Dante e le enciclopedie medievali. Atti del Convegno internazionale di Studi (Ravenna, 9 novembre 2019), a cura di Giuseppe Ledda

Dante e le enciclopedie medievali. Atti del Convegno internazionale di Studi (Ravenna, 9 novembre 2019), a cura di Giuseppe Ledda, Ravenna, Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali, 2023

Il nono convegno internazionale organizzato dalla Sezione Studi e ricerche “Anna Maria Chiavacci Leonardi” del Centro Dantesco di Ravenna indaga e discute i rapporti fra l’opera di Dante e l’enciclopedismo medievale, un aspetto rilevante e pervasivo della cultura del suo tempo, che si rivela vitale anche per il poeta fiorentino. Nelle relazioni qui raccolte tali rapporti sono indagati da molteplici punti di vista, coinvolgendo non solo la Commedia ma anche le altre opere di Dante. Il file contiene il volume degli atti nella sua integralità, con i seguenti contributi: FRANZISKA MEIER, La svolta antropologica nell’enciclopedismo medievale: il caso di Restoro d’Arezzo, «La composizione del mondo» – SIMON GILSON, Qualche considerazione su Dante, l’enciclopedismo medievale e Servasanto da Faenza – FRANCESCO SANTI, Dante agiografo e l’enciclopedismo del XIII secolo – RICCARDO MACCHIORO, Sul contributo della lessicografia medievale al latino di Dante. Appunti di metodo e prospettive di ricerca – HEATHER WEBB, Dante e l’arte enciclopedica – NATASCIA TONELLI, L’«infertà rea» e l’autoritratto intellettuale di Dante – Anna Chisena, Le fonti enciclopiche dell’astronomia dantesca – GIUSEPPE LEDDA, Enciclopedie medievali e bestiario dantesco

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Jonathan Swift, “Viaggi di Gulliver”

di Francesco Sasso

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La vita di Jonathan Swift (1667-1745) si svolse nel periodo compreso fra la Restaurazione e l’età chiamata augustea. Egli fu il più grande scrittore del secolo, raggiunto solo dai maggiori prosatori dell’Ottocento. Cosciente del proprio ingegno ed ambizioso, egli parve destinato ad una carriera brillante e felice: segretario di sir William Temple, il consigliere di Guglielmo III, prese gli ordini religiosi, guidò gli studi di Esther Johnson che doveva diventare la sua “stella”, dimostrò le sue qualità di polemista. Sul termine della sua vita, deluso dalla vita e accusato di empietà per i tremendi sarcasmi contro il Papa, Lutero e Calvino, trascorse gli ultimi anni della sua vita in preda alla follia.

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RECENSIONI COME CITAZIONI (I.1-3): Ernst Bloch, Gianfranco Contini, Silvio Guarnieri

RECENSIONI COME CITAZIONI (I.1-3)

Ritorni nutrienti (prima serie).

Ernst Bloch (1885-1977), Gianfranco Contini (1912-1990), Silvio Guarnieri (1910-1992).


di Luciano Curreri (ULIEGE).

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Contro la solitudine e sterilità delle creature

Considerazioni (relativamente) sparse e disseminate a partire da Simona Micali, Creature. La costruzione dell’immaginario postumano tra mutanti, alieni, esseri artificiali, Milano, Shake («cyberpunkline»), 2022, 256 pp.


QUASI UN TENTATIVO DI RECENSIONE.

di Luciano Curreri (ULiège, Traverses, Cipa)

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A chi milita nella terza schiera.

Di questo coraggioso, denso e intelligente volume esisteva già una versione inglese, et pour cause. In certi paesi anglofoni, o di cultura anglofona, muovendosi tra più dispiegate e meno separate distese di arte, letteratura e cinema (e non solo) e ispirandosi all’antropologia, alla psicologia e alla psicanalisi, alla sociologia e alla sociopolitica e alle scienze e alle rivoluzioni scientifiche tutte (almeno da Copernico a quel Darwin che è un vero filo rosso del saggio, con una decina di citazioni significative dall’inizio alla fine dello stesso), i critici della cultura e gli storici delle idee e dell’immaginario hanno sdoganato e legittimato da tempo questa tipologia di studi.

Qui da noi, in Italia, tali studi vanno ancora, in qualche modo, ‘giustificati’ e soprattutto quando entrano in Accademia, cioè all’Università; e in genere, come è noto, sono stati e sono rilegati, in fanzine anche e ormai storiche come «Yorick Fantasy Magazine», a cura di Massimo Tassi, che quest’anno festeggia 35 anni di vita – 1987-2022 – o in riviste di «letteratura popolare» come «Ilcorsaronero», che in circa 18 anni ha fatto uscire 33 numeri. E sono solo due esempi cui sono affezionato. Restano poi le iniziative di singoli, come quelle promosse e talora insieme curate, tra fantastico e fantascienza (e per la protofantascienza passando), da, soltanto per fare un altro paio di esempi, Fabrizio Foni e Claudio Gallo, mal recensite da chi in Accademia si è posto da sé a una specie di salvaguardia del Canone, con la C maiuscola; quel Canone che in tal caso in particolare ma anche in tanti altri è una sorta di Indice ‘laico’, encore que.

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Narrativa ottocentesca di potere e matrimonio

Su Giuseppe Traina, Sguardi del potere e sguardi sul potere nell’Ottocento italiano. Studi su Bini, Collodi, De Amicis, Valera, Cena, Soveria Mannelli, Rubbettino («Filologia e critica letteraria»), 2021, 136 pp., e Fabio Danelon, Il nodo, il nido. Il romanzo matrimoniale dopo l’Unità d’Italia, Venezia, Marsilio («Saggi»), 2022, 202 pp.


