Introduzione a “La Critica” di Benedetto Croce (1903)

«La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce», 1, 1903

Abbiamo in Italia molte riviste speciali di storia politica, di filologia, di filosofia, di arte, e, specie, di storia letteraria, talune delle quali sotto ogni rispetto ottime. Ma, dovendo ciascuna d’esse tener dietro alla copiosa produzione d’un singolo ramo di studii, ed informare i lettori su tutte le questioni e controversie minute, è naturale che non possano acconciamente soddisfare al bisogno di chi desideri un ragguaglio critico, e come una scelta, dei libri, che si vanno pubblicando, d’interesse generale. Inoltre, appunto per essere specializzate, accade che di parecchi libri, anche dei più importanti, nessuna di quelle riviste si occupi o si occupi a fondo, perché o non entrano nelle specialità già organizzate in riviste o si distendono sulle linee d’incrocio di parecchi campi di studio attigui. Cosi, per spiegarci con un esempio, se una dissertazione su un punto anche particolarissimo della biografia o dell’opera di un antico scrittore italiano troverà ora in Italia per lo meno quattro o cinque recensori competenti, critici ernunctae naris, non si può dir che la stessa sorte sarà per toccare ad un libro, poniamo, Ai storia politica contemporaii o ad un altro che concerna un argomento di letteratura o di storia straniera. Di questi, se mai, tratteranno, più o meno leggermente, le riviste pel gran pubblico; nelle quali la parte critica è di solito assai trascurata, consistendo o in annunzii editoriali di uniforme intonazione elogiativa, o in articoli complessivi e sommarii in cui la critica non ha l’agio d’esplicarsi.

Peggiore è l’inconveniente che delle riviste pel gran pubblico nasce dall’assenza di criterii fermi e di un organico sistema d’idee: onde un’anarchia e un’ineguaglianza di giudizii che le fa somigliare talvolta a botteghe di caffè, dove ciascuno si rechi a dire, o a gridare, la propria opinione od impressione.

Eppure ognuno di noi sente forte il bisogno di non perder di vista i problemi generali e d’insieme, che son tanta parte della vita degli studii, e di dedicare ad essi la stessa attenzione ed intensa cura che si adopera per le idee e i fatti speciali e particolari. 

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Storie ed eventi storici n.5: Bartolomé de Las Casas, “La leggenda nera”

Bartolomé de Las Casas, La leggenda nera. Storia proibita degli spagnoli nel Nuovo Mondo, Jouvence, 2018

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a cura di Francesco Sasso

Bartolomé de Las Casas (Siviglia, 11 novembre 1484 – Madrid, 17 luglio 1566)  è stato un vescovo cattolico spagnolo impegnato nella difesa dei nativi americani. Per comprendere quali conseguenze ebbe l’esplorazione e poi la colonizzazione spagnola in alcuni territori del Nuovo Mondo, basta leggere queste poche righe tratte da La leggenda nera.

«Il governo di Hispaniola [Haiti] assegnò, ad ogni spagnolo che lo richiedess, a chi 50 a chi 100 indiani, fra cui vecchi, donne incinte e puerpere. Egli permise, nonostante questo fosse contro la legge, che gli spagnoli trascinassero via gli uomini capi di famiglia nelle miniere d’oro anche 10, 20, 30, 40 e 80 leghe [1 lega = 6 km circa] lontano da casa e che lasciassero nelle case e nelle fattorie le donne a svolgere il lavoro dei campi. Così succedeva che gli uomini e le loro mogli praticamente non si incontravano mai e le nascite cessarono. Essi per l’aratura non avevano zappa o aratro trainato da buoi, ma come i loro antenati dovevano spezzare la terra con bastoni induriti dal fuoco. Così gli uomini morivano nelle miniere d’oro, le donne per la fatica nei campi e i neonati morivano perché non venivano allattati e questa grande isola fiorente ben presto si spopolò.

I governanti spagnoli colpivano gli indiani con lo scudiscio e con il bastone, li frustavano, li schiaffeggiavano, li prendevano a calci, e non li chiamavano mai in altro modo che cani. Così si verificò la progressiva estinzione di questi infelici e nulla di questo si seppe in Spagna»

da Bartolomé de Las Casas, La leggenda nera, a cura di A. Pincherle, Feltrinelli

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Una Lettera di Philip K. Dick: “definirò la science fiction dicendo cosa non è sf”

[Trascrivo qui la lettera di Philip K. Dick del 14 maggio 1981 tratta da: Philip K. Dick, Prefazione, in Tutti i racconti. Le presenze invisibili, introd. Vittorio Curtoni, Mondadori, 1994, pp.13-14. (f.s.)]

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Per cominciare, definirò la science fiction dicendo cosa non è sf. Non la si può definire “un racconto (o un romanzo o un’opera teatrale) ambientato nel futuro” visto che esiste l’avventura spaziale, che è ambientata nel futuro ma non è sf. E’ soltanto questo: avventure, lotte e guerre, nel futuro e nello spazio, che comportano una tecnologia super-avanzata. Allora perché tutto questo non è sf? Sembrerebbe esserlo, e Doris Lessing, per esempio, crede che lo sia. Pero all’avventura spaziale manca l’idea nettamente nuova che è un ingrediente essenziale della science fiction. E inoltre, può esistere una sf ambientata nel presente: il racconto o romanzo che parla di un mondo alternativo. Quindi, se separiamo la sf dal futuro e anche dalla tecnologia super-avanzata, cosa ci resta che si possa chiamare science fiction?

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E. RAIMONDI, “La critica simbolica” in “Anatomia della critica” di Northrop Frye

[Ho riletto l’opera fondamentale del canadese Northrop Frye (1912-1991), Anatomia della critica, apparsa nel 1957 (traduzione italiana nel 1969). Lo studioso propone una complessa sistemazione letteraria, recuperando Aristotele e la tradizione classica, rivisitata in una prospettiva antropologica e psicanalitica (concezione archetipica di Jung).

Non sono in grado di riassumere qui il pensiero di Northrop Frye. Quindi trascrivo alcune pagine di Raimondi che con chiarezza scrive: (f.s.)]

«Anche qui si muove dal concetto di rito e si ravvisa in esso l’origine del racconto, essendo il rito una sequenza temporale di atti con un significato recondito, laddove invece le strutture di immagini sono frammenti di significati, di origine oracolare, che derivano da un istante epifanico, senza rapporto diretto col tempo. Il mito è forza centrale  che dà significato archetipica al rito e racconto archetipica all’oracolo; e perciò il mito equivale all’archetipo, sebbene propriamente il mito si riferisca al racconto e l’archetipo al significato.

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“La metafora nel Medioevo latino” di Umberto Eco

La metafora è il più importante dei tropi, ovvero l’elemento più tipico del linguaggio poetico. Ma la metafora abbonda anche nella lingua quotidiana, tanto che alcune metafore sono divenute consuete. Vi segnalo quindi il saggio La metafora nel Medioevo latino di Umberto Eco pubblicato dalla rivista Doctor Virtualis, No 3 (2004).

Abstract

La metafora nella tradizione retorica medievale. Filosofia, teologia e limiti del discorso metaforico. Metafora, allegoria e simbolismo. Tommaso, Dante e lo pseudo Dionigi

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Eco, U. (2008). 3. La metafora nel Medioevo latino. Doctor Virtualis, 0(3). Recuperato 2009-12-19, da http://riviste.unimi.it/index.php/DoctorVirtualis/article/view/51/79

 

f.s.

Jean-Jacques Viton, “Il commento definitivo (1984-2008)”, cura e traduzione di Andrea Inglese

il commento definitivoVi raccomando caldamente la prima antologia italiana del poeta Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo (1984-2008), cura e traduzione di Andrea Inglese (Metauro Edizioni 2009).

