“Scrittori zingari”. Saggio di Stefano Lanuzza (da “Senza meta. Biblioteca degli erranti”)

[E’ uscito da poco per Arsenio Edizioni, Senza meta. Biblioteca degli erranti di Stefano Lanuzza. Il volume comprende una serie di saggi letterari “come un unico libro cresciuto su sé stesso e fatto di scritture itineranti”. Proponiamo il saggio Scrittori zingari, con in coda la Premessa essenziale e il Sommario (f.s.)]

Stefano Lanuzza, Senza meta. Biblioteca degli erranti, Arsenio Edizioni, 2022, pp.322, € 25,00


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di Stefano Lanuzza

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Lungamente privi d’una tradizione culturale scritta, solo dal Novecento – riferisce Santino Spinelli – molti autori delle comunità zingare, costretti a prescindere da parlate rom risonanti di interferenze indiane persiane armene greche o panslave, presentano le loro opere preferibilmente nelle lingue dei Paesi in cui vivono.

Nel 1925 nasce in Unione Sovietica un gruppo di letterati rom riuniti intorno alla rivista “Nevo Drom” (“Nuovo cammino”). Nel 1931, s’inaugura la fondazione a Mosca di un “Teatro Romen” che ospita opere di Alexandre Viećeslavović Germano (1893-1956). Vi s’accodano, con scritti dedicati al folklore orale e musicale gitano, con poesie traduzioni copioni teatrali, gli scrittori Ivan Rom-Lebedev, Ivan Khrustaljov, Ivan Pantchenko; e Ivan Romano, autore di Addio mio campo (1968), la romní kalderaś Olga Demeter-Tcharskaya (Destino di una romní, 1997), il rom calderaś Oleg Petrovic (I Baroni Saporroni, 2007), il saggista e poeta Georgij Tsvetkov autore, tra l’altro, del volume Rom, origini e cultura (2009) e dello studio linguistico-grammaticale Comunicazione interculturale russo-romaní (2009).

In Polonia permane la memoria dell’importante poetessa Bronislawa Wajs (1910-1987) detta “Papùśa” (“Bambola”), autrice del Canto di Papùśa (1956) dedicato agli zingari vittime del nazismo.

Tra gli scrittori moldavi rom, spiccano George Kantya (1941) con Folkloros Romano (1970), Vladimir Lupashu (Hadimurga. Il destino dei Rom, 1992), Pavel Andreichenko (1931-2001) col romanzo Dieci libri in cella (2002), Leonid Cherepovski (1938) con una Guida alla conversazione in lingua romaní (2002) e, nel 2003, i saggi Il destino dei Rom e La tribù errante. Storia, racconti, proverbi.

Numerosa in Ungheria è la rappresentanza di scrittori appartenenti a diverse comunità rom: Menyhért Lakatos (1926-2007) col romanzo Immagini di fumo (1975); Béla Osztojkán (1948-2008) autore del romanzo Non c’è nessuno che può essere pagato da Jòska Atyn (1996); Madga Szécsi (1958) con Il rapinatore del tempo (2006); e Tamás Jònás (1973), il rom abruzzese Bruno Morelli, Jòzsef Daròczi, Rosta-Farkas György, Matéo Maximoff, Mariella Meher (1947) del popolo jenisch svizzero, Szabolesi Mihàly, Nagy Gustav, Bari Karoly […]. Notevole rilievo ha Rajko Djurić (Smederevo, 1947 – Belgrado, 2020), “uno dei poeti e scrittori rom più grandi di tutti i tempi”, autore di decine di libri tra cui Zingari. Popolo del Fuoco e del Vento (1980) e I fondamenti della lingua romaní (2011).

