Due scrittori svizzeri, Hohl e Walser

Ludwig Hohl, Sentiero notturno , Casagrande editore, 1991, trad. di Giusi Valent.

Robert Walser, La passeggiata, Adelphi, Milano 1976, Trad. di Emilio Castellani

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di Domenico Carosso
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Un uomo ne vede un altro davanti a sé, in una notte d’inverno; la stradina di una piccola cittadina, completamente addormentata, è percorsa da un’aria gelida, e la vicinanza della locanda sembra però proporre una sosta calda e accogliente.

Tutti i racconti di Hohl sono come occupati da un’aria tagliente, percorsi «dall’algida forza della limpida notte invernale» che si abbatte, come nel «Sentiero notturno», sul protagonista come qualcosa di inevitabile, di fatale, un fato tutto umano, dunque tanto più invincibile del divino, invalicabile.

I testi del «Sentiero notturno», scritti tra il 1931 e il 1938, descrivono paesaggi, montagne, solitudini, con una prosa secca e ruvida che come un blocco di granito sfocia in pianure impossibili, meno ospitali delle altitudini, occupate al più da una vuota eternità.

Alcune donne in un paese di montagna, in cima ad un pendio infinitamente irsuto, nero, sconfinato, altissimo, tanto che l’occhio che lo percorre non può che perdersi nelle profonde fenditure che spaccano il paese in tanti abituri sostenuti da un rudere pericolante, sembrano visitate da qualcuno che vuole conoscere il passato, e si trova invece di fronte tre figure (passate, presenti o future?) che si ergono nitide sullo sfondo.

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Gogol, il grottesco crea indimenticabili figure della letteratura

Gogol, il grottesco crea indimenticabili figure della letteratura

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di Domenico Carosso
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Scrive Clemente Rebora, in calce alla sua traduzione del Mantello che «la novella fu per la Russia come una crisalide donde uscì la farfalla dell’arte, una volta concepita dall’originalità nazionale e organicamente addestrata al volo dalla poesia di Puškin. Sulle prime passò quasi inosservata, mentre Gogol´ levava il grande e tragico stormo delle Anime morte».

Il freddo gelido di Pietroburgo si fa sentire, ed ecco che per il mantello da riparare l’umile scrivano Akakij si reca dal sarto Petrovič, che lo prega poi di volerne ordinare uno nuovo, ché il vecchio è ormai inservibile…

«Ah, ecco qua, a te, Petrovič, io… Bisogna sapere che Akakij Akakievič si esprimeva per lo più mediante preposizioni o avverbi, e infine con particelle che non avevano assolutamente nessun significato. Se poi la cosa era molto difficoltosa, egli aveva persino l’abitudine di non terminare le frasi, per cui molto spesso cominciava un discorso con le parole “questo è proprio quello”, e poi non diceva più niente, e lui stesso dimenticava di finire la frase pensando di aver già detto tutto»1.

Ed ecco, per un confronto, la stessa sequenza nella traduzione, letterale ed elegante, barocca e giustamente antiquaria, di Landolfi:

«Ecco, t’ho portato, Petrovič, coso…- Bisogna sapere che Akakij Akakievič parlava sopratutto per avverbi, per preposizioni o comunque particelle senza significato alcuno. Se il discorso poi era imbarazzante, aveva l’abitudine di non finir neppure le frasi, sicché molto spesso, ne cominciava uno colle parole: “Ciò, in verità, senza dubbio…coso”, e poi non veniva fuori altro, ed egli stesso si fermava pensando di aver già tutto detto»2.

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Breve nota su tre elegie di Hölderlin dal “Quaderno in folio di Homburg”

Breve nota su tre elegie di Hölderlin dal “Quaderno in folio di Homburg”

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di Domenico Carosso
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L’Almanacco delle Muse per l’anno 1808 è il progetto poetico che Hölderlin elabora al suo ritorno a Nürtingen da Ratisbona, quando inaugurando una fase di profonda rielaborazione di alcune elegie, come Ritorno in patria, Stoccarda e Pane e vino che induce e anzi costringe lo studioso che se ne occupi a rivedere le proprie considerazioni. Che sono di due tipi. Hellingrath e Beißner, all’opera durante la prima guerra mondiale, di cui peraltro fu poi vittima, il primo, e il secondo attivo negli anni dal 1943 al 1947, trascurano, con buone ragioni i testi monchi, scarni, sempre visti e rivisti dall’autore, in fin dei conti e in buona parte illeggibili, e lo stesso fa il compilatore della StA, (Stuttgarter Ausgabe, edizione di Stoccarda) che considera valide solo le pagine compiute e “leggibili”.