 Questo saggio, che pubblichiamo per gentile concessione dell’autore, è estratto dall’introduzione al volume. (f.s)

 [QUI] la poesia PROGRAMMA DEL MORTO (PROGRAMME DU MORT)

 

 

di Andrea Inglese

  

Motivi per un’antologia*

È opportuno dire subito che la proposta di un’antologia poetica, in Italia, dell’opera di Jean-Jacques Viton presenta un aspetto paradossale. Generalmente, una pubblicazione antologica di un poeta straniero, con alle spalle un ampio e assodato itinerario, interviene dopo che già si è avuto modo di leggere in traduzione una o più opere significative di quello stesso autore, o dopo che se ne conosca sufficientemente il lavoro attraverso traduzioni apparse in rivista. Viton, classe 1933, attivo come poeta dal 1963, indefesso promotore di riviste militanti, ed autore ad oggi di quindici libri di poesia, avrebbe senz’altro tutti i titoli per essere un nome ormai familiare presso quei lettori italiani che s’interessano di poesia contemporanea. Purtroppo le cose non stanno propriamente così. Non che Viton sia davvero ignoto in Italia, privo di legami con poeti del nostro paese, e mai apparso neppure in rivista. Egli ha persino partecipato più volte a dei festival internazionali di poesia a Milano e a Roma(1), e suoi testi sono stati in diverse occasioni tradotti in italiano. Inoltre, una lunga amicizia lo lega con Nanni Balestrini, personalità non certo appartata del nostro ambiente letterario, e attento osservatore di esperienze poetiche che travalicano i confini nazionali. Questi precedenti, però, non gli assicurano quell’autentica ricezione, in virtù della quale l’esperienza di un poeta straniero, una volta sedimentata attraverso letture e traduzioni, dovrebbe costituire un punto di riferimento e confronto per la nostra produzione poetica.(2) Ciò non accade neppure nel caso di tradizioni contigue, come quella italiana e francese, che lungo una buona parte del secolo scorso, a partire dalle incursioni dei futuristi a Parigi, non hanno cessato di dialogare e di interrogarsi a vicenda.

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SPECIALE GUIDO MORSELLI n.2: “Proust o del sentimento” interpretato da Simona Costa

sentimento proust morselli

a cura di Francesco Sasso

Proust o del sentimento, edito nel 1943 da Garzanti e riproposto nel 2007 dalla casa editrice Ananke, è il primo saggio scritto da Morselli, prefato da Antonio Banfi. Esso si inserisce, nella seconda metà del Novecento, in un panorama critico italiano ancora piuttosto spoglio, se si eccettuano i nomi di Cecchi e Debenedetti.  

Proust è un modello di ricerca in cui memoria e sentimento si saldano e si universalizzano nella scrittura letteraria. Morselli inizia sin dal suo primo scritto giovanile a riflettere, attraverso Proust, sul tema dell’autobiografismo «da lui strettamente ribadito nei termini non di una ricostruzione documentaria, bensì di una rievocazione implicante una scelta e una reinterpretazione dei fatti» (Simona Costa, Guido Morselli, Firenze, La nuova Italia, 1981, pag.14)

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Il ritmo determina la struttura poetica del discorso poetico

Il verso si contrappone alla prosa grazie al ritmo che determina la struttura del discorso poetico, “deformandolo”:

 

«Tale deformazione pervade il discorso in tutti i suoi aspetti; il fatto che dobbiamo soffermate l’attenzione su ogni parola, per “ascoltarla”, acuisce la percezione di ogni singola parola. Le parole nel verso sembrano sporgere, venire in primo piano, mentre in prosa scivoliamo su di esse, soffermandoci solo sulle parole centrali della frase. Il fatto che il discorso non sia continuo, ma disposto in serie, più o meno isolate, crea particolari associazioni fra le parole della stessa serie, o fra parole di serie parallele disposte in modo simmetrico. Il significato e la concatenazione dei significati sono governati da corrispondenze ritmiche; questo non avviene in prosa, dove invece tali corrispondenze sono costruite secondo la linea espressiva del discorso determinata dalle parole» (1)

 

B. TOMASEVSKIJ, Teoria della letteratura, Milano, Feltrinelli, 1975, p.113

f.s.

“Critica e verità” di Roland Barthes

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[Ho riletto con piacere Critica e verità. Nonostante il tempo passato, ho trovato ancora apprezzabile l’idea che l’opera d’arte richieda una lettura in profondità che secondo Roland Barthes rimanda alle istanze della critica simbolica il cui principio è quello della pluralità, della verticalità dei sensi: della polisemia. Per una prima informazione sul “strutturalismo francese” dei vari Foucault, Lévi-Strauss, Lacan, Althusses, Genette, Greimas, Barthes, Derrida, Piaget si veda l’antologia curata da S. MORAVIA, Lo strutturalismo francese, Firenze, Sansoni, 1975. Di seguito, trascrivo la postfazione di Guido Neri a Critica e verità, edizione 1969. f.s.]

 

 

Di Guido Neri

 

 

Questo scritto è nato come replica al pamphlet Nouvelle critique ou nouvelle imposture (1965), in cui Raymond Picard, specialista di studi raciniani tra i più accreditati in Francia, aveva attaccato le analisi interpretative raccolte da Barthes nel volume Sur Racine. Barthes, estendendo il discorso a una denuncia polemica delle metodologie e del linguaggio messi in uso da quella che si è convenuto di definire la «nuova critica»: definizione evidentemente empirica e provvisoria, tanto è vero che gli esempi chiamati in causa da Picard (Charles Mauron, Jean-Pierre Richard, Jean-Paul Weber, oltre a Barthes) rispecchiano orientamenti diversi e, per molti aspetti, contrastanti, nel quadro di un movimento di idee ben più ampio e articolato.

Barthes non manca di rilevarlo, e allargando l’orizzonte del dibattito, riesce a sollevarlo fino a un’autonoma riformulazione teorica dei rapporti con il testo letterario (Scienza, Critica, Lettura), che costituisce l’esito costruttivo dell’intero episodio.

A prima vista, niente sembrerebbe più deprimente – dal punto di vista conoscitivo – di uno scontro polemico. L’occasione polemica è una tentazione, un tranello. Specie se lo sfidante ha la debolezza di trattenere la disputa nei termini rassicuranti e insidiosi di vecchio e nuovo. Si tratta invece, semplicemente, di una prova, e questo libro ne è una luminosa dimostrazione: prova non estranea, in sostanza, al rapporto – illiberale, imprevedibile, compromettente – che il pensiero critico vuole avere sempre coi suoi oggetti. I due tempi di questo scritto – controffensiva polemica e iniziativa teorica – obbediscono a un’unica moralità, che è quella dell’interpretazione. Prima ancora di affermare (e insieme precisare) i «diritti elementari della interpretazione» di fronte all’opera, Barthes si sente tenuto a rispettarne le obbligazioni, fornendo una diagnosi del discorso dell’interlocutore, traducendone gli alibi e i contesti ideologici

 

[Roland Barthes, Critica e verità, Einaudi editore, 1969, pp.70]

“Arte allusiva” di Giorgio Pasquali

In un articolo del 1942, intitolato Arte allusiva e pubblicato su “L’Italia che scrive” (ora ristampato in Pagine stravaganti, II ediz., pp.275-282), Giorgio Pasquali così condensava il senso delle sue ricerche sulla poesia augustea:

 

«in poesia culta, dotta io ricerco quelle che da qualche anno in qua non chiamo più reminiscenze, ma allusioni, e volentieri direi evocazioni e in certi casi citazioni. Le reminiscenze possono essere inconsapevoli; le imitazioni, il poeta può desiderare che sfuggano al pubblico; le allusioni non producono l’effetto voluto se non su un lettore che si ricordi chiaramente del testo cui si riferiscono… Quel procedimento è (nella poesia augustea) essenziale. Anche se gli avvocati, medici, preti che per secoli hanno letto a scuola Virgilio e Orazio e l’hanno mandato a memoria non se ne sono accorti; quei due poeti, per tacere dei minori, presuppongono che il lettore abbia in mente, anche in particolari minuti, Omero ed Esiodo, Apollonio e Arato e Callimaco e chissà quanti Alessandrini, dei Romani per lo meno Ennio e Lucrezio, ma anche propri contemporanei».

  

L’allusione solo in rari casi consiste nella pura e semplice ripresa di un verso o di un’espressione di un modello; ciò era considerato troppo banale dai lettori latini; i procedimenti più frequenti sono quelli della variatio in imitando (ad es. Orazio, Epod.16, 33 che allude a Virgilio, Bucol. 4, 22) e dell’oppositio in imitando (si allude al contesto di un modello, ma si attribuisce a tale contesto il valore opposto)

f.s.

Montale: Che cos’è la poesia lirica?