S’aggiugano Šemso Advić (1950), Jovan Nikolić (1955), Ilaz Saban (1955), Seladin Seliesori (1952), Jlija Jovanović (1950-2010), Aladin Seidić (1970), Predrag Jovićić, Steva Stoiko, Hanci Briher, Ruždija Russo Sejdović, Jlona Lacková, Stefka Stefanova Nikolova, Sarah Carmona, il rom calderaś Matéo Maximoff (1917-1999) autore di La bambola di Mameliga (1986), Slija Krasnići, Wladyslaw Jakowicz, il finlandese romaní Veijo Baltzar (1942) autore di romanzi, racconti, commedie, sceneggiature televisive. Con la sinta tedesca Philomena Franz (1922) autrice di Fra amore e odio (1985) sull’esperienza del lager, e di Ceja Stojka (1933) con Viviamo mimetizzati (1989). A Veliko Kajtazi (1960) si deve un Dizionario romaní-croato e croato-romaní (2008), e a Ronald Lee il Dizionario kalderaśa-inglese, inglese-kalderaśa… “Una schiera infinita, dunque,” osserva Spinelli “di intellettuali pressoché sconosciuti all’opinione pubblica. […] La letteratura romaní è lo specchio fedelissimo del sentimento di un popolo oppresso nell’anima. […] Migliaia sono gli scrittori, drammaturghi e poeti europei che in ogni epoca hanno attinto a piene mani dalla realtà romaní. […] La cultura romaní va considerata patrimonio della cultura europea. Un apporto immenso, ma sconosciuto o non riconosciuto”.

Paria e transeunti senza diritti civili, gli zingari; persone che, non essendo integrabili, sono bollate ‘delinquenti’. Infatti, il bizzarro criminologo Cesare Lombroso (Verona, 1835 – Torino, 1909), tra i precursori del razzismo nazifascista per le sue antiscientifiche convinzioni sulle anomalie ereditarie, dichiara gli zingari “criminali atavici”.

Provenienti dall’India, dall’Egitto e da imperscrutabili ‘altrove’, diffusi in Europa a partire dal Medioevo (circa dall’anno Mille), gli zingari vogliono essere chiamati rom, significante nello loro lingua ‘uomo libero’. Senza rinunciare alla propria identità, hanno girato il mondo sopravvivendo a disagi e soprusi che per altri popoli sarebbero stati insopportabili. Non è poco per una stirpe giudicata ‘inferiore’.

Tre zingari (1838)
Vidi una volta tre zingari
che stavano su un prato,
mentre la mia carrozza arrancava
faticosamente per la landa sabbiosa.
Il primo teneva in mano
un violino, solo per sé,
e nella luce del tramonto suonava
un’appassionata melodia.
Il secondo aveva in bocca una pipa
e ne seguiva il fumo con lo sguardo,
contento, come se del mondo intero
niente gli servisse per esser più felice.
Il terzo dormiva beato,
la sua cetra appesa a un ramo;
tra le corde passava il vento
e nel suo cuore un sogno.
Gli abiti dei tre erano pieni
di buchi, rammendi e toppe,
eppure, caparbiamente liberi,
si facevano beffe del mondo.
Tre volte mi hanno mostrato
come si affronta la vita che sfugge,
fumando, dormendo e suonando,
e tre volte disprezzandola.
Guardai a lungo i tre zingari
mentre la carrozza si allontanava,
guardai i loro volti abbronzati,
i capelli ricci e neri.

-Nikolaus Lenau (Csatád, 1802 – Oberdöbling, 1850)

Ogni anno, alla fine di maggio, comunità nomadi si riuniscono nel villaggio delle Saintes-Maries de la Mer in Camargue, la terra dei fenicotteri rosa a sud della Francia verso il delta del Rodano, per festeggiare la loro patrona Sarah detta l’Egiziana serva “delle Tre Marie”: Maria Maddalena la peccatrice, Maria madre di San Giacomo minore, Maria Salomé madre di San Giovanni e San Giacomo maggiore.

