve’. E si aprono finestre su Heart of Darkness (1899) di Conrad, così come sul Viaggio in Armenia (1830) di Osip Mandel’štam e sul romanzo Das Märchen vom letzten Gedanken (1989), un’epopea della tragedia armena, dell’ebreo tedesco Edgar Hilsenrath, sfuggito ai nazisti emigrando in Palestina e quindi negli Stati Uniti; che il critico commenta così: “In Turchia c’è un posto detto Anatolia, ma che gli armeni s’ostinano a chiamare Armenia o Hayastan, il Regno grande-armeno che sembra non sia mai esistito ed è come una fiaba dimenticata o ‘la fiaba dell’ultimo pensiero’ d’un morente che parla con le antiche parole armene oggi eliminate dal vocabolario”.

Il lungo viaggio senza bussola di questo geniale intellettuale siciliano che vive da decenni a Firenze – dove ha rivestito il ruolo di direttore della biblioteca di Magistero per poi darsi alla critica militante, ai lavori per l’editoria e all’arte figurativa, nonché alla poesia col meraviglioso Bosco dell’Essere (2000, 2021) – continua in sentieri più noti come i Viaggi in Italia da Montaigne a Goethe, da Sade a Stendhal, da Dickens a Ceronetti, a Piovene (un itinerario che potrebbe essere affiancato a un pioneristico studio di Monica Farnetti intitolato Reportages, 1994).

Lo scrittore riesce anche ad affrontare questioni teoriche, in prospettive di imagologia e di geocritica, e si sofferma spesso a ipotizzare categorie in cui inserire i vari viaggiatori, dagli esuli agli outsider, ai vagabondi, ai bohémien, dai ‘viaggiatori solitari’ ai ‘sentimentali’, dai naturalisti agli archeologi, ai viandanti zen e ai picari taoisti. S’incontra il prevedibile e affascinante Chatwin, per entrare poi nella zona favolosa dei viaggi immaginari e, infine, degli itinerari incantati: come quello presente in Manoscritto trovato a Saragozza (1805) del polacco Jan Potocki, con le storie indimenticabili di Pacheco l’indemoniato e di altri bizzarri personaggi, fra i quali spiccano il “pellegrino maledetto” Blas Hervas e il Capitano delle Guardie Valloni Alfonso von Worden, che viaggia in terre lontane per superare prove iniziatiche.

Non potevano mancare incursioni nella letteratura latino-americana, con Pedro Páramo (1953) del messicano Juan Rulfo, per poi tornare, con azzardo comparatistico, a Il castello dei destini incrociati di Calvino, dove troviamo gli allegorici Tarocchi che permettono una pratica divinatoria: “Ogni Tarocco è un progetto dell’immaginazione, un tentativo di ricerca, un esperimento psicologico e una fuga liberatoria”.

C’è anche la Parigi di Hemingway, di Rilke, di Viani, ma anche quella di Curzio Malaparte col Diario di uno straniero a Parigi, uscito postumo nel 1966 a cura di Enrico Falqui, e l’Europa d’un Savinio flâneur.

Nascere in strada” scrive Henry Miller in Black Spring (1936) “significa vagare per tutta la vita, essere libero”. Non poteva mancare il più volte studiato Céline di Voyage au bout de la nuit del 1932, autobiografia o autofiction che sia, il viaggio al termine della notte dello scrittore testimone dei fatti socio-politici dolorosamente attraversati (e qui, come in altri studi, l’autore si oppone a un troppo facile appiattimento ideologico dell’autore delle Bagatelles in chiave di fiancheggiamento del nazismo). Così il lettore doveva aspettarsi di trovare pure un altro autore molto caro a Lanuzza, cioè Stefano D’Arrigo di Horcynus Orca (1975), dove il saggista fa un’analisi molto precisa dello speciale codice linguistico siculo-italiano, ricordando la comparazione fatta da Gianfranco Contini fra D’Arrigo e Céline: “Il tipo formale del narrato” darrighiano, afferma Contini, “porta a Céline: stessa compattezza in qualche misura senza episodi, stessa esaustività del referto, stessa grammaticalizzazione del mezzo linguistico deformante (in Céline, naturalmente, gergo)”.