DUE RECENSIONI IN UNA, ET POUR CAUSE.

di Luciano Curreri (ULiège, Traverses, Cipa)

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Due bei libri di critica letteraria, uno sul potere, l’altro sul matrimonio. Entrambi dedicati all’Ottocento italiano. Il primo raccoglie studi su Bini, Collodi, De Amicis, Valera, Cena, il secondo su Imbriani e Fogazzaro. Entrambi fanno tappa su Foucault e l’Histoire de la sexualité, vol. 1, La volonté de savoir (1976). Giuseppe Traina in maniera leggermente più distesa e poi pure ‘debitrice’ del vicino Surveiller et punir. Naissance de la prison (1975), Fabio Danelon solo un paio di volte ma in modo davvero significativo. Due risultati utili: (1) un Ottocento che ancora parla (e non poco) tra engagement e divertissement, in Traina con input da Sebastiano Timpanaro, Carlo Alberto Madrignani e Folco Portinari (richiamato anche da Danelon e sempre per i suoi ancora utili e simpatici affondi raccolti in Le parabole del reale, del 1976), in Danelon soprattutto a partire da Baldacci – ma c’è anche Giorgio Bárberi Squarotti, presente pure in Traina insieme ad altri nomi della nostrana e migliore critica secondo-novecentesca, che giunge fino ai giorni nostri in e anche grazie a questi due nuovi libri (Alberto Asor Rosa, Giancarlo Mazzacurati, Franco Moretti, Rinaldo Rinaldi, Vittorio Spinazzola…); (2) quel Foucault – che più o meno di recente è stato spesso criticato – viene richiamato e usato in entrambi i contributi.

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Alex Bardascino, Luciano Curreri, “Non di sola destra”. Nota introduttiva di Luciano Curreri

[E’ appena uscito per Rubbettino editore, Non di sola destra di Alex Bardascino e Luciano Curreri. Per gentile concessione dell’editore, presentiamo la nota introduttiva di Luciano Curreri (f.s.)]

Alex Bardascino, Luciano Curreri, Non di sola destra, Rubbettino Editore, 2022, pp.114, €12,00


Nota introduttiva di Luciano Curreri

La Repubblica e la Repubblica delle lettere del secondo dopoguerra hanno come minimo comun denominatore lantifascismo. Limpegno civile e letterario di questultima e vincente istanza plurale (che tiene insieme tutti i «n al fascismo, dai liberali ai comunisti, dai prigionieri ai partigiani) ha dato vita a una cultura che ha saputo esprimere momenti e pagine indimenticabili, che anche gli autori di questo librino hanno letto e in parte studiato, a volte insieme e pure di recente, con lidea di mettere a confronto due generazioni diverse di lettori, una risalente al 1966 (Luciano Curreri) e laltra al 1988 (Alex Bardascino)1.

Nella seconda metà del Novecento, non scompaiono tuttavia le narrazioni di destra. E nel nostro libro, se ne sono selezionate sei, di tali narrazioni, ottenendo una (non sporca) mezza dozzina di autori e testi che in circa 35 anni di vita repubblicana, tra il 1953 e il 1986, rivendicano, secondo modalità differenti, una certa adesione al fascismo e quanto meno un certo ritorno inquieto al Ventennio e alla Repubblica Sociale Italiana: ritorno generazionale e plurigenerazionale insieme (ma non senza fratture, fra, per esempio, i giovanissimi e convinti repubblichini di Mazzantini e quanto appare loro, nel secondo dopoguerra, come «“la teppaglia nera»2).

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Nota introduttiva di Luciano Curreri e Pierluigi Pellini a “La critica viva. Lettura collettiva di una generazione 1920-1940”

A cura di Luciano Curreri e Pierluigi Pellini, La critica viva. Lettura collettiva di una generazione 1920-1940, Quodlibet, 2022, pp. 368, € 24,00


Nota introduttiva di Luciano Curreri e Pierluigi Pellini

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Siamo negli anni Venti del nuovo secolo e millennio. E cent’anni fa cominciava a nascere, nel nostro Paese, una curiosa, distesa, eclettica generazione di personalità critiche che – tra lingua e letteratura, filologia e strutturalismo, teoria e comparatistica, psicanalisi e sociologia, narratologia e semiologia, estetica della ricezione e storia della cultura… – avrebbe tenuto a battesimo una buona parte dei nostri studi letterari, nelle università e non solo, fino a oggi.

In circa ventuno anni – dal 24 marzo del 1920, in cui viene alla luce Cesare Cases, al 6 dicembre del 1940, data di nascita di Romano Luperini – abbiamo provato a selezionare cinquantadue temperamenti critici, con Adelia Noferi, Lea Ritter Santini, Delia Frigessi, Lidia De Federicis, Maria Luisa Doglio, Grazia Cherchi, Rosanna Bettarini e Teresa de Lauretis come sole ma eloquenti rappresentanti di un plurale pensiero femminile, capace già – pur in seno a una minore rappresentanza figlia dell’epoca – di passare da una critica più accademica e teorica a una più militante e didattica, capace di dirsi all’università come nell’editoria, tra commento ai testi, impegno civile e studi di genere, tra Italia, Europa e America.

Come quello di genere, anche l’equilibrio (o il mancato equilibro) fra ambiti specialistici risente di una dinamica storica di cui sarebbe stato scorretto non tenere conto. Fino a pochi decenni fa (piaccia o no), nella cultura letteraria italiana il ruolo privilegiato degli studi italianistici era indiscutibile. Nondimeno, abbiamo accolto nel nostro canone provvisorio alcuni studiosi importanti di letterature straniere; ma lo abbiamo fatto con un metro più avaro, e più attento ai contributi teorico-comparatistici, e alle ricadute del loro lavoro anche al di fuori dell’ambito linguistico d’elezione.

