QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.15: I tempi della vita e quelli della Storia si intrecciano nel cerchio infinito del desiderio. A proposito di Alessandro Attucci, “Tempi”

Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)

di Giuseppe Panella

I tempi della vita e quelli della Storia si intrecciano nel cerchio infinito del desiderio. A proposito di Alessandro Attucci, Tempi, Carmignano (PO), Attucci Editrice, 2008

«Mezzo secolo è passato, Bogardo.  Mezzo secolo è passato, Bogardo, / dal vostro sangue lacerato.   / Il tempo grava su voi sospeso, immane. / Parole, ancora molte, dicono di voi; / contro chi nega che fu chi morì / per il bene e chi per il male; / e a trarvi sempre oltre / la grigia linea del tempo / che viene innanzi / come un cieco, vecchio ma instancabile, / dallo sguardo immoto. / Ma ti penso, ora io, con amore. / Di figlio di una donna / che era della tua gente / e della tua triste sorte» (p. 171).

Bogardo è Bogardo Buricchi, uno dei martiri di Figline in terra di Prato saltato in aria insieme a otto vagoni ferroviari carichi di dinamite con gli altri suoi compagni di lotta partigiana in un soleggiato mattino di giugno del 1944. Buricchi rappresenta, quindi, tutti coloro i quali non vollero venire meno alla scelta morale fatta alla caduta del fascismo, quella scelta che li spinse a lottare in maniera aperta e determinata contro i nazisti e i loro collaboratori italiani. In suo nome, allora, è lecito parlare contro chi, nel tempo odierno, vorrebbe dimenticarne la vita e le opere e alzare, alta e forte, la propria voce per rivendicarne e ricordarne, invece, il sacrificio come esempio da sottoscrivere e indicare alle più giovani generazioni. La memoria si rovescia in scrittura e il ricordo in caldo afflato lirico che cerca di separare la morte dalla vita ed esaltare quest’ultima trasformandola in sostanza d’amore e di desiderio di un tempo migliore.

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