RECENSIONI COME CITAZIONI (I.1-3): Ernst Bloch, Gianfranco Contini, Silvio Guarnieri

RECENSIONI COME CITAZIONI (I.1-3)

Ritorni nutrienti (prima serie).

Ernst Bloch (1885-1977), Gianfranco Contini (1912-1990), Silvio Guarnieri (1910-1992).


di Luciano Curreri (ULIEGE).

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1. Ernst Bloch, Speranza e utopia. Conversazioni 1964-1975, a cura di Rainer Traub et Harald Wieser, trad. it. di Eliano Zigiotto rivista da Laura Boella, Milano-Udine, Mimesis («Gli imperdonabili», 12), 2022 (novembre), 140 pp., 16 euro.

«Il vecchio ancora non muore, il nuovo ancora non c’è – il mondo è gravido di qualcosa. L’essenza stessa non è ancora stata portata fuori, è in gestazione e possiede una valenza utopica».

«Nell’epigonismo non è possibile bere un sorso d’acqua fresca. Ben altra cosa, invece, è parlare di riconoscenza, dell’aver appreso molto, dell’essere profondamente debitori».

«Quando cade la speranza, subentra il contrario, ossia il vuoto. L’epoca in cui viviamo è uno spazio vuoto, un vuoto con scintille, certo, ma uno spazio vuoto, che anche la maggior parte delle persone sente come tale, un vuoto. L’espressione più semplice è la noia, quella più forte e più rischiosa sarebbe la disperazione, con il nichilismo alla fine. Tale è la miscela attuale, una sporca miscela. Non è ancora tutto bruciato, ma abbiamo comunque a che fare con la noia, il vuoto, l’ignoranza: sapere ciò che si vuole adesso e non dopo, ma non sapere ciò che assolutamente si vuole, non averne alcuna idea. La sottoalimentazione utopica, l’impotenza della capacità anticipante è indubbiamente la nostra situazione attuale e forse il nostro destino. In Occidente si presenta in qualche modo come una noia pluralistica, che non diventa migliore solo per questo. All’Est come una noia monolitica, tutta d’un pezzo e stabilita quasi per decreto, per cui neppure essa diventa migliore […] Noi siamo esseri pre-vedenti, siamo per natura – se si può dire – esseri utopici, a differenza degli animali. L’anticipazione è la nostra forza e il nostro destino. Tanto più singolare è allora questa situazione».

«Quanto all’utopia concreta e all’essere come utopia, forma lontanissima ma tuttavia più pratica, per il soggetto individuale significa la felicità e i contenuti di speranza che essa porta con sé; per il lato sociale del fattore soggettivo vuol dire solidarietà e possibilità nel camminare eretti, cioè l’ortopedia del camminare eretti che noi essere umani dobbiamo proseguire. Dal lato oggettivo naturale, utopia significa che un oggetto non ha più per noi il carattere dell’estraneità, ma diventa elemento costitutivo e pietra da costruzione di ciò che ci è più prossimo e che come parola compare fin troppo spesso sulla bocca delle persone, ma dove nessuno è mai stato: la patria (Heimat)».

2. Gianfranco Contini, Una corsa all’avventura. Saggi scelti (1932-1989), a cura di Uberto Motta, Roma, Carocci («Saggi», 90), 2023 (gennaio), 588 pp., 54 euro.

«Non insistiamo: sono tutte vittorie puntuali, aneddoti d’una perfettibilità perpetua. Se il discorso sulle correzioni resta così frammentario e lacerato, se lo stesso discorso critico non soltanto rimane, ma sotto un certo aspetto è destinato a rimanere aperto, è che i Trionfi sono una partita tratta sull’infinito, un’interrogazione insoddisfatta ma che, al di là della stanchezza di Petrarca, continua a chiedere la sua integrazione alla distesa dei tempi. E qui sì avviene di pensare a quel luogo della lettera ai Posteri: “Fuit enim mihi, ut corpus, sic ingenium magis pollens dexteritate quam viribus. Itaque multa mihi facilia cogitata quae executione difficilia praetermisi”» [«La mia intelligenza è come il mio corpo: ha più agilità che robustezza; e perciò mi fu agevole concepire tanti disegni che poi lasciai da parte per la difficoltà di eseguirli»; trad. it. di Pier Giorgio Ricci, in Francesco Petrarca, Prose, a cura di Guido Martellotti, Pier Giorgio Ricci, Enrico Carrara, Enrico Bianchi, Milano-Napoli, Ricciardi («La letteratura italiana», 7), 1955 e Roma, Istituto della Enciclopedia italiana («La letteratura italiana Ricciardi», 7), 2006].

