QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.81: Poesia nella lingua dell’Altro. Mihaela Cernitu, “Parole senza posa / Vorbe fără astâmpăr”

Poesia nella lingua dell’Altro. Mihaela Cernitu, Parole senza posa / Vorbe fără astâmpăr, Firenze, Edizioni Novecento Poesia, 2010

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di Giuseppe Panella*

 

Mihaela Cernitu scrive in italiano ma è nata a Craiova, in Romania. La sua lingua madre in cui accuratamente poi traduce i suoi versi italiani è il rumeno, una lingua simile e dissimile in una volta all’italiano che usa per la sua scrittura. Il suo sguardo poetico, dunque, è sempre quello dell’osservatore, di chi guarda dalla finestra il mondo in cui si è ritrovata a vivere e che spesso non riesce a comprendere totalmente. L’oggetto della sua poesia è un’Italia in cui è venuta a vivere e di cui ha prescelto e prediletto cultura e vita quotidiana; la lingua che usa per farlo è un tentativo di conciliare esigenze culturali e consumo usuale delle parole necessarie per farsi comprendere e per comunicare. La poetessa vive allora tra due mondi: quello della scrittura poetica che frequenta abitualmente ma che non esaurisce la sfera delle sue osservazioni umane e culturali e quello della vita quotidiana da cui trae gli spunti per la sua produzione lirica. Scrive, infatti, Franco Manescalchi nella sua precisa Presentazione del volume di Mihaela Cernitu:

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QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.48: Lo specchio e la speranza. Mihaela Cernitu – Aurora Speranza Cernitu – Giovanna Ugolini – Liliana Ugolini, “La pasta con l’anima”

Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)

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di Giuseppe Panella


Lo specchio e la speranza. Mihaela Cernitu – Aurora Speranza Cernitu – Giovanna Ugolini – Liliana Ugolini, La pasta con l’anima, Firenze, Novecento Poesia, 2010


Scrive Stefano Lanuzza in una sua simpatica nota (La pasta e l’amore…con la Mezzaluna, lo Specchio, l’Unicorno e l’Ombra) che precede i testi e le opere pittoriche raccolte in questo quaderno di Novecento Poesia:

«Vermicelli maccheroni garganelli, fusilli ravioli fettuccine, cappelletti bucatini paccheri, gnocchi agnolotti lasagne, trenette tagliolini linguine, pappardelle penne fettuccine…, tutta pasta: lunga, corta, liscia o rigata; e non la cucini che per amore… Allora, quanto amore e quanti fili di pasta nelle tempere su tela di Giovanna Ugolini… Fili, cui pericolosamente s’appendono dei cuochi-clown, tesi come funi ascendenti verso una mezzaluna orientale e un cielo affollato di voli, nuvole, un pallone aerostatico e un aquilone. Ecco poi, sorta di romantica circense, la fanciulla in rosso che, seduta a un tavolo con dei piatti pieni di spaghetti dinanzi a una finestra aperta sulla primavera, sembra cullare la sua luna-bambina. […] O perché non t’attacchi anche tu a quegli altri fili di pasta? Sono liane, ondeggianti altalene, cedevoli corde, forse righe d’un trepidante calepino di versi… sono proprio le poesie di Liliana Ugolini. Lei, dolce buona gentile, le sperimenta come approntando, con tutto l’amore, “una ciotola della minestra”. Tuttavia l’amore è anche narcisistica autocontemplazione in uno specchio a volte luminoso e terso, altre volte opaco e adunco dove – scrive Liliana – balla danze selvagge una beffarda, ingovernabile marionetta fatta di luce e ombra; e sostenuta da “fili appesi alla luna”» (p. 5).

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