Scrive Montale: «Che cos’è la poesia lirica? Per mio conto non saprei definire quest’araba fenice, questo mostro, quest’oggetto determinatissimo, concreto, eppure impalpabile perché fatto di parole, questa strana convivenza della musica e della metafisica, del ragionamento e dello sragionamento, del sogno e della veglia» (1)

(1) E. MONTALE, Sulla poesia, Milano, Mondatori, 1976, p.171

La partita a scacchi con Dio di Alessandro Cinquegrani. Prefazione di Ricciarda Ricorda

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[Ho trovato interessante la lettura di questo saggio di Alessandro Cinquegrani su Gesualdo Bufalino. Trascrivo la prefazione al volume scritta da Ricciarda Ricorda. f.s.]

Prefazione di Ricciarda Ricorda

«La mer, la mer toujours recommencée» : il verso del Cimetière Marin di Valery sulla cui traduzione impossibile si arrovella il protagonista dell’ultimo romanzo di Bufalino, Tommaso e il fotografo cieco, sembra racchiudere in sé, con la potenza della metafora ardita, il senso ultimo dell’itinerario dello scrittore di Comiso, la soluzione del dilemma che più lo assilla, l’ardua ipotesi «dell’immortalità che non esclude la morte», di un’eternità che mantenga in sé, superandole, come il mare nel succedersi delle onde, le tracce del finito.

Nelle pagine bufaliniane si rincorrono quesiti e problemi di ordine metafisico che ne scandiscono tutta la ricerca e che attendono di essere portati alla luce e analizzati: la bibliografia della critica sull’autore, infatti, è già ricca di interventi e di voci di sicuro interesse, ma sono ancora pochi i saggi che si propongano un’interpretazione complessiva, l’identificazione di nuclei portanti e trasversali della sua produzione: è questo il campo in cui si misura Alessandro Cinquegrani, individuando nel complesso, controverso e articolato rapporto dello scrittore con Dio il più importante tra i sotterranei fili rossi che la attraversano tutta.

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Sulla specificità del discorso poetico. Stefano Agosti

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Sulla specificità del discorso poetico, che si fonda su uno statuto del segno diverso da quello della lingua, Stefano Agosti precisa:

«Tale statuto potrebbe velocemente essere enunciato così: i significanti, in poesia, se, da un lato, rimandano pur sempre ai significati, dall’altro si costituiscono invece come entità autonome e, al limite, depositarie esse stesse di senso. Il significante insomma rinvia, oltre che al significato – che tuttavia condiziona e deforma – anche a se stesso, istituendosi come il significato di sé. Il fatto è che i “significanti poetici” sono solo parzialmente i significanti del discorso; in poesia, al significante ordinario si sovrappone tutta una complessa articolazione di significanti supplementari: fonetici, timbrici e ritmici, i quali, come si è detto, sono responsabili sia di una relazione col significato tutta diversa rispetto a quella normale, sia di una assunzione su di sé dello statuto di quest’ultimo. In definitiva, il significante poetico è meno il termine di un rapporto che la manifestazione d’una struttura: nella fattispecie d’una struttura formale complessa costruita dall’organizzazione degli elementi fisici del linguaggio (suoni e timbri) e dallo sfruttamento intensivo delle possibilità virtuali interne al linguaggio (la capacità di produrre “ritmi” e comporre “figure”). Il primo punto comporta l’evidenziazione dell’apparato fonetico della lingua: il secondo, della prosodia e della sintassi» (1).

(1) S. AGOSTI, Il testo poetico. Teoria e pratica d’analisi, Milano, Rizzoli, 1982, p.11

f.s.

La malinconia allo specchio di Jean Starobinski. Prefazione di Yves Bonnefoy

 

[Consiglio la lettura del breve saggio La malinconia allo specchio di Jean Starobinski. “Tradizione filosofica, tradizione iconoclastica e tradizione poetica sono i tre percorsi su cui si interroga” il critico nelle letture di tre poesie di Baudelaire. Trascrivo la prefazione al volume di Yves Bonnefoy. f.s. ]

Prefazione di Yves Bonnefoy

Non è necessario ricordare l’ampiezza, la varietà, l’importanza dei lavori di Jean Starobinski, che si colloca tra le figure più rilevanti della critica contemporanea. Mi limiterò a una osservazione.

L’argomento delle sue lezioni al Collège de France è stato la malinconia, che dopo Panofsky e Saxl, più di chiunque altro egli ha contribuito a conservare al centro dell’attenzione degli storici dell’arte e della letteratura; e indubbiamente nessun altro studio è più giustificato di questo, perché la malinconia è forse quanto di più specifico caratterizza le culture dell’Occidente. Nata dall’indebolimento del sacro, dalla distanza sempre più grande tra coscienza e il divino, e rifratta e riflessa dalle situazioni e dalle opere più diverse, essa è la scheggia nella carne di quella modernità che a partire dai Greci non cessa di nascere ma senza mai finire di liberarsi dalle sue nostalgie, dai suoi rimpianti, dai suoi sogni. Da lei deriva quel lungo corteo di grida, di gemiti, di risa, di canti bizzarri, di orifiamme mobili nel fumo che attraversa tutti i nostri secoli, fecondando l’arte, seminando la follia – quest’ultima mascherata talvolta in ragione estrema nell’utopista o nell’ideologo.

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«Come nasce un testo letterario?» o «Come è nato questo testo letterario?» (A. Asor Rosa)

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Di fronte alla domanda: «Come nasce un testo letterario?» o «Come è nato questo testo letterario?», lo storicismo mostra i suoi limiti metodologici. Diamo la parola ad Asor Rosa:
 
«Lo storicismo, nella sua doppia versione di storicismo idealistico e di storicismo sociologico-materialistico, non sembra in grado di dare una risposta a queste due domande, neanche quando venga riformato con l’acquisizione di una maggiore sensibilità segnino-formale: sia l’uno sia l’altro, infatti, continuano a porre fuori una risposta che viene invece significata solo quando è collocata dentro la concreta, organica struttura del testo. Anche in questo caso ci soccorre, invece, la nozione di sistema: essa, infatti, comporta bensì specificità e autonomia: ma tale specificità e autonomia non implicano che il sistema debba considerarsi chiuso e autosufficiente. Al contrario: esso nasce e continuamente si rinnova mediante la manipolazione nei propri linguaggi di un’infinità di materiali provenienti da ogni dove. Non è essenziale, anzi è piuttosto sbagliato, pensare che il letterario tragga alimento solo dal letterario: essenziale è invece seguire con estrema attenzione il percorso concreto e accidentato attraverso cui un qualsiasi elemento extraletterario si fa letterario, entrando a far parte costitutiva del sistema». (1)

Asor Rosa, critico di matrice marxista, pur con qualche riserva, sembra accogliere la sostanza del discorso semiologico.

(1) A. ASOR ROSA, Letteratura, testo, società, in Aa.Vv., Letteratura italiana, vol. I, Torino, Einaudi, 1982, p.19

f.s.

“Il segno simula il proprio contenuto” (Jurij Michajlovič Lotman)

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È impossibile nell’opera d’arte scindere contenuto e forma, informazione e struttura perché tutti gli elementi del testo sono significativi:

« Dire che la letteratura ha una sua lingua, che non coincide con la lingua naturale, ma è costruita sopra di essa, significa dire che la letteratura ha un suo sistema di segni e di regole per il collegamento di tali segni, sistema a lei proprio, che le serve per trasmettere delle comunicazioni particolari, non trasmissibili con altri mezzi. Cerchiamo di dimostrarlo.
Nelle lingue naturali è relativamente facile enucleare dei segni (unità costanti, invarianti, del testo) e delle regole di sintagmatica. I segni si distinguono nettamente nei piani del contenuto e dell’espressione, fra i quali esiste un rapporto di reciproco non condizionamento, di convenzionalità storica. Nel testo artistico non solo i confini dei segni sono diversi, ma è diverso lo stesso concetto di segno.
Abbiamo già detto che i segni nell’arte hanno un carattere non convenzionale, come nella lingua, ma iconico, rappresentativo […]. I segni iconici sono costruiti secondo il principio di un legame condizionato tra l’espressione e il contenuto […].
Il segno simula il proprio contenuto. Si capisce che, in queste condizioni, nel testo letterario avviene una semantizzazione degli elementi non semantici (sintattici) della lingua naturale […]. Dire: tutti gli elementi del testo sono elementi semantici, significa: il concetto di testo è identico al concetto di segno […]. Il testo è un segno integrale, e tutti i segni distinti del testo della lingua comune sono ridotti in esso al livello di elementi del segno». (1)

(1)  J.M. LOTMAN, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1972, pp. 28 sgg.

f.s.