Lo studioso considera in due distinte sezioni gli inni e le elegie che sono di forma compiuta, mentre trascura i cosiddetti “abbozzi innici” che hanno posto in altra sezione, e tutto il resto come frammenti e notizie non altrimenti integrabili nel corpo autentico del testo finale.

Uno dei più recenti commentatori, Michael Knaupp, ha da parte sua deciso di pubblicare e commentare solo le pagine sicuramente hölderliniane, tralasciando quelle ambigue, troppo corrette o i passi scritti e riscritti.

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Clemente Rebora: storia di un’anima

Clemente Rebora: storia di un’anima

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di Domenico Carosso

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I Frammenti lirici (1913) sono tali, cioè frammenti, perché ripetono tutti uno stesso orientamento, mentre il motivo, l’explicit, cioè i versi, svolgono motivi sempre diversi e nuovi. Sono inoltre, i Frammenti, il riflesso pensoso e inquieto, non scolastico né cattedratico, d’una condizione morale diffusa, che nella Lombardia del secolo è il riflesso, pragmatico e teorico, cioè di teoria applicata alle cose di quel mondo, dell’illuminismo che ha influenzato a suo tempo, prima il Parini, facendolo totalmente irreligioso, e pienamente illuminista, poi, con diversa intensità, Manzoni e il Porta.

La sua prima attività poetica tende a coincidere, in Rebora, più che con se stesso o con una individualità disprezzata e odiata, con l’aspirazione ad un clima, sia storico che extrastorico, cioè “soprannaturale”. E il suo poema sarà scritto, ma è in primo luogo vitale, e vissuto, perché è la storia dell’anima dell’uomo. E l’idea o l’ideale non si distingue dal lavoro: perché «rivivi / Nell’atto la fede / Simile a chi luce non vede / Mentr’essa schiara le fatiche assorte… / Nelle faccende è l’idea» (Fr. LXIII).

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Una città di pianura – Cinque storie ferraresi.

Una città di pianura – Cinque storie ferraresi

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di Domenico Carosso

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Storia di Debora è il racconto più lungo della raccolta dal titolo complessivo Una città di pianura, pagine e versi che risalgono al 1940, e dunque sono la prima opera pubblicata da Bassani; in particolare la Storia è poi desinata a diventare, con sviluppo diverso, più ampio e articolato, una delle Cinque storie ferraresi (1956).

L’amore di Deborah e David si presenta come una di quelle «storie di poveri amanti», dove poveri non è una connotazione economica, assume bensì un senso morale equivoco e ambiguo, segnalando per la prima volta l’autore la fiacchezza d’animo, quel tanto di vita giovane e insoddisfatta, che cova in sé un odio forte ma impotente contro lo squallore degli anni, che si deposita nella vicenda personale e nella storia europea.

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Attilio Bertolucci, “Viaggio d’inverno”

Attilio Bertolucci, Viaggio d’inverno

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di Domenico Carosso

Nel Viaggio d’inverno (1971), un poemetto che è già un romanzo semifamigliare1, diviso in sei sezioni, una delle quali, la II, ha per titolo Verso Casarola, e seguito da una composizione dal titolo Verso le sorgenti del Cinghio (1993), la natura dell’Appennino gode, nella considerazione del poeta, di una sua oggettività, per quanto condita, come vedremo, di stratagemmi e sotterfugi tendenti a far passare in seconda linea l’io ansioso del poeta e far emergere un paesaggio per es. «ricco di asini di castagni e di sassi» (Viaggio, cit., pag. 202).

In B. una passione disperata per il tempo («Mio cuore batti all’unisono con il tempo / che avanza verso l’inverno») si volge ad una richiesta di tregua, «un’argentea situazione / d’incertezza e d’abulia» (Viaggio, cit., p.179).

Dal «Lasciate che m’incammini per la strada in salita», l’inizio, «all’uscita dal folto vedendo con meraviglia / mischiarsi fumo e stelle su Casarola raggiunta» (Viaggio, cit., pp. 201-202), l’itinerario del viandante è compiuto, e può soddisfarsi nell’unione di anima e corpo nell’amore giovane («amarsi e amare il frutto dell’amore»).