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Scrittori inglesi e americani nel cuore della “patria della bellezza”

Paolo Fantozzi, Anglo-Toscana. Scrittori inglesi e americani nel paesaggio toscano, Apice libri, 2022, pp. 256, 15 euro


di Gustavo Micheletti

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Scrittori inglesi e americani nel cuore della “patria della bellezza”.

Quando Percy Bysshe Shelley salpò dal porto di Livorno a bordo della sua imbarcazione, il Don Juan, per recarsi a Lerici era l’otto Luglio del 1822. Durante quell’estate particolarmente calda ebbe così inizio il suo ultimo viaggio e la storia del suo naufragio. Il suo corpo, già in stato di putrefazione, fu ritrovato sulla spiaggia di Viareggio e venne riconosciuto solo perché aveva ancora in tasca un volume delle poesie di John Keats. George Gordon Byron e altri amici assistettero sul posto alla cremazione del corpo di Shelley pensando alla grandezza e alla desolazione che quei luoghi gli avevano sempre ispirato e videro il suo cadavere aprirsi davanti ai loro occhi fino a scoprire il cuore.

A Viareggio, non lontano dal molo, una grande piazza alberata è ancora intitolata al poeta, che pare fosse solito passare ore a osservare le lucciole. Così almeno riporta Leigh Hunt in una lettera, e una notte a questo caro amico del poeta venne da chiedersi se qualcuna delle particelle che aveva lasciato sulla terra non alimentasse la loro leggiadra e amorevole luce.

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“Scrittori zingari”. Saggio di Stefano Lanuzza (da “Senza meta. Biblioteca degli erranti”)

[E’ uscito da poco per Arsenio Edizioni, Senza meta. Biblioteca degli erranti di Stefano Lanuzza. Il volume comprende una serie di saggi letterari “come un unico libro cresciuto su sé stesso e fatto di scritture itineranti”. Proponiamo il saggio Scrittori zingari, con in coda la Premessa essenziale e il Sommario (f.s.)]

Stefano Lanuzza, Senza meta. Biblioteca degli erranti, Arsenio Edizioni, 2022, pp.322, € 25,00


Clip del libro su RetroguardiaTV

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di Stefano Lanuzza

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Lungamente privi d’una tradizione culturale scritta, solo dal Novecento – riferisce Santino Spinelli – molti autori delle comunità zingare, costretti a prescindere da parlate rom risonanti di interferenze indiane persiane armene greche o panslave, presentano le loro opere preferibilmente nelle lingue dei Paesi in cui vivono.

Nel 1925 nasce in Unione Sovietica un gruppo di letterati rom riuniti intorno alla rivista “Nevo Drom” (“Nuovo cammino”). Nel 1931, s’inaugura la fondazione a Mosca di un “Teatro Romen” che ospita opere di Alexandre Viećeslavović Germano (1893-1956). Vi s’accodano, con scritti dedicati al folklore orale e musicale gitano, con poesie traduzioni copioni teatrali, gli scrittori Ivan Rom-Lebedev, Ivan Khrustaljov, Ivan Pantchenko; e Ivan Romano, autore di Addio mio campo (1968), la romní kalderaś Olga Demeter-Tcharskaya (Destino di una romní, 1997), il rom calderaś Oleg Petrovic (I Baroni Saporroni, 2007), il saggista e poeta Georgij Tsvetkov autore, tra l’altro, del volume Rom, origini e cultura (2009) e dello studio linguistico-grammaticale Comunicazione interculturale russo-romaní (2009).

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Stefano Lanuzza, “Senza meta. Biblioteca degli erranti”

Stefano Lanuzza, Senza meta. Biblioteca degli erranti, Arsenio Edizioni, 2022, pp.322, € 25,00


di Ernestina Pellegrini (Università di Firenze), “Antologia Vieusseux”

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Clip del libro su RetroguardiaTV

La bibliografia delle opere di Stefano Lanuzza (critico militante, saggista, poeta, artista figurativo) è imponente, e si farebbe fatica a farne un regesto completo, a cominciare da Alberto Savinio (1979) a Senza Storia. ‘900 e contemporanei della letteratura italiana (2021) e fino al recente Senza meta. Biblioteca degli erranti (Arsenio Edizioni, 2022, pp.322, € 25,00) – solo per stabilire dei limiti, ricordando il primo testo con cui l’ho conosciuto e l’ultimo che ho letto integralmente; anche se mi sono arrivati sul tavolo, negli ultimi mesi, altri suoi libri molto interessanti: Una tragica giovinezza. Il Rosso e il Nero di Stendhal (2022), che è una rilettura attenta ed empatica del capolavoro del romanziere francese di cui Sciascia disse “Non è mai stato anziano, né mai lo saranno i suoi lettori”.

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Il dono è un legame di anime

Il dono è un legame di anime


di Francesco Sasso

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L’antropologia culturale è una disciplina eterogenea, il cui campo di studio – l’uomo in quanto elaboratore di cultura – è quanto mai ambiguo e al tempo stesso talmente vasto da rendere necessario l’utilizzo degli strumenti di più discipline per studiare i fenomeni ad esso correlati.