“El crítico es semejante al actor” De Francesco De Sanctis (Ensayos críticos)

Nell’arco complesso delle esperienze in rete ispirate alla diffusione della letteratura, le traduzioni dei testi letterari sono essenziali veicoli di diffusione di là dal ristretto stagno italico. Per tali motivi che, con l’indispensabile contributo del giovane traduttore JOSÉ DANIEL HENAO GRISALES (Medellín, Colombia) e di alcuni amici italiani, cercheremo di tradurre in spagnolo (una delle lingue più diffuse al mondo) brevi antologie poetiche di autori contemporanei, creando così una piccola collana di poeti tradotti in spagnolo.

Stiamo lavorando intorno all’idea e su un poeta italiano. Avrò modo di dirvi di più nelle prossime settimane.

Nel frattempo, Retroguardia pubblicherà frammenti di saggi e racconti tradotti in spagnolo da JOSÉ DANIEL HENAO GRISALES.

Comunque, partiamo con l’idea di farci guidare dal puro disinteresse. Chiunque desideri dare una mano e/o segnalarci raccolte poetiche di indiscusso valore, ci scriva.

Di seguito il primo contributo di José Daniel Henao Grisales.

f.s.

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Promemoria di Jakobson secondo Ejchenbaum

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Promemoria: studiare la letteratura per i suoi valori. A questo proposito, ricordo una nota affermazione di Jakobson:

Oggetto della scienza della letteratura non è la letteratura, ma la letterarietà (literaturnost’). Invece finora gli storici della letteratura hanno soprattutto scimmiottato la polizia che, quando deve arrestare una determinata persona, agguanta per ogni eventualità chiunque e qualsiasi cosa si trovi nell’appartamento e anche chi per caso si trovi a passare nella strada accanto. Così anche per gli storici della letteratura tutto faceva brodo: costume, psicologia, politica, filosofia. Invece della scienza della letteratura si ebbe un conglomerato di discipline rudimentali. Pareva che ci si dimenticasse che queste rientrano, ognuna, nella scienza corrispondete, storia della filosofia, storia della cultura, psicologia ecc., e che queste ultime possono naturalmente utilizzare anche i monumenti letterari come documenti difettosi, di seconda scelta (1).

 
(1) Citato da B. EJCHENBAUM, La teoria del metodo formale, in I formalisti russi, Torino, Einaudi, 1968, p.37

f.s.

Umana gloria di Mario Benedetti. Saggio di Raffaella Scarpa

[Avrei voluto parlarvi brevemente di Umana gloria di Mario Benedetti, raccolta poetica pubblicata nel 2004 dalla Mondadori. Tuttavia, dopo aver letto l’onesto saggio di Raffaella Scarpa, pubblicato nell’antologia di poesia italiana Parola plurale, ho deciso di tralasciare l’analisi “panoramica” della raccolta del poeta friulano e di applicarmi ad un esame approfondito della parola poetica (stilistica) di Mario Benedetti. Nell’attesa del mio intervento su Umana gloria, non ci si stupirà, dunque, se trascrivo il breve saggio di Raffaella Scarpa. f.s.]

 

Umana gloria -Mario Benedetti

 di Raffaella Scarpa*

 

Per più di vent’anni di scrittura Mario Benedetti resta devoto a una pertinace fede ottica. Da Moriremo guardati del 1982 – non a caso il titolo – a quest’ultima Umana gloria, raccolta in cui rielabora e riassume l’intero lavoro poetico precedente, la vista immutabilmente è il senso eletto a comprovare la realtà o, meglio, “il lungo dubbio circa l’evidenza naturale del mondo” (così in un suo articolo su “Scarto minimo”, rivista che indicò posizioni e orientamenti della poesia italiana nei secondi anni Ottanta, da lui fondata con Stefano Dal Bianco e Fernando Marchiori).

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Letteratura-società (Maria Corti)

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Maria Corti ha dedicato una costante attenzione all’analisi delle codificazioni dei generi letterari:

 «La stessa questione dei rapporti letteratura-società- osserva la Corti- otterrà esiti più proficui se l’obiettivo dei critici sociologici sarà puntato non solo sui testi singoli, magari di grandi scrittori, ma sull’articolarsi dei generi letterari, più legati per la loro stessa realtà e per la frequentazione che ne fanno gli autori minori, al contesto socioculturale e alle sue stratificazioni» (1).

Si può capire come la letteratura sia «un campo di tensioni […] fra ciò che aspira a persistere intatto per la forza d’inerzia e ciò che avanza con impeto di rottura e di trasformazione» (2).

(1) M. CORTI, Principi della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani, 1974, p.154
(2) Ivi, p.19

f.s.

Sull’importanza dei generi letterari. Osservazione di Maria Corti

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Sull’importanza dei generi letterari per un’esatta descrittiva dei codici tematico-formali sui quali si staglia l’individualità delle opere, osserva Maria Corti:

Se la letteratura è passibile di essere indagata come sistema di interazioni di istituti letterari, essa è anche da un lato un deposito di tematiche, dall’altro il canale collettore delle varie soluzioni formali che costituiscono la lingua letteraria. Per quanto sia dimostrabile che ogni genere ha avuto il suo tipo di «scrittura», impostato che fosse sulla linea del monolinguismo o del plurilinguismo, tuttavia si è verificato che esso facesse i conti con le generali strutture retoriche della lingua letteraria che, in un paese come l’Italia, è stata fino al nostro secolo il sostituto della inesistente langue. Questa particolare situazione storica italiana, cioè la mancanza di una lingua di comunicazione che agisse sulla lingua letteraria, ha fatto sì che in quest’ultima si riscontri, almeno per il passato, una maggiore staticità rispetto agli altri piani del sistema letterario. La costante presenza di parecchie marche di origine retorica attraverso i secoli nel livello formale di quasi tutti i nostri generi letterari dà quella impressione curiosa per cui sembra che nella nostra letteratura qualcosa sia sempre diverso, ma qualcosa sia sempre uguale. (1)

(1) M. CORTI, I generi letterari in prospettiva semiologia, in  «Strumenti critici», I, 1972, p.9

f.s.

La pratica della lettura (e della critica) secondo Alberto Asor Rosa

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Trascrivo una puntualizzazione di A. Asor Rosa su come si rapporti la pratica della lettura (e della critica) alle diverse idee di letteratura:

 
Se la letteratura verrà considerata come prodotto sociale, noi cercheremo in essa il predominio della rappresentatività (fedeltà, tipicità, aderenza, verosimiglianza) rispetto a un determinato contesto sociale. Se la penseremo come prodotto della storia delle idee, in essa ci sembrerà prevalente il meccanismo in base al quale l’organizzazione formale di una data ideologia produrrà (o dovrebbe produrre…) strutture testuali coerenti con la Weltanschauung dell’autore. Il convincimento che l’approccio al testo è regolato sempre da alcuni meccanismi del piacere, ci spingerà a motivare il nostro giudizio più o meno positivo sul testo in base alla formula edonistica cui c’ispiriamo. Se il meccanismo basilare della conoscenza ci sembrerà di natura psicologica , cercheremo di ricondurre l’interpretazione dei personaggi e delle azioni alle leggi generali della psiche umana, cui la letteratura evidentemente non può sottrarsi; analogamente faremo quando la struttura di base del linguaggio verrà fatta affondare nell’inconscio e nelle determinazioni che ad esso sono proprie. Chi, invece, nell’opera privilegerà il riferimento a certi comportamenti dominanti nell’ambiente umano-intellettuale circostante, darà di quell’opera una lettura antropologica. Un’opera, però, può anche essere intesa essenzialmente come sistema stilistico: la dinamica delle forme finirà in questo caso per influenzare tutto il resto, perché niente , né di psicologico né di subconscio, potrà in essa penetrare, senza essere filtrato, purgato e sistemato secondo il principio decisivo della coerenza stilistica. Essa può anche essere intesa come sistema segno-formale: lo stile, allora, non sarebbe altro che una manifestazione particolare di una più generale dimensione sistematica, dentro la quale ogni informazione contenuta nel testo letterario può essere ridotta alla forma di segno. Se poi introduciamo in questa problematica le categorie della retorica, potremmo ricondurre l’analisi del messaggio-segno letterario a una serie di regolamentazioni e di procedure fissate nel tempo con un’accuratezza, di cui l’autore finisce per apparire il semplice mediatore […]. Chi mette alla base della letteratura la storia del gusto, interpreterà la storia della letteratura come un episodio o manifestazione particolare della storia del gusto. I fautori di un’interpretazione culturale della letteratura si preoccuperanno al massimo di finalizzare la lettura del testo letterario alla ricostruzione di un profilo culturale generale del periodo storico corrispondente: a questo modello più o meno direttamente si riallacciano tutti coloro per i quali la storia della letteratura non è che un modo di scrivere ( e per scrivere) una storia della civiltà, assai spesso sotto forma di storia della civiltà  nazionali. Per altri sarà determinante l’aspetto gnoseologico della letteratura, cioè la sua capacità di conoscenza: per quanto si possa rivestire questo atteggiamento di motivazioni formali o retoriche, non c’è dubbio che in questo modo la letteratura viene ridotta a una qualche forma di attività razionale propria dell’uomo. Per altri, al contrario, la letteratura varrà soprattutto come simbolo di un qualcosa che precisamente il discorso razionale non riesce ad esprimere. (1)

