Giuseppe Ardinghi e l’arte di vedere

Giuseppe Ardinghi e l’arte di vedere


di Gustavo Micheletti

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Vidi per la prima volta i quadri di Giuseppe Ardinghi quando avevo dieci anni e i miei genitori mi portarono a vedere una mostra collettiva – a Lucca, alla galleria “La Piramide” – dove esponeva insieme a sua moglie, Mari Di Vecchio Ardinghi, a Soffici e a Rosai. Era la prima volta che vedevo così tanti quadri tutti insieme e ne rimasi molto colpito. Mi parve che quei pittori sapessero vedere cose che sfuggivano alla mia vista, ma che sembravano “le cose vere” – così pensai – colte di sorpresa quando stavano da sole e nessuno le guardava, quando non dovevano mostrarsi a nessuno.

Quell’impressione rimase in me tanto viva che anni dopo, ogni volta che incontravo per strada Giuseppe Ardinghi e Mari Di Vecchio-Ardinghi, mi sembrava che fossero quasi due maghi, che sapevano cogliere quello che gli altri non riuscivano a scorgere, restituendo a ogni cosa la sua anima segreta. Anche al tavolino di un bar dove si recavano ogni tanto, in piazza XX Settembre, seduti in silenzio sotto una grande magnolia, sembrava che si esercitassero a vedere: un giorno che rimasi per un po’ a guardarli da lontano stavano zitti, uno accanto all’altra, e mi parve fossero presi da quell’esercizio muto.

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