Nella Camargue s’incontrano e si fondono le parlate di tradizioni orali che non hanno codici linguistici precisi, seppure, per comunicare, prevalga fra gli zingari il romaní, mnemonica lingua indoeuropea priva di strutture grammaticali codificate. Quanto alla loro letteratura, questa diviene partecipe delle lingue ufficiali dominanti cui si collega la vigorosa produzione zingara: con prevalenza di poemi in versi liberi e riferimenti a una Madre Terra feconda e benevola, ai temi della libertà (esperienza di un assoluto implicante la rinuncia al potere alla ricchezza alla gloria), della vita semplice vissuta giorno per giorno, dell’amore per la donna del rom, la romní, della morte che non fa differenze tra l’abitatore d’un povero carrozzone o d’una reggia. E il loro Dio non è l’arcigno giudice delle religioni monoteiste costituite, ma un padre buono contrapposto agli spiriti malvagi (mulé) e alle streghe (hexe). Senza ignorare i due poli dell’imponderabile caso: baxt e bibaxt, fortuna e malasorte.

Poesia gitana, coro d’una collettività composita ed espressione individuale autenticamente poetica è la raccolta di versi in lingua francese Lunes nomades (1963) della poetessa e pittrice Sandra Jayat, nata nel 1939 da genitori zingari. I suoi versi evocano paesi lontani, amori perduti, povertà e affanni, la vita e la morte, violini dalla voce d’usignolo, chitarre lunari, balli e veglie intorno al fuoco tra silenzi sospesi. Appartiene a simile filone la poesia Libertà del poeta zingaro Yulak: “Voglio attraversare la terra / nascosto e sconosciuto / come un viandante nella notte; / e attraversare a nuoto / il fiume della vita / controcorrente / con il vento in faccia”. L’ignoto Yulak non chiede niente a nessuno poiché non vuole padroni; e sa che “obbedire è un po’ morire”. Non pensa d’insegnare agli altri come vivere, e rifugge coloro che vorrebbero imporgli i loro modi di vita. Non crede nelle istituzioni o a quanto tenderebbe a contrastare la libera esistenza.

Circa il concetto di patria, per il nomade affidatosi unicamente alla Natura, a terre e cieli sempre diversi, alla luna e alle stelle che gli schiariscono la notte, al sole che lo illumina e scalda, “una è la mia patria, / uno solo il mio signore: / la tomba” (versi nel dialetto tedeschizzato dei sinti del nord dell’Europa centrale del poeta gitano Michele ‘Joska’ Fontana, nato in Sicilia). Quando verrà la fine – scrive il sinto Vittorio Mayer Pasquale, detto “Spatzo”, “Passero” (Appiano sulla Strada del Vino1927 – Bolognano d’Arco2005) –, “noi crediamo che in quel momento sia molto meglio essere stati Zingari che re”. O dalla detenzione in carcere: “Sono un sinto / vivo in carcere / solo / […] / Piange il mio cuore / la vita libera”. Dopo avere trascorso la sua fluida esistenza di nomade, quanto in prigione lo addolora non sono il cibo scarso, il letto scomodo, la crudeltà dei secondini, ma l’esser costretto tra muri opprimenti dentro i quali lo stesso respiro è prigioniero. Gli mancano le strade il cammino il contatto col corso delle stagioni.

Hanno calpestato il violino zingaro / cenere zingara è rimasta” lamenta Rasim Seidić, nato a Barice in Bosnia nel 1943 e morto a Sarajevo nel 1982, zingaro xoraxané in Italia nel 1968 al seguito d’un gruppo rom dei paesi dell’Est. E la rumena Papuša, nata nel 1910 da una zingara galiziana: “Volevo cantare i canti zingari, / tutta la vita zingara… / Ma non ci lasciano vivere”. Così, in Orecchini di foglie, poemetto tra i più belli della poesia zigana, descrive alcune zingarelle: “Le ragazze del bosco, povere, giovani, / graziose come mirtilli neri / […] / Ognuna getta vampate dagli occhi, / come fossero d’oro puro”. I loro orecchini sono le foglie d’una quercia del bosco, che cadono luccicando.