(1) A. ASOR ROSA, Letteratura, testo, società, in Aa.Vv., Letteratura italiana, vol I, Torino, Einaudi, 1982, pp. 8 sgg.

f.s.

Freud: “L’artista è originariamente un uomo che si distoglie dalla realtà”

Nei Due principi regolatori della vita psichica (1911) Freud afferma che «l’artista è originariamente un uomo che si distoglie dalla realtà giacché non può adattarsi a quella rinuncia, all’appagamento delle pulsioni che la realtà inizialmente esige, e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita di fantasia».

Secondo Freud la realtà impone ad ogni uomo ed ovviamente anche all’artista una serie di rinuncie all’appagamento totale del piacere, per cui ne deriverebbero motivi di insoddisfazione e di disadattamento risarciti dalla sublimazione narcisistica dell’arte.

Non diversamente nel Dialogo della civiltà (1929) l’arte viene annoverata fra i «soddisfacimenti sostitutivi» contro le frustrazioni, le durezze e i disinganni della vita. L’arte è un  «parco-riserva» del regno psichico della fantasia, sottratto al principio della realtà: l’artista vi ha accesso, vincendo le rimozioni inibenti della cultura e fa sì che anche gli altri possano godere dei piaceri sublimati e inconsci.

Per concludere, non sono un psicanalista,  ma il discorso di Freud non mi convince.

f.s.

La critica stilistica di Leo Spitzer

La stilistica interpretativa è stata sviluppata con singolare acume psicologico dal tedesco Leo Spitzer (1887-1960). Egli fonda il suo metodo sul seguente presupposto:

«A qualsiasi emozione, ossia a qualsiasi allontanamento dal nostro stato psichico normale, corrisponde, nel campo espressivo, un allontanamento dall’uso linguistico normale; e, viceversa, un allontanamento dal linguaggio usuale è indizio di uno stato psichico inconsueto. Una particolare espressione linguistica è, insomma, il riflesso e lo specchio di una particolare condizione di spirito» (1).

Quindi, l’importanza della lettura:

« Io cerco di derivare lo stile linguistico di uno scrittore soltanto dalla lettura delle sue opere, e le sue leggi soltanto da lui stesso. La lettura, una lettura approfondita, è per così dire il mio unico strumento di lavoro » (2).

La lettura di un testo, dice lo Spitzer, rivela l’animo del poeta, “ i centri emotivi”, una “situazione” fantastica.

«Il mio modo di affrontare i testi letterari potrebbe essere sintetizzato nel motto Wort und werk, “parola e opera”. Le osservazioni fatte sulla parola si possono estendere a tutta l’opera: se ne deduce che fra l’espressione verbale e il complesso dell’opera deve esistere, nell’autore, un’armonia prestabilita, una misteriosa coordinazione fra volontà creativa e forma verbale» (3).

Questa tecnica critica non deve mai perdere l’insieme delle parti, nell’andare dalle parti al tutto e viceversa.

1) LEO SPITZER, Critica stilistica e semantica storica, Bari, Laterza. 1966, p.46
2) ibid., p.41
3) ibid., p.52

f.s.

Stroncatura di Polibio

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Ho scovato questa stroncatura nel libro che sto leggendo: Storia di Roma (1831) di Jules Michelet. Quest’ultimo cita la stroncatura di Polibio a proposito dell’origine di Roma.

Polibio era un greco di Megalopoli, condotto a Roma come ostaggio nel 166 a.C. dopo la sconfitta di Pidna. Scrisse 40 libri di Storie che narrano le vicende di Roma dalle origini fino al 144 a.C.

 
<<Si vorrà sapere – dice Polibio, lib. III, – il perché io faccia qui menzione di Fabio. Io giudico il suo racconto non già tanto verosimile da dover temere che gli si dia fede, perché quanto egli ha scritto ha talmente poca consistenza, che i lettori avvertiranno bene, senza che io ne parli, il poco fondamento che si può fare su di un autore la cui caratteristica è la leggerezza; ma debbo avvertire quelli che lo leggeranno di badare meno al titolo del libro che al contenuto di quello, perché vi sono persone, le quali, ponendo maggiore attenzione alla qualità dello scrittore che non ai fatti narrati, credono di dover accettare tutto quanto egli dice, per il solo fatto che egli è stato contemporaneo e, per giunta, senatore. Quanto a me, così come ritengo di non dovergli negare ogni fede, non voglio neppure che gli si creda al punto da non fare più uso del proprio giudizio; bensì intendo che il lettore, dalla natura stessa delle cose riferite, giudichi da sé quanto ne debba credere>>
(JULES MICHELET, Storia di Roma, Rusconi ed. 2002, pag.79)

f.s.

da La poesia di Benedetto Croce: “Ma la classe prossima è pur sempre una classe”

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Trascrivo da La poesia di Benedetto Croce:

 

Il critico deve veramente contenere in sé non un moralista ma un filosofo, che abbia meditato sull’anima umana nelle sue distinzioni e opposizioni e nella sua dialettica; e non propriamente il filosofo in quanto attua i suoi concetti in giudizi di filosofia, di scienza, di politica, di morale e di ogni altra sorta, sebbene in quanto viene ordinando il gran materiale dei formati giudizi in classi o tipi del vario sentire e fare dell’anima, e con ciò si tramuta in ‘psicologo’.
Caratterizzare una poesia importa determinante il contenuto o motivo fondamentale, riferendolo a una classe o tipo psicologo, al tipo e alla classe più vicina; e questo il critico spende il suo acume e dimostra la sua finezza e delicatezza, e in questa fatica egli è soddisfatto solo quando, leggendo e rileggendo e ben considerando, riesce finalmente, colto quel tratto fondamentale, a definirlo con una ‘formola’, la quale annunzia l’eseguita inclusione del sentimento della singola poesia nella classe più vicina che egli conosca o che ha, per l’occasione, escogitata.

Ma la classe prossima è pur sempre una classe, ossia un concetto generale, e la poesia è, invece, non il generale ma l’individuale-universale, il finito-infinito; onde la formola, per quanto si accosti all’evocata poesia, non coincide mai con lei, e anzi tra le due rimane sempre una distanza abissale. Paragonata alla poesia, la formola della sua caratterizzazione appare sempre, dal più al meno, rigida e stridente. Da ciò, dopo il momentaneo appagamento, lo scontento che si prova dinanzi alle più elevate formole critiche, anche alle nostre proprie, che sono state prodotte con tanta tensione di mente, con tanto lavorio di acume, con tanto scrupolo di delicatezza.

B. CROCE, La poesia, Bari, Laterza, 1996, p.115

f.s.

L’opera letteraria secondo Jean Starobinski

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L’opera letteraria- dice Starobinski- è un <<essere>> e insieme un <<materiale>>:

Essa è entrambe le cose: un essere che attende l’incontro, un materiale, a sua volta lavorato, che aspetta il lavoro; o ancora: un’intenzione che si destina alla nostra attenzione con lo sviluppo di una forma. Aver riguardo per l’opera significa rispettare, in essa, la sua finalità intenzionale e insieme la sua forma <<oggettiva>> (la sua struttura).
E per rendere giustizia a questo duplice aspetto dell’opera che la critica deve possedere a sua volta due attitudini: savoir-faire strumentale e animazione finalizzata, ambedue capaci di assumere su di sé la presenza dell’opera, senza confondersi con essa. L’aspetto strumentale della critica garantisce l’aspetto materiale dell’opera; l’animazione finalizzata della critica replica alla finalità dell’opera, che non si accontenta di percepire e di registrare. (1)

(1) Jean Starobinski, La letteratura: il testo e l’interprete, in Aa.Vv., Fare storia, a cura di J. Le Goff e P. Nora, Torino, Einaudi, 1981, pp.200 sgg.

f.s.
 