Estremamente interessanti sono anche i tentativi di declinare certi viaggi in tipologie particolari come le ‘fughe’, da Fuga senza fine (1927) di Joseph Roth (qui rivisitato nella traduzione italiana del 1976 di Maria Grazie Paci Manucci del 1976) a Le livre des fuites (1969) di Jean-Marie Le Clézio, con una clausola a commento presa dal biologo e sociologo Henri Laborit in Elogio della fuga (1982, in trad. it. di Leonella Prato Caruso): “La fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi […] Solo il comportamento di fuga permetterà di rimanere normali rispetto a sé stessi”. Sembra, questa, un’alternativa tattica per garantire un risparmio di energia emotiva, ma anche una strategia efficace per eludere le sopraffazioni del potere costituito.

Si naviga fra utopie e distopie, ci si addentra in Labirinti (cap. XXV) – molto belle le pagine dedicate a Il Minotauro (1985) di Durrenmatt – per ammirare poi opere che inquadrano i grattacieli di New York e tornare poco dopo, invece, ai sottosuoli delle città metropolitane, abitati da Uomini Talpa (cap. XXVI), magari servendosi anche di testi di carattere antropologico come il volume The mole people. Life in the tunnels beneath New York City (1991) della giornalista Jennipher Toth. Passando a scrivere dei sette milioni di bambini e bambine fra i 5 e i 15 anni, abbandonati o rimasti orfani nella Russia sovietica oppressa dalla carestia degli anni fra il 1917 e il 1935, adolescenti che fuggivano dagli orfanotrofi per darsi al randagismo.

Nelle anonime, multietniche grandi città si trovano uomini e donne prigionieri della loro coazione a sparire, che “abitano l’inabitabile; e a notte, attaccati comunque al proprio corpo, l’unica cosa rimasta, si coprono con cartoni o fogli di plastica, dormendo a tratti e restando sempre all’erta. Vedono al buio, cui si sono assuefatti, come i rapaci notturni e i topi”.

I viaggi continuano in una grande, disseminata carta geografica: dalla Berlino di Benjamin a quella di Döblin, al fiume dei destini di Magris che, in Danubio (1986), percorre la lontana Mitteleuropa; che, con Praga magica (1973), Angelo Maria Ripellino porta i lettori in una zona incantata, “torbida e malinconiosa”, abitata da alchimisti, negromanti, astrologhi, rabbini e scrittori neoromantici ed espressionisti.

Infine ci sono capitoli dedicati alla pandemia di Covid che ha prodotto infinite cronache autobiografiche, con le relative paranoie e i contraccolpi d’incubo nell’immaginario collettivo. A tale proposito, il critico analizza il libro di Sergio Givone Metafisica della peste (2012) per accennare anche al profetico, allarmante testo del divulgatore scientifico americano David Quammen, che in Spillover (2014) sembra anticipare visionariamente la diffusione del virus di qualche anno più tardi. E qui il comparatista entra nel campo dell’ecocritica facendo delle feconde sinapsi tra la realtà sempre più inquietante della nostra condizione contemporanea e certi racconti di Edgar Allan Poe; alludendo poi, nel capitolo intitolato Globetrotter, al movimento internazionale ecologista-pacifista, dando così finalmente voce esplicita alla forte marcatura ideologica che sottende sempre il suo discorso critico di intellettuale militante: che riesce a illuminare, con acceso pessimismo storico, il mondo attuale della globalizzazione economica e mediatica (processi ormai irreversibili, in mano a un capitalismo finanziario sempre più ricco e auoreferenziale). Si riconoscono “una linea del fuoco e una guerra permanente perché globale; l’implodere/esplodere della globalizzazione che riguarda non l’utopistico sogno della convivenza tra i popoli nel viaggio della cultura e della Storia, ma l’incubo e il caos pervadenti, nella geopolitica occidentale, anche una inane Europa”.