La natura, in B., non è mai generica, bensì affollata di erba alta e ancora da tagliare, poi di papaveri («la nostra / terra ne traboccava / poi che vi tornai / tra maggio e giugno, e m’inebriai / d’un vino così dolce così fosco») su cui indugiano le farfalle (Viaggio, cit., p. 177).

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Ernst Jünger lettore di Hölderlin. Saggio di Domenico Carosso

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di Domenico Carosso

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Comincio con alcune frasi pronunciate da EJ nel corso dell’incontro con Volpi e Gnoli, a Wilflingen, tra il marzo e l’ottobre del 1995. Si tratta di considerazioni nelle quali sono presenti, in modo non transitorio né casuale, la poesia e il pensiero di Hölderlin:

«Del futuro non ho un’idea troppo felice e positiva, Cito un’immagine di Hölderlin, il quale, in Brot und Wein [Pane e vino] ha scritto che verrà l’evo dei Titani […], molto propizio per la tecnica ma sfavorevole allo spirito e alla cultura, tanto che la poesia dovrà andare in letargo».

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Hölderlin/Rilke/Guardini. Saggio di Domenico Carosso

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di Domenico Carosso

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I. Il divenire

Nel paesaggio dell’esistenza, costruito con le forme della realtà, si elevano le «vette del tempo». «Tempo» qui significa semplicemente esistere, essere esistente di passaggio. Le «vette» significano la presenza degli esseri singoli nella solitudine della loro figura particolare, descritta in Voce del popolo dal verso «camminare ad occhi aperti lungo il suo sentiero». L’esistenza individuale è vista eracliteamente nel suo rapporto col tutto che scorre: da esso si rileva come figura propria, ma, divenuta subito sola, anela anche subito a ritornare nel Tutto. Essere singoli vuol dire trovarsi su una vetta isolata.

Così, il fenomeno del divenire si trova alla base del παντα ρεϊ, senza discontinuità, attraversa la filosofia dall’antichità ad oggi. In questa formula, però, il παντα non va considerato come una somma di unità isolate, quali che siano, perché, così facendo, si trasforma questa “formula” in una sorta di caleidoscopio di sentimenti, rappresentazioni e “ corpi” non organizzati che cambiano nel tempo, perdendo l’occasione di valutare i cambiamenti con il tempo o in rapporto al tempo, che è poi l’essenza del divenire.

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Sulla giustificazione (rechtfertigung)

sulla-giustificazioneSulla giustificazione (rechtfertigung)

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di Domenico Carosso

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1.

Intanto, ecco quel che scrive Wlodek Goldkorn ne Il bambino nella neve :

«Noi, i viventi, dobbiamo essere giudicati per le nostre azioni, non per il passato dei nostri genitori, o per il modo in cui morirono i nostri nonni, le nostre zie, i nostri cugini. Nella capacità di rivolta e nel discernimento sta l’essenza del nostro essere nel mondo».

W. Glodkorn riprende la parola ebraica “Tikkun”, che significa riparazione, per lui il mondo è e rimarrà senza riparazione, per la Arendt e per M. Walser le cose si pongono diversamente, nonostante che per entrambi il male trionfi, nell’epoca passata, presente e futura, come banalità del male.

La giustificazione è però, per essere corretti e precisi, quella che nel mondo tedesco segnò la separazione dalla chiesa cattolica dei cristiani protestanti, che “protestarono”, tra l’altro, per la vendita delle indulgenze. I protestanti lavorarono da allora in poi, a cogliere da san Paolo, dalla sua lettera ai Romani, il problema della giustificazione non a partire dalle opere, ma per la bontà e bellezza del sacrificio di Cristo. Per loro siamo giustificati per il sangue e il nome di Cristo…

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Mihai Eminescu incontra Friedrich Hölderlin. Saggio di Domenico Carosso

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Mihai Eminescu incontra Friedrich Hölderlin

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di Domenico Carosso

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Tenterò, in poche pagine, di far incontrare con Hölderlin, Mihai Eminescu (1850-1889), il poeta romeno nato in Bucovina, di cui cantò «il genio romantico, i monti tra la luce,/ le valli tra i fiori,/ i fiumi rimbalzanti tra picchi dirupati,/ le acque che risplendono qual freschi diamanti/ oltre i campi, lontano». Molti elementi accomunano i due poeti: l’acqua, il fiume, e la montagna, poi la Terra, i morti e il passato (per Hölderlin, l’antica Grecia), che vivifica e alimenta il presente, gli dèi e il riferimento religioso, Dio e la Natura.