«Caro De Robertis, questo mio codicillo si chiude su un’interrogazione; ma incompiuto è soprattutto su un punto essenziale, sì che la facciata terminale del suo perimetro è come quei muri nudi, con qualche pietra d’addentellato sporgente, che dalle nuove costruzioni postulano già il proseguimento […] Il merito (se qualche merito c’è) ne ritorna tutto al tuo scritto, al necessitante e cogente suggerimento che conteneva. Di questa ginnastica ti ringrazia cordialmente il tuo Gianfranco Contini».

«Sarebbe ozioso moltiplicare simili ovvie opposizioni, quando occorre proprio chiedersi perché De Sanctis sia stato a Croce così privilegiata occasione di pensiero […] Ora si sa che la patetica scoperta del vecchio Croce è la riabilitazione della Vitalità […] Il morto di settant’anni fa e lo scomparso di ieri sono eguali nell’encomio della vita, esaltatori e promotori di vita, fuori dei loro fisici anni, nei superstiti e nei posteri».

3. Silvio Guarnieri, Cronache di guerra e di pace. Racconti, a cura di Adriana Guarnieri Corazzol, con la collaborazione di Giacomo Corazzol, introduzione di Pietro De Marchi, con uno scritto di Andrea Zanzotto, San Cesario di Lecce, Manni («Pretesti»), 2022 (ottobre), 352 pp., 21 euro.

«Ma una fede che costringa, che vincoli l’uomo sino a fargli ripudiare ogni amore della vita, sino a togliergli ogni volontà e possibilità di trovare in sé un’altra dimensione, sino ad annullare ogni sua fiduca nella propria capacità di scoperta, di invenzione di sé, non poteva che apparirmi disumana; non afflato che sostenga, che nutra ed aiuti a vivere, ma costrizione che irrigidisce ed inaridisce e soffoca la vita; cosicché ad ogni possibilità di attesa e di speranza si sostituisce di necessità l’orrore dell’annullamento di sé, della negazione di sé e di ogni cosa […] spontaneamente ero portato ad opporre una modesta volontà di capire, la consapevolezza delle mie possibilità e delle possibilità dell’uomo […] cercando la mia vita in accordo con gli altri uomini, con coloro che mi rassomigliavano».

«Attraverso questo suo gesto, attraverso questa sua scelta io sentivo come, – al di là di ogni nostra diversa esperienza, al di là di ogni nostro dichiarato e proclamato proposito e di ogni contrasto, di ogni dissidio di opinioni e di convinzioni che pareva dividerci, ed anche al di là dei nostri diversi esiti, – restasse in noi due qualcosa che ci univa, restava una consonanza che ci aveva fatti vicini ad ogni nostro incontro; e forse non era neppure necessario che ci si rivedesse, che ci si reincontrasse per confermarci questa profonda affinità, perché in ciascuno di noi due l’immagine dell’altro restava in tal senso esemplare; magari senza che ce ne rendessimo conto ci confermava nella parte migliore di noi stessi».

«Così quella che era sempre parsa, e che tuttora pare, come una tara incurabile, che è dell’uomo, dentro l’uomo, intrinseca alla sua natura; che, quasi a sua insaputa, si annida anche nel più mite, nel più indifeso, pronta però a manifestarsi appena se ne offra l’occasione; di cui la violenza, l’imposizione, la brutalità, la crudeltà sono la manifestazione eccessiva, clamorosa; potranno essere soverchiate, potranno essere annullate nella pacata considerazione di sé e degli altri, nell’acquisizione di quello che sono gli altri, nella assunzione a noi di quelle che sono le ragioni e le esigenze degli altri, così da confrontarle con le nostre e dare ad esse un corso che a quello delle nostre corrisponda».


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