Pluridiscorsività e intertestualità per Michail Michailovič Bachtin

Noticina su pluridiscorsività e intertestualità

(amanuense web)

Per Michail Michailovič Bachtin la parola del romanzo <<si forma nell’interazione dialogica con la parola altrui>> (“La parola del romanzo”, in Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979).

Scrive:

In ogni dato momento della sua esistenza storica, la lingua è totalmente pluridiscorsiva: è coesistenza incarnata di contraddizioni ideologico-sociali tra il presente e il passato, tra le varie epoche del passato, tra i vari gruppi ideologico-sociali del presente, tra le correnti, le scuole, i circoli ecc. Queste “lingue” della pluridiscorsività si incrociano in vario modo tra di loro, formando nuove “lingue” socialmente tipiche (ivi, p.99).
f.s.

F. De Sanctis: La dissoluzione delle forme nella Divina Commedia

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amanuense-web: trascrivo da F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Totino, Einaudi, 1958, vol 1, p.201. (f.s.)

[…] Il concetto dantesco, lo spirito che alita per entro al suo mondo, è dunque la progressiva dissoluzione delle forme, un costante salire di carne a spirito, l’emancipazione della materia e del senso mediante l’espiazione e il dolore, la collisione tra il satanico e il divino, l’inferno e il paradiso, posta e sciolta. Omero trasporta gli dèi in terra e li materializza; Dante trasporta gli uomini nell’altro mondo e li spiritualizza. La materia vi è parvenza; lo spirito solo è; gli uomini sono ombre; i fatti umani si riproducono come fantasmi innanzi alla memoria; la terra stessa è una rimembranza che ti fluttua avanti come una visione; il reale, il presente è l’infinito spirito; tutto l’altro è “vanità che par persona”. Questo assottigliamento è progressivo: il velo si fa sempre più trasparente. L’Inferno è la sede della materia, il dominio della carne e del peccato; il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in presenza; la pena non modifica i caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre si continua nell’altro mondo e s’immobilizza in quelle anime incapaci di pentimento: peccato eterno, pena eterna. Nel Purgatorio cessano le tenebre e ricomparisce il sole, la luce dell’intelletto, lo spirito; il terreno è rimembranza penosa che il penitente si studia di cacciar via, e lo spirito sciogliendosi dal corporeo si avvia al compiuto possesso di sè, alla salvazione. Nel Paradiso l’umana persona scomparisce, e tutte le forme si sciolgono ed alzano nella luce; più si va su, e più questa gloriosa trasfigurazione s’idealizza, insino a che al cospetto di Dio, dell’assoluto spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento: […]

Etimologia popolare: hamburger

 La lingua è un corpo vivo: si modifica, si combina continuamente. Lo sviluppo di forme contaminate e le retroinformazioni dimostrano che il mutamento morfologico, per esempio, può avere come conseguenza la creazione di nuove forme arbitrarie.

Ecco un esempio tratto dal libro di Lehmann:

<< Un elemento di questo genere che ha conosciuto uno sviluppo negli ultimi decenni è il suffisso inglese -burger In tedesco –er è un comune suffisso per la formazione di aggettivi derivati da toponimi, come in Berliner ‘berlinese’, Wiener ‘viennese’, Frankfurter ‘di Francoforte’. Alcuni di questi aggettivi venivano anche utilizzati per denominare particolari piatti tipici di una certa città, come Frankfurter (un tipo di salsiccia). La stessa sorte aveva avuto la parola Hamburger, ma una volta importata negli Stati Uniti, questa forma era stata reinterpretata come contenente la parola ham ‘prosciuto’ (benché il prosciutto non sia un ingrediente degli hamburger). Di conseguenza, la seconda parte della parola è stata reinterpretata come suffisso che denota un particolare tipo di bistecca, e utilizzata in altre forme come cheeseburger, fishburger, e via di seguito. Processi di questo tipo, in cui una forma viene interpretata in base a quella che si suppone sia la sua origine (come qui, ham + burger) vengono detti etimologie popolari>> (1).

(1) W. P. Lehmann, Manuale di linguistica storica, il Mulino, 1998, pag. 266

f.s.

Il lettore-collaboratore

La destoricizzazione del messaggio rafforza la centralità del lettore, visto da Barthes non più come <<consumatore>> ma come un <<produttore del testo>>. Al limite, non si può parlare di interpretazione ma di riscrittura, anche perché il testo non è una struttura chiusa di segni ma una sorta di <<galassia di significati>> senza inizio, reversibile, a più entrate.

E’ ben vero che, pur senza la suadente maestria di Barthes, anche il lettore comune è portato a leggere il testo come un’<<opera aperta>>, proiettandola sul proprio schermo, cioè su codici-sistemi estremamente variabili:

La libertà nello scegliere i contesti interpretativi dell’opera, all’interno delle regole sopralinguistiche [= culturali], è piuttosto considerevole. L’opera si lascia proiettare su diversi schemi, e può così fornire risposte a domande postele non soltanto dal medio <<cultore d’intrecci>> [= lettore di romanzi], e non soltanto dallo studioso di letteratura e di lingua, ma dallo psicologo, dallo storico, e magari dal botanico, dal numismatico o dal meteorologo, dal teorico della cucina e della moda. Non perverrò alla conclusione, tuttavia, che i significati ora in questione siano importanti arbitrariamente all’opera: che nell’opera, insomma, essi non ci siano. Posso solo dire che essi, nell’opera, non c’erano, che si sono formati nel materiale segnino fissato dal testo, insieme ai mutamenti storici dei codici correlabili a codesto materiale. (1)

Questo fenomeno comprova <<la capacità del testo artistico di accumulare informazioni>> (2) per effetto delle transcodificazioni di lettura che accompagnano il suo viaggio nel tempo.

E, ancora, che il lettore non è passivo ma collabora alla funzione comunicativa del testo, il quale <<incomincia a esistere solo quando lo si legge>>. <<Ma- aggiunge Segre- teniamo ben conto di due fatti così ovvi da poter essere dimenticati. Primo: il testo comunica perché vi è stato concentrato un contenuto […] Secondo: non esiste soltanto il lettore attuale, il signor Io. Da quando il testo è stato scritto, ascoltatori e lettori si sono succeduti, e la sostanza comunicativa è sopravvissuta alla prepotenza di tante soggettività. Il nostro tesoro di informazioni contiene già le informazioni precedentemente assimilate, e i nostri codici sono la trasformazione dei codici precedenti. Il filologo ha più di altri il sentimento della durata dei testi>> (3)

Dunque, il testo letterario è una struttura chiusa di segni che, per la particolare densità e ambiguità che li caratterizza, mantengono un altissimo potenziale semantico, un dinamismo che il lettore-collaboratore cercherà di attualizzare senza illudersi di esaurire definitivamente. <<Un testo-dice Eco- vuole lasciare al lettore l’iniziativa interpretativa, anche se di solito desidera essere interpretato con un margine sufficiente di univocità. Un testo vuole che qualcuno lo aiuti a funzionare>> (4)

Note

(1) A. Okopien Slawinska, Il sistema dei personaggi nella comunicazione letteraria, in Aa. Vv., La semiotica nei paesi slavi, Milano, Feltrinelli, 1979, p.619

(2) J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1972, p.33

(3) C. Segre, Semiotica filologica, Torino, Einaudi, 1979, p.19

(4) U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979, p.52

f.s.

Lessico e dizionario

Il dizionario non costituisce mai, nemmeno nelle forme elettroniche, una fonte esaustiva di tutte le parole di una lingua e dei significati e usi che caratterizzano tali parole, ma un repertorio incompleto; questo avviene da un lato per scelta, dall’altro per necessità, poiché il numero complessivo delle parole di una lingua è difficile da stabilirsi e le proprietà di ogni singola parola non sono così facilmente individuabili.