L’antropologia culturale è un modo di guardare all’uomo e alle sue opere nelle loro articolazioni etniche e nelle loro espressioni popolari. Il concetto di cultura è fondamentale per la definizione di questa disciplina anche se di difficile delimitazione. In antropologia, con cultura non si intendono soltanto i prodotti del lavoro intellettuale (arte, letteratura o scienza), ma il complesso di elementi non biologici attraverso i quali l’uomo si adatta all’ambiente e organizza la sua vita sociale. Di fatto, è difficile definire la cultura attraverso un elenco. Naturalmente, la cultura da un lato dipende dalle basi biologiche della vita umana, dall’altro si intreccia con esse e le modifica. In fondo la cultura è una nostra seconda natura. Quindi l’antropologia culturale si muove in simbiosi con le discipline della storia, della filosofia e degli studi umani e sociali. Tuttavia, l’ambito biologico e culturale restano distanti.

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Stefano Lanuzza, “Una tragica giovinezza. Il Rosso e il Nero di Stendhal”

Stefano Lanuzza, Una tragica giovinezza. Il Rosso e il Nero di Stendhal, Jouvence, 2022, pp.141, €12,00


di Francesco Sasso

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Una tragica giovinezza. Il Rosso e il Nero di Stendhal di Stefano Lanuzza è un saggio a forma di romanzo sulla vita di Henri Beyle/Stendhal. Un’unica esistenza, due anime contrapposte.

Lanuzza ci racconta con finezza e puntualità come Henri Beyle, noto sotto lo pseudonimo di Stendhal (1783-1842), fu dotato di uno spirito di osservazione acutissimo: egli seppe scrutare gli uomini ed il suo realismo è di carattere psicologico. Lo scopo di Stendhal fu di svelare e notare i segreti motivi delle nostre azioni, afferrandone le minime sfumature con sicurezza. Stessa operazione compiuta da Lanuzza in questo saggio su Stendhal/Henri Beyle.

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Alberto Toni, “Tempo d’opera”. Introduzione di Roberto Deidier

[Pubblichiamo l’introduzione di Roberto Deidier al volume di poesia Tempo d’opera, da poco uscito per Il ramo e la foglia. Ringraziamo l’editore. Tempo d’opera è il libro postumo di Alberto Toni, scrittore e drammaturgo, esponente della scuola romana, morto nel 2019].

Alberto Toni, Tempo d’opera, a cura di Roberto Deidier, Il ramo e la foglia, p. 108, 13 euro


di Roberto Deidier

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In un pomeriggio del 1988 (l’estate si era conclusa da poco, ma il caldo non cessava) entrai nella vecchia Feltrinelli di via del Babuino, libreria piuttosto accogliente verso la poesia, anche quella dei piccoli editori. All’uscita avevo con me due volumi, uno considerato già un classico, l’altro dal titolo che segnava l’avvio di un percorso certo. Si trattava di Ora serrata retinae, con l’inconfondibile copertina gialla della collana curata da Valerio Riva, e di Partenza, nell’elegante confezione editoriale di Empirìa, che richiamava un sano artigianato tipografico. Sulla copertina grigia, che mi fece pensare alle Occasioni di Montale nella prima edizione degli anni Trenta, c’era una finestra socchiusa, che dava un’impressione di penombra. La poesia romana degli anni Ottanta mi veniva così incontro attraverso i suoi autori: li rivedo in una fotografia, Valerio Magrelli con gli inconfondibili baffi dietro cui camuffò a lungo i suoi vent’anni, e accanto a lui Alberto Toni, di tre anni più grande ma che sembra il più giovane tra i due, in una tenuta ancora adolescenziale e lo sguardo smarrito dietro i grandi occhiali, mentre il sorriso accennato di Valerio ostenta una sicurezza sorniona malcelata dalla timidezza.

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Nero Carlo Levi

Carlo Levi. Autoritratto, 1945
(Roma, Fondazione Carlo Levi)

Nero Carlo Levi


di Paola Bonazzi 

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Quando troverò un colore più scuro del nero, lo indosserò. Ma fino a quel momento, mi vestirò di nero” era solita proferire Coco Chanel. Da più di un secolo il nero è entrato nella moda come una tinta elegante, minimalista, persino sensuale. Ma il nero è stato, e lo è ancora, anche simbolo delle tenebre, della notte senza lume, il colore della miseria e morte. Nella sua assenza di colore, l’archetipo del nero allude all’assenza, e perciò al lutto, che di tutte le assenze è la più dolorosa. Il nero evoca anche l’universo prima che fosse nato, il caos primordiale avvolto in un manto di oscurità, prima della materia, prima della luce: il nero primordiale al tempo zero, ricco di potenzialità generatrici, come fecondo è il ventre oscuro della terra fertile e madre dove il seme, al buio, germoglia.

Il nero come simbolo di un tempo arcaico, il suo pulsare negli antichi riti di magia e di morte, è il nero che tanto frequentemente ritroviamo nell’opera di Carlo Levi (Torino, 1902 – Roma, 1975): un nero che sottolinea quasi ossessivamente il carattere dei luoghi, aspri e primitivi, e di chi, uomini e animali, in quei luoghi vi conduce l’esistenza, suo malgrado. È il nero degli abiti delle donne, dei loro occhi pungenti, un nero doloroso, asciutto, profondo: “occhi neri, che i pianti di infinite vigilie fatto han vuoti, guardate nel profondo dell’anima”, scriveva nel 1935 durante il suo confino in Lucania, terra al principio del tempo, dimenticata dagli uomini e dove Dio non è mai arrivato (Cristo si è fermato a Eboli, 1945).

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Essere un altro, nei sogni di altri

Essere un altro, nei sogni di altri


di Gustavo Micheletti

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Nell’introduzione a Lo specchio che fugge, il volume di racconti di Giovanni Papini pubblicato in traduzione italiana ne La biblioteca di Babele, la storica collana di Franco Maria Ricci curata dallo stesso Borges, quest’ultimo spiega le ragioni della sua ammirazione per uno degli autori che, insieme a Dante e a Croce, lo indusse a imparare l’italiano e che oggi è spesso relegato, anche in molti manuali liceali, entro desolanti spazi marginali.