Usín Kerím, zingaro bulgaro, poeta e fabbro, nato nel 1928 durante una sosta della sua carovana sulla riva del fiume Vit che dai Balcani sfocia nel Danubio, canta il popolo randagio e ne piange l’amaro destino: “O destino, arido e senza scopo / […] / Tutto è nero intorno a me”.

Nata in Svezia nel 1932 in una tribù di zingari calderai, Katarina Taikon impara a leggere e scrivere all’età di ventisei anni perché, da bambina, è rifiutata dalle scuole. Esordisce nel 1963 con il libro Zinegerska (Zingara), cui seguono altre opere in versi e racconti per bambini. Di particolare interesse è una sua intervista rilasciata al periodico “Zigenaren” (n. 1-2, 1967) dove spiega gli orientamenti critici d’una cultura rom che giudica la civiltà borghese d’“un livello spaventosamente basso” e da non imitare. Diventare come “voi” – afferma orgogliosamente – significherebbe svalutare “noi”.

Gli zingari non pensano che il loro popolo debba raccogliersi sotto uno Stato o una Chiesa, costrizioni contro lo spirito libero: ché solo questo può fondare “il modo di vita e lo scopo della nostra esistenza”. Katarina crede al pensiero-passione, all’intelletto creatore di nuova realtà, alla benevolenza che dissolve il malocchio degli invidiosi. Spera in un futuro individuo innamorato della vita pacifica e in un mondo senza più conflitti, unito in una prossima festa planetaria della Riconciliazione: il Pačiv.

Anka Lakatos, zingara ungherese, ricercatrice presso l’Istituto di sociologia di Budapest, precisa di scrivere servendosi non del lessico gitano, ma della lingua della nazione in cui vive: ciò, per “avere una più vasta gamma di parole”. La sua poesia è un’accusa dolorosa al sistema borghese che disprezza, emargina e segrega la diversità: “Gemono i nostri violini sul muro, / grattate stridule hanno spezzato le nostre corde / e noi singhiozziamo e temiamo la notte / perché amici non abbiamo, ma soltanto miseria”.

Citata con altri poeti rom nell’antologia Gli ultimi nomadi. Poesia nel mondo zingaro (1982) a cura del Gruppo Arca impegnato nella definizione dei rapporti fra cultura egemone e culture marginali, c’è una poesia di Elena Alessandri, Dachau, in memoria degli zingari e degli ebrei europei affratellati dal martirio nei campi di sterminio: “Nei nostri cuori si levi il grido / di dolore di questi morti. / […] / Misto a una sinfonia ebraica, / il canto di libertà d’ogni terra / lasciamo che si levi / in un solo singhiozzo / il gemito lontano / di un violino sinto”.

Romanès è il titolo dell’antologia di versi in francese e nel dialetto dei sinti gačkane (tedeschi) di Sterna Welt-Zigler, autrice di poesie d’amore rivolte a un “Tu” assente: “Il mio flamenco si scatena per / il tuo corpo che cerco/ […] / A tastoni nel glaucore della notte / cerco le tue labbra assenti / […] / Te Te nient’altro che / Te / Assente”.

Oltre a una discreta produzione poetica, la cultura zingara presenta un formulario filosofico espresso per massime, aforismi e proverbi tramandati oralmente nei dialetti vlax e non-vlax. I primi comprendono varie parlate risonanti delle lingue europee, con la prevalenza del rumeno. Nei dialetti non-vlax dominano gli influssi linguistici slavi, tedeschi e greci. In vlax parlano i rom e in non vlax i sinti.

Espressive e concise, le massime gitane sono esposte in un codice che mantiene ascendenze dal sanscrito, arcaica lingua dell’India. Peraltro, molti vocaboli romaní evolvono verso le lingue indiane più recenti. Tanto che le parole ‘lavoro’ e ‘azione virtuosa’ (karma in sanscrito) divengono kam in romaní e nel moderno hindi. Affinità con l’italiano e il francese hanno, inoltre, i numeri 2 (sanscrito dve, romaní dui, francese deux), 3 (san. tri, rom. trin, fr. trois), 10 (san. dasha, rom. des, fr. dix) ecc.