Intanto, l’acqua dei monti, del lago o del mare, elemento della vita e difesa contro il nulla, che nel suo divenire tutto travolge, ha un suono guaritore, così come il fiato di Dioniso e le corde di Apollo, cioè il flauto e il violino, aiutano a guarire da ogni male, e permettono l’esplorazione di chi, poeta, scultore o musicista, tende a concentrare, per salvarle, tutte le forme umane in una.

E questo è anche il lavoro delle Muse, figlie di Armonia. E la musica, musa, in greco moĩsa, viene dalla radice indo-germanica ma(n), pensare e conoscere, che diventerà il latino mens. Le muse sono il pensiero che si fa parola, canto e danza, in quel tempo e in quello spazio che, tra luce e oscurità, chiamiamo ritmo.

Così, il numero, espressione visibile del ritmo, governa il moto degli astri e la loro rotazione attorno al Polo celeste; secondo Pindaro con la musa venne al mondo la parola, la parola addormentata che diventa l’inizio del mondo.

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“Sergente nella neve” e “Ritorno sul Don”: nutrirsi in guerra e in pace. Saggio di Domenico Carosso

Sergente nella neve e Ritorno sul DonSergente nella neve e Ritorno sul Don: nutrirsi in guerra e in pace

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di Domenico Carosso

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Il limite intrinseco, invalicato e invalicabile, delle mie paginette, è che non ho mai incontrato Rigoni, né visto o visitato i suoi luoghi, i luoghi della Grande Guerra, e della Seconda. Per tutto ciò rinvio alle osservazioni di Eraldo Affinati, nel «Meridiano» dedicato al classico che è non da ora, ma fin dal primo libro, Il Sergente nella neve Mario Rigoni Stern.

Il Sergente nella neve, uscito la prima volta (anno 1953) nei famosi Gettoni curati da Vittorini, con un giudizio che lo accoglie e insieme lo respinge («MRS non è uno scrittore di vocazione») è il racconto sobrio e testimoniale, la cronaca quasi, della vicenda degli alpini in Russia, nel corso della Seconda guerra mondiale. Diviso in due parti, dai titolo rispettivamente de “Il caposaldo” e “La sacca”, cioè la postazione prima tenuta, poi perduta dai soldati chiusi in un cerchio di neve, gelo e fuoco.

Il libro di MRS, pubblicato con straordinario successo da Einaudi e ancora a disposizione dei lettori, è ormai un classico, per la lingua forte e concreta, priva di qualsiasi retorica, che lo attraversa e lo colma di esempi attivi e solidali, tra amici e anche coi nemici.

Dunque, «le pallottole battevano sui reticolati mandando scintille. Improvvisamente tutto ritornò calmo, proprio come dopo la sagra tutto diventa silenzioso e nelle strade deserte rimangono i pezzi di carta che avvolgevano le caramelle e i fiocchi delle trombette. Solo ogni tanto si sentiva qualche fucilata solitaria e qualche breve raffica di mitra come le ultime risate di un ubriaco vagabondo».

Un paragone, un confronto tra il fuoco micidiale degli spari e le innocue trombette, tra le scintille e i pezzi di carta della festa ormai giunta al termine – un confronto che propone, in modestia e quasi sottovoce, l’inevitabile distanza tra il lettore col libro in mano e i soldati presi nel morso tenace della neve e del gelo.

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“La «petite musique» di Céline”. Saggio di Domenico Carosso. (Parte II)

Louis-Ferdinand CélineLa «petite musique» di Céline (seconda parte)

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di Domenico Carosso

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Céline e Proust

Il riferimento a Proust è inserito nella presentazione che Céline fa dell’attività di Madame Herote, la quale

«Unissant les couples et les désunissant avec une joie au moins égale, à coups des ragots, d’insinuations, de trahisons, imaginait du bonheur et du drame sans désemparer. Son commerce n’en marchait que mieux».

Così Proust,

«Mi-revenant lui-meme, s’est perdu avec une extraordinaire ténacité dans l’infinie, la diluante futilité des rites et démarches qui s’entortillent autour des gens du monde, gens du vide, fantômes du désirs, partouzards indécis attendant leur Watteau toujours, chercheurs sans entrain d’improbables Cythères».1

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“La «petite musique» di Céline”. Saggio di Domenico Carosso. (Parte I)

celineLa «petite musique» di Céline (prima parte)

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di Domenico Carosso

Capire l’argot per leggere Céline non basta, tanto più che l’autore è consapevole del rapido invecchiamento di lingue e dialetti, che guarda con fastidio, come una possibile fonte di blocco mentale, come sanno i suoi lettori francesi. E d’altronde l’uso che Céline fa delle 37 varianti argotiche contate da Henri Godard, il suo maggiore studioso, non è mimetico, ma occasionalmente omeopatico, come dice bene il traduttore italiano Ernesto Ferrero, il migliore, con Gugliemi e Celati.