 

Una recente trattazione di questi aspetti, in chiave principalmente lessicografica, è in De Mauro, La fabbrica delle parole: il lessico e problemi di lessicografia, Torino, UTET, 2005.

 

<< Se il dizionario costituisce un repertorio incompleto del lessico, esso contiene però un numero di informazioni maggiore rispetto a quelle che costituiscono di norma la competenza lessicale di un singolo parlante. Infatti, un parlante nativo non conosce mai tutte le parole, le accezioni e gli usi documentati di un dizionario, e tanto meno informazioni specifiche come per esempio l’etimologia o la data della prima attestazione delle parole. Viceversa, la competenza lessicale del parlante non rappresenta un perfetto sottoinsieme delle informazioni riportate nel dizionario. Mancano nei dizionari alcuni diminutivi, come borsina, alcuni participi passati usati come aggettivi, come addobbato, e così via: sono parole formate attraverso regole morfologiche produttive (non quindi diminutivi come per es. carrozzina, il cui significato si è specializzato, nel senso che non indica più genericamente ‘una piccola carrozza’). Questa mancanza dei dizionari, a ben vedere, non è immotivata: si tratta di parole che si suppone non stiano costantemente nel lessico, ma siano ‘ricreate’ o ‘ricreabili’ all’occorrenza dal parlante, con l’ausilio della competenza morfologica oltre che di quella lessicale.>>

 

f.s.

“per me la poesia nasce, si crea, nella scrittura, nell’irrimediabile e irripetibile paralisi (o prigione) delle parole.”

Ricopio diligentemente alcune righe pubblicate su Stilos, anno IX n.11 del 29 maggio 2007, pag.10. Ad una domanda, non importa quale, di Manuele Masini, il poeta lusitano Pedro Tamen risponde:

Il fatto di non prendersi sul serio è una semplice questione di etica personale e ha a che vedere con il rifiuto vivo e attuale di un protagonismo salvatore. Rinnego una qualsivoglia visione più o meno novecentesca, del poeta concreto che io sono, come un illuminato che impugna il fascio salvifico della poesia e riversa agli ignari umani le verità che questi, poveretti, non conoscono… Ma questo per nulla contraddice la mia fiducia- moderata ma reale- nelle virtù, possiamo dire, gnostiche della poesia in sé e delle sue potenzialità <<terapeutiche>> per la miseria umana. […] Ciascuno di noi ha il suo modo di funzionare, ma per me la poesia nasce, si crea, nella scrittura, nell’irrimediabile e irripetibile paralisi (o prigione) delle parole.

da Parola Plurale: “Datemi dunque un corpo: dateci dunque un popolo”

Da un mese ho ripreso in mano l’antologia di poesia italiana Parola Plurale a cura di Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublena. Sessantaquattro poeti. Uscita nel 2005 per l’editore Luca Sossella di 1177 pagine al prezzo di 20 euro.

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[QUI] e [QUI] trovate la prima e la seconda parte dell’introduzione 1975-2005 Odissea di forme.

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Ebbene, forse parlerò dell’antologia più in avanti su queste pagine elettroniche oppure no. Tuttavia, per adesso mi preme trascrivere in codesto mio quaderno elettronico la parte finale del saggio Io è un corpo di Andrea Cortellessa. A conclusione del suo ragionamento intorno ai poeti Giuliano Mesa e Gabriele Frasca, Cortelessa, riprendendo le parole di quest’ultimo, accenna alla cultura orale:

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<< […] Frasca, da parte sua, esplicita la valenza politica della declinazione ‘orale’ della letteratura: riandando addirittura alle origini della poesia (con lo storico viatico di Havelock 1963, cit. in Frasca 2005, 24 e passim), alla “partecipazione etimologicamente ‘entusiasta’ (vale a dire di invasamento estatico) dell’uditorio che ascoltava, ripeteva, danzava e, infine, assimilando porzioni di epos, ‘ricordava’, defluendo per così dire nella personalità dell’aedo che a sua volta si annullava nell’esecuzione”. La cultura orale pre-alfabetica era “una sofisticatissima e apparentemente impalpabile macchina per il riposizionamento dei sensi, che avrebbero però finito col modificare, tramite la memoria, il corpo stesso che si disponeva a ospitarla”. Resti di tali “pratiche entusiastiche” (ivi, 70), secondo Frasca, si rintracciano anche nella cultura alfabetica: dalle Epistole di Paolo di Tarso alle grandi paranoie postmoderne. Per questo “tutti i possibili lettori, se sono per davvero un ‘popolo che manca’, lo sono esattamente in quanto un messaggio deve ancora giungere, e magari è già in viaggio. Un ‘popolo che manca’ è un popolo cui manca qualcosa. Perché scrivere ancora, se no?” (ivi, 283). “Letteratura” dev’essere “‘trasmigrazione’, e cospirare dunque per ‘nuovi legami’ da instaurare, sia pure nel tempo di ‘fusione’ della sua materia, fra gli uomini” (ivi, 312).
In uno degli ultimi scritti di Artaud, Il teatro e la peste, basterà (ai nostri fini) sostituire teatro con poesia:

Può darsi che il veleno del teatro, iniettato nel corpo sociale, lo disintegri, come dice sant’Agostino, ma lo fa come una peste, come un flagello vendicatore, come un’epidemia salvatrice […] Il teatro, come la peste, è una crisi che si risolve con la morte o con la guarigione […] dal punto di vista umano l’azione del teatro, come quella della peste, è benefica, perché, spingendo gli uomini a vedersi quali sono, fa cadere la maschera, mette a nudo la menzogna, la rilassatezza, la bassezza e l’ipocrisia; scuote l’asfissiante inerzia della materia che deforma persino i dati più chiari dei sensi; e rivelando alle collettività la loro oscura potenza, la loro forza nascosta, le invita ad assumere di fronte al destino un atteggiamento eroico e superiore che altrimenti non avrebbero mai assunto. (Artaud 1961-64, 149-50).
 
È con ogni probabilità di qui che proviene il concetto di salute che dà un tono eroico agli ultimi scritti di Gilles Deleuze (quelli raccolti in Critica e clinica): per il quale, appunto – e a dispetto di tutto –, “la letteratura è salute” (Deleuze 1993, 11). “Non che lo scrittore abbia necessariamente una salute vigorosa […], ma gode di un’irresistibile salute precaria che deriva dall’aver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce, ma gli apre dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili. Da quel che ha visto e sentito, lo scrittore torna con gli occhi rossi, i timpani perforati”. Soprattutto, “la salute come letteratura, come scrittura, consiste nell’inventare un popolo che  manca […] un popolo a venire, ancora sepolto sotto i suoi tradimenti e rinnegamenti” (ivi, 16).
Datemi dunque un corpo: dateci dunque un popolo. >>

Le arti figurative. Saggi di critica estetica di Charles Baudelaire

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Charles Baudelaire (1821-1867): il mio poeta preferito, seguito da Rimbaud. A vent’anni avevo già letto tutte le opere dell’autore francese, finanche i saggi di critica estetica.

Baudelaire. Si tratta della più importante e inquietante personalità poetica di tutti i tempi. Con Les Fleurs du Mal (I fiori del male) Baudelaire pone le basi di una estetica in cui prevale una sensualità obiettiva, atta a penetrare le corrispondenze segrete fra immagini, voci e colori della natura. A tale estetica si accompagna uno stile capace di rivelare nelle parole e nei ritmi metrici quelle stesse realtà celate di cui è colmo l’universo come «una foresta di simboli».

Baudelaire ebbe anche la certezza dell’unità assoluta di prosa e poesia, mirando ad un linguaggio ideale che non potesse essere definito né in un modo né nell’altro. Non sta a noi giudicare se egli vi giunse o no. Certo i suoi «poemi in prosa», Le spleen de Paris, pur nella loro perfezione, vennero considerati da Baudelaire solamente come un tentativo sulla via di codesto stile. Egli, d’altronde, fu un prosatore impeccabile, nel vero senso della parola, come ci documenta la novella La Fanfarlo, i saggi Du vin e du haschisch, Les paradis artificiel, gli scritti di critica letteraria e di critica d’arte.

Continua a leggere “Le arti figurative. Saggi di critica estetica di Charles Baudelaire”

da i Quaderni (1914-1916) di L. Wittgenstein

Trascrivo/ripropongo (Amanuense web) 

Il mondo incapsulato nel linguaggio

I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.