Non si mette un cartello con la scritta: ‘Non soffiare qui’, poiché il vento non sa leggere” è detto a proposito della libertà; spiegando come non si debba comandare a chi non può ubbidire. Inoltre, “è vano accendere una candela al vento”; e “se non c’è pane, non chiedere pane tostato”. “È pazzo chi ascolta, pensa e poi non fa niente”; “Sta’ attento quando il diavolo sorride”; “Guardati da un villaggio dove i cani non abbaiano”; “Se piove, non coprirti la testa con un setaccio”; “Se entri nel torrente, non puoi accusare le scarpe se sono bagnate”; “Se una mosca ti disturba, non ucciderla, ma pulisci dov’è sporco”; “Il fumo di un fuoco può accecare chi l’ha acceso”; “Il fuoco più bello comincia con piccoli rami”; “Quando non vuoi vedere, a che serve una stella?”; “Un uomo che odia suo padre, odia sé stesso”… Frasi dei figli del vento, disperse da un popolo isolato di cui talora s’apprendono appena le vicende o che più spesso non si vuol conoscere né ascoltare. Esso diventa la metafora d’una realtà di spietata esclusione per la quale gli zingari, che avrebbero gli stessi doveri dei comuni cittadini, non hanno uguali diritti e non possono avere un libretto di lavoro o un’assistenza sanitaria. Senz’altra scelta, talora, se non di rubare per sopravvivere: un modo per resistere al globale latrocinio prelevando qualcosa dai gagé, i non-zingari.

Non siamo ladri per scelta, lo siamo per necessità” dice un rom del campo nomadi di Sesto Fiorentino nei pressi di Firenze. Non avendo il senso della proprietà, per lo zingaro il furto non è un reato bensì una manifestazione d’astuzia e bravura. Giudicata negativamente è invece la rapina, violenza condannata e respinta. Tralignano dalla tradizione quegli zingari non più tali che, integratisi nel sistema, praticano l’usura e l’estorsione… Posto ciò, i rom rimasti fedeli alla loro cultura restano, nel complesso, un popolo cui – afferma il regista cinematografico d’origine zingara Emir Kusturica di Sarajevo – “si possono rubare cose più importanti di quelle che loro rubano a noi”.

Aiutateli a inserirsi nella società” invoca papa Wojtyla nell’aprile dell’anno 2000, svincolandosi dal pregiudizio ecclesiastico all’origine delle persecuzioni subite dagli zingari, accusati da sacre bolle che raccontano del primo zingaro nato da un’Eva necrofila fornicante col cadavere d’Adamo e di come gli zingari abbiano massacrato gli Innocenti a Bethlehem, scacciato Gesù dall’Egitto, spinto Giuda a tradire, forgiato il ferro per torturare Cristo e i chiodi per fissarlo alla croce (il mito del deicidio accomunerebbe zingari e giudei)… Aiutateli a essere liberi – potrebbe aggiungere il papa nel suo giubilare Mea culpa per gli errori della Chiesa, quando assegna agli zingari il santo gitano Ceferino Giménez Malla, terziario francescano fucilato nel 1936 dalla Giunta militare golpista durante la guerra civile spagnola.