Il problema è andare verso l’asprezza tagliente di Céline, la densità fauve che caratterizza la sua pagina, tenendo conto che il suo intraducibile jazz è quello di chi è cresciuto sotto le vetrate del passage Choiseul, nel II Arrondissement, tra l’odore di orina, i merletti inamidati della madre Marguerite, le canzoni di Aristide Bruant, dure ed epiche, e di Fréhel, forti e commoventi. Nella voce stessa di Céline, nel suo modo di parlare e nella sua scrittura, c’è sempre il suono di una vecchia parlata da faubourg, un impasto di gerghi vari che per sonorità e cadenze non ha niente a che fare col francese scolastico.

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“Glosse per Sereni, tra rêverie e racconto”. Saggio di Domenico Carosso

Poesie e prose” di Vittorio SereniGlosse per Sereni, tra rêverie e racconto

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di Domenico Carosso

Nelle primissime pagine della sua prefazione alle Poesie di Sereni, Dante Isella precisa di essersi trovato, accingendosi al proprio lavoro, di fronte a «manoscritti labilissimi, con un carico di potenziali sviluppi che andavano in tutte le direzioni, con una visione fluida del mondo, che nella sua incessante deformazione, in senso etimologico, ha più lo statuto del sogno che della realtà»1.

Tale statuto è poi rinforzato, se così posso dire, dalla frequente, ossessiva presenza, nei versi per esempio degli Strumenti umani, ma non solo qui, dei luoghi retorici, nel senso alto, dell’iterazione o ripetizione e della specularità. Quasi che la poesia costituisse lo specchio mobile, in perenne dislocazione, di una realtà a sua volta imprendibile, multipla, in ogni caso (in ogni verso) non dicibile univocamente.

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“Piero Chiara: lingua e stile”. Saggio di Domenico Carroso

Piero_Chiara_autografoPiero Chiara: lingua e stile

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di Domenico Carosso

«A raccontarsi mi tira una novella di cose cattoliche e di sciagure e d’amore in parte mescolata»: questo l’exergo, dal Decameron II, 2, che apre e giustifica, col trinomio cattolicesimo-amore-sciagura, il romanzo o racconto lungo di Piero Chiara La spartizione.

Il vero tema su cui nasce la novella è la popolarità, nel Medioevo, di san Giuliano, della sua leggenda, che si legge anche nella Legenda aurea di Jacopo da Varazze, 30, di cui si trovano già tracce nello Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais.

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L’INTRODUZIONE AL “RICORDO DELLA BASCA” DI ANTONIO DELFINI. Saggio di Domenico Carosso

 L’Introduzione al Ricordo della Basca di Antonio Delfini

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di Domenico Carosso

Il mondo e la vita nascono, in Delfini, con la parola e nella parola. La parola, poi, si rivela nel discorso, nel desiderio amoroso, sicché il linguaggio finisce per presentarsi come un intreccio inestricabile di amore e conoscenza. Un intreccio che nel tempo si afferma come ricordo, e sempre propone una ricerca del tempo perduto, consegnata alla parola scritta, alla scrittura. Così il cerchio si chiude:

«Scrivevo nei miei carnets che avevo incontrato una donna, ch’era la più bella donna del mondo, e non era lei, perché se fosse stata lei non avrei potuto scriverlo. Perché non si scrive mai di ciò che esiste, ma soltanto di ciò che non esiste […] E credo perciò che in tutte le mie note di quegli anni non si trovi mai il nome di Margherita Matesillani, e mai nemmeno una parola che accenni ad un incontro con lei, ad una visione di lei [..]. Se ho scritto di lei è stato indirettamente e senza che io me ne accorgessi. Il che, per me, sarebbe una prova dell’esistenza e della realtà di margherita Matesillani, e un poco anche della mia. […] Il ricordo che ho dei ricordi che sopraggiunsero allora intorno al mio cuore smarrito in una comoda amnesia, servirono a farlo ritrovare nell’ansia, nella speranza e nell’infatuazione sentimentale.»[1]

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