A somiglianza di Poe, che senza dubbio fu uno dei suoi maestri, Giovanni Papini non vuole che i suoi racconti fantastici appaiano reali. Il lettore sente dall’inizio l’irrealtà dell’ambito di ciascuno. Ho citato Poe; – continua Borges – potremmo aggiungere che questa tradizione è quella dei romantici tedeschi e delle Mille e una Notte. Questa convinzione di irrealtà corrisponde a ciò che sappiamo del suo destino, sempre insidiato dall’agguato dell’incubo, che inesorabilmente lo accerchiò negli ultimi anni”.

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Daniela Baroncini, “Pascoli e la vertigine del nulla”

Daniela Baroncini, Pascoli e la vertigine del nulla, Bologna, Pàtron, 2022, pp.168, € 20,00

di Manuele Marinoni (Università degli studi di Firenze)

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In un foglio manoscritto, conservato nell’Archivio di Castelvecchio, nel Cartone LXXIII, busta 1, a suo tempo descritto e catalogato da Giuseppe Nava nell’edizione critica di Myricae (1974) leggiamo due versi di Giovanni Pascoli assai significativi: «E tutto è morto e piango io solo avanti il nulla» e «È vano ch’io gridi, vano/ tutto. E questo è un deserto, di viventi vuoto». Facile rimandare a Leopardi; meno scontato il nome di Beckett a suo tempo pronunciato da Giuseppe Leonelli. In ogni caso, in questi due versi sono presenti due parole-tema che non è solito associare alla poesia pascoliana: «vano/ tutto»; «nulla»; «deserto» e «vuoto». Se pensiamo invece al Novecento sono infiniti i nomi da appellare per tale preciso bagaglio semantico: da Ungaretti a Caproni, da Montale a Sereni, poi giù sino a Cattafi, Viviani, e tanti altri. Si tratta, in sostanza, del macrotema del “nulla”, che non è sempre stato propriamente al centro dell’attenzione negli studi dedicati al Pascoli.

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Dicibile e indicibile tra fisico e metafisico. Le “Elegie duinesi” di Rilke e la figura dell’Angelo. Saggio di Manuele Marinoni

Dicibile e indicibile tra fisico e metafisico. Le Elegie duinesi di Rilke e la figura dell’Angelo


di Manuele Marinoni (Università degli studi di Firenze)

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C’è una netta sinergia tra ciò che è il riflettente (lo «specchiante», per dirla con Baltrušaitis)1 e la sostanza dell’oltre che di per sé non può mostrarsi nelle forme. Si tende a dire, secondo un certo codice ermeneutico, che se è fruibile una parola che dia e dica l’indicibile2, senza doversi limitare all’entelechia della stessa, essa deve compararsi a quella gamma in-determinata dell’ontologico nella quale rientrano tutte le distopie della materia (che, in ultima istanza, altro non sono che un non-essere immanente all’essere). Il principio di fondo è quello della presentificazione3: per sub-determinare un’esperienza, nella sostanza, in-esperibile occorrono forze ed alleanze metaforiche e metonimiche tutte ricavate dal tempo e da figure della temporalità.

Uno dei Sonetti a Orfeo di Rainer Maria Rilke, per la precisione il 27 della II serie, Gieb es wirklich die Zeit, die zerstörende?, soccorre al nostro dialogo e permette, nel cristallizzante senso di tensione fra micro e macrotesto, e così tra figure e controfigure, che contrassegna quest’opera rilkiana, alcune puntualizzazioni sul principio che scinde e disarticola ciò che sta nell’immanenza, nel percepibile, e ciò che si sottrae ad essa, ubicandosi nell’eterno: ossia il problema del tempo. Un tempo come senso delle cose, come margine della fragilità dell’esserci che diventa interrogativo di sostanza («Sind wir wirklich so ängstlich Zerbrechiche,/ wie das Achicksal uns wahr machen will?», 5-6)4.

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Scritti di utopia? “In viaggio per l’Europa” (1981-1988) di Mario Rigoni Stern. Saggio di Luciano Curreri

Pubblichiamo in anteprima, su «Retroguardia 3.0», un intervento di Luciano Curreri al Convegno di studi “Il ritorno” di Mario Rigoni Stern (con l’approvazione dell’organizzatrice, Elena Ledda, che ringraziamo).

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di Luciano Curreri* (ULIEGE, TRAVERSES, CIPA)

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Scritti di utopia? “In viaggio per l’Europa” (1981-1988) di Mario Rigoni Stern.

A Elena e Angelo ritrovati,

e a Giuseppe, trovato tout court.

I.

L’idea sottesa a questo intervento è quella di partire da una entrée en matière poco frequentata nella scrittura di Mario Rigoni Stern (1921-2008), e cioè dalle prime ottanta pagine di Il magico “kolobok”e altri scritti (uscito nell’aprile 1989), intitolate In viaggio per l’Europa, e contenenti articoli apparsi su “La Stampa” fra il 26 giugno 1981 e il 29 dicembre 1988: immagino questo ‘viaggio’ come una specie di ‘testo minore’ che ci aiuti a scoprire, scegliere e fors’anche a spiegare un ‘altro’ Rigoni Stern. E quel minimo sindacale di ambizione critica datata, vintage, che alcuni potranno scorgervi, non vuole evadere polemicamente il mondo dell’Altipiano né quello, più vasto, della guerra, ma, ben al contrario, servirsene (senza assolutizzarli, e in altro modo richiamarli).

