
Una serie di fotografie in bianco e nero che il trascorrere degli anni ha lievemente ingiallito ritraggono una giovane donna nuda con un foglio di carta sul quale s’intravedono, scritti a mano, i versi di una poesia d’amore. Nella prima foto, la bella ragazza “di-corpo-vestita” (sic!) è in piedi, i capelli barboncinamente bioccoluti le nascondono il viso come nelle istantanee di una rivista di “cronaca amatoriale”, la mano sinistra è accostata cordialmente al pube mentre la destra mostra all’obiettivo la lettera d’amore con un bacio stampigliato sopra a mo’ di sensualissima firma. Le altre foto, variazioni sul tema, mostrano la donna in pose intime e spregiudicate, con ecografie molto rifinite, sempre col viso coperto dai capelli quasi per un accesso tenero e resipiscente di pudori fuori posto, o mal riposti, cioè tatticamente paradossali (s’intende: “voluti”), come l’ultima immagine, che la ritrae in posizione di decubito prono – mi si passi l’argotismo tomografico ma si tratta, almeno per ora, di essere “scientifici” o, come si dice, “au-dessus de la mêlée” (tricologica o riccioluta) – in tutto lo splendore del suo trionfo callipigico, ancora con la famosa lettera sbaciucchiata bene in vista. Su tutte le foto campeggia e risuona, ossidionale, il tam tam frenetico di un “disperato erotico stomp” (“che neroooo!”) che il selettivo ed essenziale monocromatismo fotografico esalta con l’incisività di un “true color”.
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