Mi accorgo di essermi limitata a disegnare una mappa, lasciando poco spazio all’interpretazione critica. Forse posso aggiungere che, scrivendo di altri autori, Stefano Lanuzza ha spesso delineato, senza mai trascurare le ragioni della filologia e dell’inquadramento storico, controfigure di sé stesso, come nell’ormai classica monografia intitolata Scrittore contro. L’opera di Leonardo Sciascia (2020).

Ma illuminante del metodo critico e dell’estrema, talvolta provocatoria libertà intellettuale con cui lo studioso affronta la materia letteraria risulta il volume dedicato ai Senza Storia (2021) della letteratura italiana, al suo ‘900 magmatico e difficilmente catalogabile: una “letteratura di isolati”. Vi si legge, in una nota in calce, in caratteri minuscoli: “Tenuto conto dell’entropia che distingue il panorama della civiltà letteraria novecentesca, se non sembra possibile ‘una’ Storia della Letteratura italiana si possono invece distinguere, in un libero e oggi più che mai necessario discorso di critica militante-comparatistica, tanti singoli Autori molto spesso ‘dimenticati’, senza necessariamente storicizzarli”.

Il libro dai mille volti e dagli infiniti sentieri tracciati all’interno di un atlante letterario senza confini, Senza meta si affida a un’epigrafe illuminante da Scritti corsari di P. P. Pasolini che funziona da specchio e da prologo: “La ricostruzione di questo libro è affidata al lettore. È lui che deve rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta, è lui che deve congiungere passi lontani che però si integrano”.

Se faccio il punto sul posto occupato dalle opere di Stefano Lanuzza su uno scaffale della mia libreria, mi accorgo che devo scorrere almeno due metri nella sezione in cui ho sistemato i critici-scrittori-traduttori, ma che non ci ho inserito gli studi critici su di lui (spesso li ho letti in formato digitale). Fra questi mi colpiscono alcune recensioni di Mario Lunetta, che in un una Prefazione a un testo di aforismi, Caos e bosco (2020), dopo aver segnalato la “pregnanza della lingua” e i titoli mai esplicativi né metaforici di molte opere di Lanuzza, scrive acutamente: “L’autore scava fino all’osso il crinale di ciò che lo caratterizza da gran tempo, e che potremmo definire la sua personalissima Critica del giudizio che armonizza ragione e senso (estesa talvolta dalle arti alla vita, alla società, alla politica, all’amore): con la stessa radicale lucidità di sempre, la stessa disposizione a mettere in gioco le proprie responsabilità, senza ambagi né infingimenti”.

Per finire questa approssimativa illustrazione di un libro complesso e felicemente erudito qual è Senza meta, scritto con uno stile di potente originalità e eleganza, voglio sottolineare come tutto questo sia esaltato dall’energia di un pensiero, appunto, di radicale lucidità, un pensiero a tratti apocalittico, ma sia caratterizzato, questo stile così firmato e riconoscibile, anche da una trattenuta vena visionaria e fantastica, che prende slancio soprattutto sul versante dell’arte figurativa (i quadri dell’autore – già esposti anche al Museo d’arte moderna di Mantova, 1999, e più recentemente, 2021, a Lugano – sono affidati al versante notturno dell’immaginazione, coi suoi gufi, le donne metamorfiche, le architetture spettrali): una vena che appartiene anche alla zona, da me particolarmente apprezzata, dell’espressione poetica. Anzi, voglio finire affermando che il libro che preferisco di tutta la polimorfa produzione letteraria di Stefano Lanuzza è Bosco dell’essere, il ricettacolo dei suoi demoni meridiani e dei suoi fantasmi fatti di buio e di dolore, dal quale cito alcuni versi, tratti dalla poesia di apertura, intitolata La casa, l’arca: “cade la casa sui mobili e le barriere / dei libri, sui quadri appesi all’aria / e all’energia, sulla carcassa muraria / che turbina polvere e stucchi. Le fiere, // gli uccelli, gli insetti affollano l’arca / che naviga sui riccioli di un’acqua nera / raggiata d’oro. Tutta coperta d’ami, la spera / solare affonda nella marea crescente. La Parca // sogghigna in cucina, vestita di fumo, sgroppando / sui tavoli, curva sul pane frantumato in croste, / e mugghia, brucia e ride tra le fiamme”.