Preminenti sono le musiche gitane che, connotate d’universalità popolare, influenzano, insieme al cante flamenco e al fandango, musicisti quali Liszt Bartók Borodin Debussy Ravel Séverac, gli spagnoli Granados Albeniz e il brasiliano Villa-Lobos (con le melodie andaluse, il folclore ungherese bulgaro jugoslavo romeno finlandese scandinavo russo e taluni modi del blues negro americano). Sono musiche che ispirano a Federico García Lorca (Fuente Vaqueros, 1898 – Granada, 1936) il Poema del cante jondo (1931; 1969, trad. di Carlo Bo) e il Romancero gitano (1928; 1994, trad. di Lorenzo Blini), poemi del “canto profondo”, pianto roco per la Spagna del sud: opere che armonizzano la lirica d’ispirazione gitana col madrigalismo medievale, la tradizione barocca spagnola (Quevedo, Góngora) e gli stili delle avanguardie europee moderne (simbolismo, surrealismo)… Estraneo alla politica, ma denunciato ai militari franchisti come appartenente alla sinistra, Lorca viene fucilato nell’agosto del 1936 e sepolto in una fossa comune di cui non si conosce l’ubicazione.

Afflato dell’indole e del folclore andalusi, il cante jondo, all’origine del cante flamenco, rivela la sua anima zigana contraddistinta da un’espressività drammatica che modula una lingua emozionale proliferante metafore, percussive scansioni ritmiche, variazioni affettivo-tonali. Con la strofa agìta da tensioni estetiche liberate in una spontaneità suscitatrice d’immediato canto: “Canto essenzialmente notturno,” scrive Mancinelli (cit.) “che meglio risuona nell’oscurità e l’intimità della notte come il gorgheggio dell’usignolo”.

Dal cante jondo derivano le seguiriye tzigane, forme della fonetica andalusa della seguidilla; il fandango e il fandanguillo moreschi, la sevillana, la carcelera e la petenera andalusi, la soleá ebraica, le arbolás o canti nuziali e le martinetes o canzoni del carcere… A proposito del flamenco – riferisce Mancinelli –, Lorca afferma “che furono i Gitanos ad avere dato la forma definitiva, attuale, a questo canto già conosciuto prima del loro arrivo sul suolo andaluso. Ma è nella struttura, forma psicologica dell’arte flamenca, che più si fa sentire la prevalenza gitana”… Dichiara il filosofo rumeno naturalizzato francese Emil Michel Cioran (Răşinari, 1911 – Parigi, 1995): “Prima di scrivere metto un disco di musica tzigana ungherese” (Entretiens, 1995; Conversazioni, 2004, trad. di Tea Turolla)

Negli anni del fascismo, gli zingari sono in Italia poche decine di migliaia, terroristicamente additati nel 1939 dal razzista Guido Landra sul giornale “Difesa della razza”. Rastrellati e condotti nei campi di concentramento insieme a ebrei (tra questi, Primo Levi) e ribelli politici, molti di loro vengono traferiti ad Auschwitz.

Oggi, in Italia, tra nord, centro e centro-sud, sopravvivono sparuti gruppi di zingari ‘camminanti’ e originari della Val di Noto nella Sicilia orientale: arrotini stagnini ombrellai giostrai o venditori ambulanti che si spostano tra Napoli Roma Firenze Milano. Più numerosi sono i sinti (vaganti in tutti i territori) o i rom harvati provenienti dalla Jugoslavia e sparsi nell’Italia settentrionale. Piccoli gruppi sono costituiti dai rom lovara (spagnoli e francesi).

A differenza dell’Ungheria, che nel 1993 riconosce ai rom lo statuto di “Minoranza nazionale”, e della Spagna che, specie in Andalusia, ne favorisce le attività artistiche, artigianali e la vendita ambulante, in Italia gli zingari, già deportati dal fascismo in Sardegna oppure consegnati ai militari croati e ai nazisti, non hanno ancora pieno diritto alla diversità e restano soggetti a uno strisciante genocidio culturale. Tanto che, nel 2000, su pressione del partito politico della Lega Nord, un decreto sulla tutela delle minoranze non include, contro lo stesso dettato dell’Art. 6 della Costituzione italiana (“La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”), il riconoscimento dei pur esigui gruppi di lingua romaní.