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Giallo Dostoevskij

Giallo Dostoevskij


di Paola Bonazzi 

C’è giallo e giallo. C’è un giallo festoso della natura, come quello dei cespugli di ginestre che si staglia contro l’azzurro del cielo di maggio, delle siepi di forsizia o dei fiorellini di tarassaco sui prati primaverili, o quello soffice degli alberelli di mimosa che già a febbraio rallegrano qualche cortile riparato nelle periferie delle nostre città. C’è il giallo caldoprofondo e sensuale della curcuma e dello zafferano, o quello fresco e pungente della buccia di un limone maturo.

Poi c’è un giallo artificiale, piatto e insolente, come il giallo primario che colora i grovigli di tubi, le assi e i pancali degli impianti industriali nei dipinti di Fernand Leger, così simili alle immagini dei gasdotti pieni di rubinetti che ogni giorno si affacciano nei teleschermi europei con la minaccia incombente di essere chiusi. E c’è un giallo che offende e che umilia, il giallo degli adesivi che sono comparsi in questi giorni in Russia sulla porta di qualche dissidente al regime: “Qui vive un traditore” (“la Repubblica”, 23 marzo 2022); dove il colore è usato come simbolo di tradimento, contrassegno per emarginare, bollare, accusare: un triste richiamo alla stella gialla imposta agli ebrei dalla Germania nazista, rivisitazione dell’antico sciamanno giallo introdotto dal IV Concilio Lateranense nel 1215 per gli ebrei che vivevano nei paesi cristiani.

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I “Piani” del sofo e dello zar

I “Piani” del sofo e dello zar


di Stefano Lanuzza 

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Eccellenze, gentiluomini, nobili, cittadini! Che cos’è dunque il nostro Impero Russo? Il nostro Impero Russo è un’entità geografica, ossia una parte d’un noto pianeta. L’Impero Russo comprende: in primo luogo la Grande, la Piccola, la Bianca e la Rossa Russia; in secondo luogo i regni di Georgia, Polonia, Kazàn’ e Àstrachan’; in terzo luogo… Ma eccetera eccetera eccetera. Il nostro Impero Russo consiste in una moltitudine di città: capitali, provinciali, distrettuali, autonome; e inoltre: nella metropoli e nella madre delle città russe. La metropoli è Mosca; e la madre delle città russe è Kiev (Andrej Belyj, Pietroburgo, 1916).

In considerazione del fatto che in ogni futura guerra mondiale verrebbero certamente impiegate armi nucleari e che tali armi mettono in pericolo la continuazione dell’esistenza dell’umanità, noi rivolgiamo un pressante appello ai governi di tutto il mondo affinché si rendano conto e riconoscano pubblicamente che i loro obiettivi non possono essere perseguiti mediante una guerra mondiale, e li invitiamo, di conseguenza, a cercare mezzi pacifici per la soluzione di tutte le questioni controverse (dalla “Dichiarazione sulle armi nucleari” firmata da Albert Einstein e da altri scienziati, e inviata il 9 luglio 1955 ai capi di Stato e di governo degli Stati Uniti, URSS, Cina, Gran Bretagna e Francia).

Una mattina mi son svegliato / o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / una mattina mi son svegliato / e ho trovato l’invasor (Bella ciao. Inno della Resistenza, s. d.).

ALEKSANDR DUGIN

Elaborazioni di pensiero con prevalenti toni messianici rigidamente dogmatici o solo apodittici, talora prepotenti “piani” sono quelli prospettati da Aleksandr Dugin (Mosca, 1962), sofo-politologo russo, nazionalista nostalgico dell’imperialismo zarista e d’una Russia composita multietnica sconfinata, autoritaria conflittuale repressiva, avidamente imperialista eppure supremamente presente nella cultura europea con la sua letteratura, la musica classica, la danza, l’arte figurativa, l’architettura, i musei, il folklore.

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Nei dintorni del «Trionfo della morte» di d’Annunzio. Romanzo, malattia e musica

Nei dintorni del «Trionfo della morte» di d’Annunzio. Romanzo, malattia e musica


di Manuele Marinoni (Università degli studi di Firenze)

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L’esplorazione dell’interiore formalizza, dalla planimetria dei nervi e dal conseguente universo patologico, nella seconda metà dell’Ottocento, nuovi protocolli ermeneutici utili alla memoria narrativa, nella più ampia observation clinique. Se ciò ha permesso a Bertrand Marquer di parlare, su vasta scala, di romans de la Salpêtrière1 è perché una moderna sinergia disciplinare s’è canalizzata verso un orizzonte storico preciso, al servizio di limiti e sconfinamenti della Nervenschreiben.

E così, individui nevrastenici, ipersensibili, alienati, sonnambuli, e quant’altro, sono divenuti soggetti di ispezioni del profondo; di analisi che tramutano i risvolti del patologico in una vera e propria rêverie. Tutto ciò, nella cultura fin-de-siècle, non produce alcun attrito né cortocircuiti, anzi fornisce ulteriori alibi all’estetica del corpo diafano, della psiche notturna, dell’animo fuorviato e, ancor più significativo, regala altri sistemi d’appoggio alle simmetrie del simbolico. La suite della decadenza trova in tal modo nuovi spazi e nuove ragioni per approfondire e scomporre le fuggevoli corruzioni che s’insinuano tra piacere e dolore2.

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Alex Bardascino e Luciano Curreri, “100 anni di Mario Rigoni Stern”

Alex Bardascino e Luciano Curreri, 100 anni di Mario Rigoni Stern, Mimesis, 2021, 136 pp., € 12,00


di Francesco Sasso

Sono in leggero ritardo con questo libro, che ho letto con interesse e che qui segnalo. Il libro in questione è 100 anni di Mario Rigoni Stern, edito da Mimesis nel 2021, di Alex Bardascino e Luciano Curreri.