C’è realmente soltanto una anima del mondo, che io di preferenza chiamo la mia anima, e in base alla quale solamente concepisco le anime degli altri.

La precedente osservazione dà la chiave per decidere in che misura il solipsismo sia una verità. [L. Wittgenstein, Werkausgabe, Band I, Frankfurt a.M., 1984, p.141]

*** Continua a leggere “da i Quaderni (1914-1916) di L. Wittgenstein”

Da Saggi critici di F. De Sanctis: “Il critico è simile all’attore”

(Amanuense web) trascrivo:

Il critico è simile all’attore; entrambi non riproducono semplicemente il mondo poetico, ma lo integrano, empiono le lacune. Il dramma ti dà la parola, ma non il gesto, non il suono della voce, non la persona; indi la necessità dell’attore. Togliete alla poesia drammatica la rappresentazione e rimarrà necessariamente un genere monco ed imperfetto. Il simile è della critica. Si sono scritte delle dissertazioni per provare la sua inutilità. Eh! Mio Dio! La critica germoglia dal seno della poesia. Non ci è l’una senza l’altra. Cominciate dunque dal distruggere la poesia.
Il libro del poeta è l’universo; il libro del critico è la poesia: è un lavoro sopra un altro lavoro. E come la poesia non è una semplice interpretazione, né una spiegazione filosofica dell’universo; così il critico non deve né semplicemente esporre la poesia, né solo filosofarvi sopra. Non questo, e non quello: cosa dunque? La più natural cosa di questo mondo: quel medesimo che fa il lettore.
E cosa fa il lettore? Aprire il libro e leggere. E quando l’immagine comincia a mettersi in moto, quando vedete drizzarvi avanti tre o quattro creature poetiche, e la camera si trasforma in un giardino, in una grotta, e che so io, l’incantesimo è riuscito; voi siete ammaliati; voi vedete quello stesso mondo che brilla innanzi al poeta.

Continua a leggere “Da Saggi critici di F. De Sanctis: “Il critico è simile all’attore””

Il cerchio e la linea (da Metologia e tecniche letterarie di S.F. Di Zenzo-P.Pelosi)

(Amanuense web) trascrivo:

  […]  Due sono gli atteggiamenti critici possibili di fronte ad un’opera:
   il primo consiste nel porre delle premesse generali e nel far reagire l’opera secondo tali premesse;
   il secondo consiste nell’esaminare il tessuto dell’opera per ricavarne dei vettori di senso operanti tra di loro.
   Nel primo caso si tratta di esprimere dei giudizi di valore, seguendo, come nota Bàrberi-Squarotti, la figura del cerchio: la conclusione a cui si giunge è già postulata dalla premessa.
   Nel secondo caso non si parte da categorie di valori precostituiti all’opera, ma si cerca di scoprire l’universo categoriale dell’opera stessa per mezzo di alcuni strumenti elementari, ricavabili dalla materia che è alla base di tutte le opere e che ne rende possibile la loro organizzazione: il linguaggio.
   La figura della linea può rendere tale operazione.
   La prima prospettiva fa sì che l’opera, forzatamente, venga fatta adeguare alla critica: la figura del cerchio dà origine ad una critica parziale, tautologica, basata più sul rigore arbitrario del gusto che su quello obbiettivo della scienza.
   La seconda prospettiva fa agire, invece, il critico all’inverso: è la critica che s’adegua all’opera.
   La figura della linea fa sì che non si creino al di sopra del messaggio artistico costruzioni giustapposte e fuorvianti.
   In tal senso, la seconda prospettiva è una prospettiva scientifica e cioè filologica.
   In questo modo, sia la sociologia che la psicocritica si rivelano strumenti atti ad illuminare alcuni punti nodali di un’opera, ma incapaci ad inquadrarne la vasta polisemia. […]

[Dall’introduzione de Metologia e tecniche letterarie di S.F. Di Zenzo-P.Pelosi, Guida editori, 1976, pp.8].

Critica della lettura di Vittorio Spinazzola

Una lettura feconda ci modifica, ci arricchisce:

<<Una via privilegiata per fuoriuscire dai limiti della prassi esistenziale consiste nell’aprire il campo dell’immaginazione. Ecco un modo agevolmente perseguibile per risanarci interiormente dei danni, delle frustrazioni accumulati giorno per giorno, ad opera non solo degli altri ma, quel ch’è peggio, di noi stessi. La finzione ci permette di vivere quante altre vite vogliamo, di provare emozioni che ci sono negate più pervicacemente: insomma di compiere, e di godere, un itinerario alla ricerca di un’identità diversa, più ricca, più bella perché sorretta da un rapporto ben più gratificante col mondo.>> (1)


Il processo ermeneutico richiede un atteggiamento di cooperazione critica del lettore, ad un tempo, atto di adesione e di distacco. Lettura di ricerca che <<mira a percepire e quindi valorizzare ciò che rende unico un testo, nell’inconfondibilità dei suoi tratti differenziali. È in quest’ottica che esso offre al lettore il piacere emozionante della scoperta, facendolo procedere dal noto verso l’ignoto, vale a dire l’inedito>> (2)

V. Spinazzola, Critica della lettura, Roma, Editori Riuniti, 1992.
(1) Ivi, pp.60 sgg
(2) Ivi, p.138

Il libro si consacra nella irrealizzabilità & Roland Barthes

Uno scrittore scrive un libro, ma questo diviene opera quando inizia a vivere, ossia inizia ad esser letto. Non tutti i libri nati saranno letti. Io mi chiedo: quanti libri pubblicati attendono di vedere la luce, ossia d’incontrare i propri lettori ideali? Quanti bei libri scompaiono dal mondo senza aver mai incontrato il lettore ideale? E’ possibile una tal estinzione culturale?
Tuttavia, un’opera si consacra nella irrealizzabilità: anche quando trova il suo lettore e viene letta non è mai stata letta, essendo la lettura un atto irripetibile. Parlo di divario tra Opera e discontinuità della sensibilità d’animo e intellettuale dell’individuo. E’ esperienza di tutti, i bei libri si rivelano in seconda o terza lettura, anche a distanza di due mesi, diversi, freschi, non di rado discordi con la precedente lettura. Mai che siano uguali a se stessi. Mai!
Alla fine mi risollevo dalla gradevole sconfitta di aver letto un libro per la quinta volta, “rileggendo”, e riportando qui per voi, alcune righe scritte da Barthes:

“[…] la visione realistica ed immediata, riferendosi ad una realtà alienata, non può essere in nessun modo una “apologia”: in una società alienata, la letteratura è alienata: non c’è quindi nessuna letteratura reale (foss’anche quella di Kafka) di cui si possa fare l’”apologia”: non sarà la letteratura a liberare il mondo. Tuttavia, in questo stato “ridicolo” in cui oggi ci ha posto la storia, ci sono molti modi di fare della letteratura: c’è la possibilità di una scelta, e di conseguenza c’è, se non una morale, almeno una responsabilità dello scrittore. Si può fare della letteratura un valore assertivo, sia nel riempimento, accordandolo ai valori di conservazione della società, sia nella tensione, facendone lo strumento di una lotta di liberazione; si può invece accordare alla letteratura un valore essenzialmente interrogativo; la letteratura allora diventa il segno (e forse il solo segno possibile) di quella opacità storica in cui viviamo soggettivamente; servito mirabilmente da quel sistema significante recettivo che a mio avviso costituisce la letteratura, lo scrittore può allora impegnare profondamente la sua opera nel mondo, nei problemi del mondo ma al tempo stesso sospendere questo impegno proprio dove le dottrine, i partiti, i gruppi e le culture gli suggeriscono una risposta. L’interrogazione della letteratura è allora, in un solo e identico movimento, infima (in rapporto ai bisogni del mondo) e essenziale (poiché essa è costituita da questa interrogazione). Questa interrogazione non è qual è il senso del mondo? Né forse: il mondo ha senso? Ma soltanto: ecco il mondo: vi è senso in esso? La letteratura è allora verità, ma la verità della letteratura è in questa incapacità a rispondere alle domande che il mondo si pone sui suoi mali, e insieme nel suo potere di porre domande reali, domande totali, la cui risposta non sia presupposta, in un modo o in un altro, nella forma stessa della domanda: impresa che forse nessuna filosofia ha realizzato e che allora apparterebbero, davvero, alla letteratura”.

R. Barthes, Saggi critici, Einaudi

f.s.