Dal dicembre del 2020 a Bihać, piccola città della Bosnia confinante con la Croazia, un migliaio di migranti ridotti al perpetuo nomadismo e di rifugiati provenienti da Iran Iraq Afghanistan, da Tunisia Eritrea Etiopia langue abbandonato nel campo di Lipa. Ogni frontiera e corridoio umanitario restano chiusi. Intanto a Duhok, nel Kurdistan iracheno, il campo-profughi di Sharya ospita nomadi Yazidi della regione irachena di Sinjar sfuggiti ai massacri dei miliziani dello Stato islamico.

Provengono dalla Nigeria, dal Ghana Ciad Niger Mali Burkina Faso e da altri territori dell’Africa subsahariana gli esuli, in maggioranza giovani, della veritiera narrazione Gehen, ging, gegangen (2015; Voci del verbo andare, 2016, trad. di Ada Vigliani) di Jenny Erpenbeck, nata nel 1967 a Berlino Est.

Dopo essere sbarcati a Lampedusa, fermi dal 2013 in un campo profughi della parte orientale di Berlino, gli esuli salvatisi dalle guerre africane ora restano come sospesi o sequestrati e senza sapere quando potranno avere il necessario permesso di soggiorno per essere liberi di poter cercare un lavoro. Se ne prende cura Richard, anziano professore universitario in pensione, vedovo e senza figli, che trasforma i propri travagli di pensatore tautologico nella presa di coscienza delle condizioni dei suoi simili diseredati: dell’insonne Rashid, fabbro, sopravvissuto a un naufragio; del ghanese Awad Issa, dei nigeriani Alhacen e Osarobo che ha visto annegare i propri compagni; di Richard che lavorando in un campo in Italia guadagnava 75 euro al mese; dello “spilungone” Ithemba, di Awad, di Karon che avrebbe voluto sposarsi, o Apollo già schiavizzato nel deserto libico; del malese Idrissu, di Moussa Adam del Burkina, di Khalil, Ermes e del bravo cantante Abdulsalam. Quanta distanza fra la loro storia, le loro vite sfortunate, e l’Europa che li rifiuta ghettizzandoli… Ma “l’Europa un domani” dichiarava Gheddafi nel 2010 durante un suo viaggio ufficiale in Italia “potrebbe non essere più europea e diventare addirittura nera perchè in milioni vogliono venire in Europa” (“La Stampa”, 30 agosto 2010). Sono persone che “vengono per necessità e anche perché hanno qualcosa da dare” dice il Nobel per la letteratura 2021 Abdulrazak Gurnah (Zanzibar, 1948). “Non arrivano a mani vuote. Molte hanno talento ed energia” (“Corriere della Sera”, 8 ottobre 2021).

Quotidianamente, Richard si prodiga per gli esuli e, con la collaborazione di Rashid, li fa assumere come volunteers nei parchi berlinesi, nelle scuole, negli asili infantili. Alcuni li ospita nella propria casa… Spesso legge le notizie di naufragi nel Mediterraneo e apprende che “sulle spiagge italiane arrivano quasi ogni giorno cadaveri di profughi africani. Dove vengono sepolti? Chi conosce i loro nomi?”. È solo un caso che alcuni siano sopravvissuti: in questo senso, ognuno di loro “è anche e al tempo stesso un vivo e un morto”.