Analizzare le opere letterarie di uno scrittore, lungo l’arco complessivo del suo svolgimento, è discorso particolarmente complesso, profondo e allusivo. Il più delle volte, l’opera letteraria appare singolarmente proteiforme, slitta sui significati, si accoppia al tempo presente generando sottili e nuovi rimandi, dando vita a interpretazioni mai univoche.

È forse per questo motivo che gli autori di 100 anni di Mario Rigoni Stern decidono di non vestire l’abito da sera dello scienziato-filologo, convinti di poter dominare il testo, ma di indossare l’abito sportivo, reversibile e a più entrate di lettori appassionati e devoti.

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Per una rilettura di Frontiera di Vittorio Sereni. Appunti tematici: gli oggetti, il tempo, il mito e la natura. Saggio di Manuele Marinoni

Per una rilettura di Frontiera di Vittorio Sereni.

Appunti tematici: gli oggetti, il tempo, il mito e la natura


di Manuele Marinoni (Università degli studi di Firenze)

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Testo e contesto

Nel 2013, presso la prestigiosa «Biblioteca di scrittori italiani» della Fondazione Pietro Bembo, è comparso a stampa il commento, per le cure di Georgia Fioroni, di Frontiera e del Diario d’Algeria di Vittorio Sereni1. Commenti parziali alle raccolte si leggevano, precedentemente, nelle antologie sereniane curate l’una da Dante Isella, con la collaborazione di Clelia Martignoni, e l’altra da Luca Lenzini, con introduzione di Gilberto Lonardi2. Si tratta di commenti prevalentemente tematici e di carattere intertestuale. Dal punto di vista filologico, come ben noto, è indispensabile l’edizione critica a cura dello stesso Isella, risalente al 19953. Ricordo anche il prezioso volumetto in due tomi, sempre per le cure iselliane, contenente la ristampa anastatica della princeps della prima raccolta (Milano, Corrente, 1941) e il Giornale di «Frontiera», per l’editore milanese Rosellina Archinto, del 1991. È all’impegno filologico e critico di Isella che si deve anzitutto la precisa collocazione del primo laboratorio sereniano all’interno della cultura gravitante attorno alla rivista «Corrente»4. A tutti questi titoli s’aggiunga infine il poderoso volume Poesie e prose curato da Giulia Raboni per la Mondadori nel 2013. Tuttora in corso è il recupero di fondamentali carteggi che il poeta ha intrattenuto con amici e colleghi (ai ben noti scambi con Vigorelli, Parronchi, Saba, Ungaretti, Anceschi si sono aggiunti di recenti quelli con Benzoni, Luzi, Caproni, Bodini, Betocchi, e molti altri).

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I bambini di Louis-Ferdinand Céline. Luisa Crismani, “Hardi petit!”. Attraverso i bambini, Céline

Luisa Crismani, “Hardi petit!”. Attraverso i bambini, Céline, Trieste, Asterios, 2021, pp. 230, € 29,00


di Stefano Lanuzza 

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Così il dottor Destouches (Louis-Ferdinand Céline, 1894-1961) è ricordato dall’amica pittrice Éliane Bonabel: “Non aveva modi arroganti come a volte altri medici. Quando arrivava [in ambulatorio] salutava tutti, era quasi sempre allegro, gioviale, la sua gentilezza e la sua disponibilità verso i bambini sembravano inesauribili” (Ricordi di Clichy, 2002). Sono i bambini su cui Luisa Crismani, pedagogista e letterata, orienta il suo “Hardi petit!”. Attraverso i bambini, Céline (Trieste, Asterios, 2021, pp. 230, € 29,00): non saggio, non biografia, ma diario di un “incontro” e d’un “colloquio” passando dal “Vous Monsieur Céline” all’affettuoso “Tu”, nei toni d’una lunga lettera, si dica pure ‘d’amore’, scritta con mimetica empatia e senza smancerie, stando ai fatti e affidandosi all’immaginazione intesa – è spiegato – “come strumento di conoscenza”.

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Appunti sulla «funzione-Pirandello»: percorsi nel romanzo. Gli sconfinamenti della verità

Appunti sulla «funzione-Pirandello»: percorsi nel romanzo

Gli sconfinamenti della verità


di Manuele Marinoni (Università degli studi di Firenze)

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Esiste, innegabilmente, nella narrativa italiana del Novecento una «funzione Pirandello»1. Scorrendo le pagine di uno dei libri di critica letteraria più importanti del secolo scorso, Novecento passato remoto di Luigi Baldacci2, è facile imbattersi in appunti, definizioni, concettualizzazioni che fanno carico al sistema pirandelliano, il quale non è solo un punto di partenza, una sorgente di temi o motivi a cui abbeverarsi, ma è anzitutto un modello ermeneutico utile a discernere i perimetri di dicibilità e di veridicità del reale e, ancor più nel dettaglio, è una fondamentale bussola per orientarsi nell’intricato rapporto dell’individuo con le cose del mondo. Ed è proprio questo l’addendo nevralgico che giustifica il senso per cui Pirandello ha provocato circuiti paradossali di conoscenza validi per discriminare luci e ombre che il soggetto intravede nell’orizzonte del reale, soprattutto nell’epoca moderna3. Luci e ombre che, indistintamente, appartengono tanto alla realtà esterna quanto a quella dell’ipertrofico e disgregato soggetto4.