Se nel Tigray, regione etiopica, le popolazioni in fuga dopo la guerra iniziata a novembre del 2020 rischiano di morire di fame, e se in Turchia non si contano più ‘quelli che vanno a piedi’, profughi e vagabondi relegati in aree di fortuna, nella progressista Europa non c’è ricetto per i migratori semiclandestini e rifugiati (curdi bosniaci iracheni afghani pakistani siriani bengalesi) che i governi confinano, nascondono e chiudono in zone controllate o di detenzione: a Calais in Francia, a Moira nell’isola di Lesbo in Grecia, Ceuta e Melilla in Spagna, Velika Kladuša della federazione di Bosnia ed Erzegovina o in Italia. Fino agli schiavizzati braccianti/camminanti centro e nordafricani (senegalesi maliani congolesi ivoriani sudanesi marocchini tunisini somali; con gruppi nigeriani infiltrati dalle mafie per lo spaccio di droga e la prostituzione) sparsi a Saluzzo in Piemonte, nel Trentino, nel Lazio, in Puglia, in Campania nel casertano, a Metaponto in Basilicata, nelle baraccopoli calabre di Sibari Gioia Tauro San Ferdinando, in Sicilia (zone di Trapani e Ragusa); e ancora nella rinascimentale Firenze, dove il “Poderaccio” abitato da rom e sinti, da immigrati italiani e stranieri d’ogni nazione, viene sgomberato e demolito con le ruspe. Ed è sempre nella turistica Firenze – ricorda Antonio Tabucchi (Pisa, 1940 – Lisbona, 2012) in Gli Zingari e il Rinascimento (1999) – che una piccola tribù zingara langue in baracche foderate di lamiera e cartone sorte nella frazione Le Piagge, un delocalizzato argine del fosso della Goricina tra spazzatura e pantegane.

Infine si rileva che, nel 2021, gli zingari – 22milioni nel mondo, di cui 12milioni in Europa e, di questi, poco meno di 200mila in Italia – sono rimasti ai margini del sistema assistenziale per l’epidemia-Covid.


Premessa essenziale

Biblioteca come un unico libro cresciuto su sé stesso e fatto di ‘scritture itineranti’, saggi analisi resoconti schedature.

C’è una biblioteca quanto mai varia, con i libri – alcuni noti, altri meno e talaltri rari, dimenticati oppure misconosciuti – disposti per argomenti o, volutamente, anche ‘a caso’… Il metodo con cui essi sono adunati mima la casualità e un ‘ordinato disordine’.

È infinita la bibliografia sui viaggi, com’è continuo il randagismo di scrittori e lettori; ed è inesauribile la ‘biblioerranza’ delle letterature del mondo immaginate, qui e nel loro insieme, ‘contemporanee’: con opere prese in mappe reticolari, specchi convergenti, flussi di pagine che mischiate come un mazzo di carte da gioco si connettono e intersecano per analogie comparatistiche dove ‘tutto c’entra con tutto’.

Ne risulta una policentrica rassegna per un itinerario sperimentale di critica militante dove, tra passaggi storici e tematici d’una viandanza ininterrotta, prevale l’esperienza conoscitiva.

Inclusa nel canone letterario è, altresì, la non trascurabile presenza di autori appartenenti a comunità rom perseguitate dal nazifascismo e sempre respinte dai sistemi costituiti.

La ricostruzione di questo libro è affidata al lettore. È lui che deve rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta, è lui che deve ricongiungere passi lontani che però si integrano” (Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, 1975).


SOMMARIO

Premessa essenziale

Popolo dell’Europa

Picarismo

Storie zingare

Racconto

Scrittori zingari

Razzismo nazismo sterminio

Esodi

Il servo del sole

L’uccello dipinto

Cuore di tenebra, Armenia

Quelli della strada

Viaggi in Italia

Outsider

Altri viaggi

Spagna

Vagabondando

Viaggiatore solitario

Zen e viandanza

Picaresco Tao

Tao e poetica

Il viaggio immaginario e sentimentale

Il viaggio incantato

Lontananze

Fughe

Realtà e distopia

Labirinti

Minotauro

Uomi Talpa

Frontiere

Bohémien

Au bout de la nuit

Festa mobile

Parigi

Parigi era viva

Scilla e Cariddi, Zarathustra e l’‘Eterno Ritorno’

Sicilia

Virus globale

Vagabondaggio con falco

Globetrotter

La linea del fuoco

Berlino e Alexanderplatz

Mitteleuropa

Lontano dall’Europa

Un pensiero su ““Scrittori zingari”. Saggio di Stefano Lanuzza (da “Senza meta. Biblioteca degli erranti”)

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