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Stefano Lanuzza, “‘900 out. Scrittori italiani irregolari” e “Senza storia. ‘900 e contemporanei della Letteratura italiana”

Stefano Lanuzza, ‘900 out. Scrittori italiani irregolari, Fermenti editrice, 2017, pp.294, € 24,00

Stefano Lanuzza, Senza storia. ‘900 e contemporanei della Letteratura italiana, Oèdipus edizioni, 2021, pp.288, €17,50


di Francesco Sasso

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Stefano Lanuzza in questi ultimi anni ha pubblicato una corposa e chiara cartografia della letteratura italiana del Novecento: ‘900 out. Scrittori italiani irregolari (Fermenti editrice) e Senza storia. ‘900 e contemporanei della Letteratura italiana (Oèdipus edizioni).

Non è facile scrivere una storia della letteratura italiana del Novecento: c’è dietro la grande tradizione storiografica e una concezione alta dell’opera d’arte. Inoltre, la letteratura non è semplice linguaggio oppure insieme di opere stampate, pubblicate e diffuse; recepite come tali, prima di tutto, proprio in quanto scritte. È persino ovvio dire che un’opera non assume a dignità letteraria dal semplice fatto di essere scritta e pubblicata. Un’opera letteraria deve essere letta e riletta. E qui si spalanca una voragine: il problema della ricezione delle opere letterarie e di come il pubblico sia condizionato e influenzato da alcuni stereotipi del sistema culturale a individuare e accettare come capolavori determinate opere e scartarne altre, non corrispondenti alle attese, ai gusti e ai valori della comunità leggente.

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Tra esistenzialismo e antropologia. Moravia e il romanzo italiano del Novecento: il caso della Noia

Tra esistenzialismo e antropologia

Moravia e il romanzo italiano del Novecento: il caso della Noia


di Manuele Marinoni (Università degli studi di Firenze)

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Ha scritto Jean Bloch-Michel che l’Alberto Moravia della Noia è uno scrittore che «in una forma perfettamente tradizionale, e ignorando completamente gli sforzi e i tentativi del nouveau roman, con maggior vigore, con superiori qualità estetiche e con un più grande potere di evocazione, ha espresso precisamente tutto ciò che il nouveau roman cerca di dire barricandosi entro regole, divieti e rifiuti»1. Partirei da questa considerazione per circoscrivere il problema del rapporto tra narratore e realtà, tra soggetto e realtà nel romanzo moraviano.

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Primo Levi

(27 gennaio Giorno della Memoria. Quando il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa, che avanza verso la Germania, libera il campo di concentramento di Auschwitz)

Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case, / Voi che trovate tornando a sera / Il cibo caldo e visi amici: // Considerate se questo è un uomo…” (P. Levi, Shemà, 10 gennaio 1946); “[…] guardavamo i soldati tedeschi che passeggiavano per le vie con aria innocua, e ci capitava di osservare fra noi: ‘Eppure sono uomini che ci rassomigliano: come possono fare quello che fanno?’. Eravamo fieri di noi, perché riuscivamo a non capirli” (J.-P. Sartre, Prefazione a H. Alleg, La Question, 1958).


di Stefano Lanuzza 

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Italianista, critico letterario, filologo e autore di poesie nel vernacolo del nativo paese di Piossasco nel nord-ovest piemontese, Giovanni Tesio pubblica recentemente, con Lindau, il romanzo di formazione Gli zoccoli nell’erba pesante (2018) e, per le edizioni novaresi Interlinea, un personale, sapiente “sillabario” (Parole essenziali, 2014) seguito dai versi dialettali con autoriale testo italiano Nosgnor (2020). Fino al magnifico volume di saggi La luce delle parole (2020), propizia dichiarazione d’un “amore mai deluso” – per cosa se non per la letteratura?

S’aggiungano le impegnate antologie Nell’abisso del lager. Voci poetiche sulla Shoah (2019) e Nel buco nero di Auschwitz. Voci narrative sulla Shoah (2021), sistematica dilogia redatta sulla scorta d’una confraternita di testimoni – narratori e poeti che prendono la parola smentendo l’intemerata di Adorno secondo cui, dopo Auschwiz, non avrebbe più senso scrivere poesie… Invece non si censura la poesia che, secondo l’oggi negletto Benedetto Croce, è autonoma, scevra d’ogni condizionamento e perfino definizione: ché altro essa non sarebbe se non sé stessa o ‘cosa in sé’.

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«Il pirata! Giammai!»: parola di negriero. Una causerie sull’universo piratesco salgariano a partire da “Gli scorridori del mare” (1900)

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L’intervento seguente è stato presentato agli Amici e Colleghi del panel 4/ «Pirati» e del gruppo di ricerca internazionale e interuniversitario animatore del Seminario «Altri briganti»*, il 18 gennaio 2022, in seno a una mezza giornata di studi on line di cui trovate qui sotto, dopo il mio articolo, il programma della stessa, e qui a lato la locandina del ciclo nel quale s’inseriva, insieme alle università e ai centri interuniversitari che sono alla base di questa bella iniziativa corale, collettiva, che dovrebbe poi finalizzarsi ulteriormente in un convegno, dal vivo, in quel di Bari, nel corso di un 2022 che tutti speriamo diverso e maggiormente frequentabile e percorribile in tutti i sensi.

Per rendere la mia causerie più leggibile si è prodotta una sola nota (il testo spiega il perché) e si sono ridotti al minimo i rinvii bibliografici, inseriti nel discorso stesso. Detto questo, mi permetto di rinviare fin d’ora alla densa Postilla bibliografica, che esplicita e completa i rinvii bibliografici del mio saggio introduttivo, I cannóni del cànone salgariano, a Emilio Salgari, Il ciclo del Corsaro Nero. Il Corsaro Nero, La Regina dei Caraibi, Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, Introduzione di Luciano Curreri, Einaudi («ET Biblioteca», 56), Torino 2011, pp. XXIII-XXVIII.

Una bozza di questo intervento è stata caricata su ORBI per una decina di giorni, a partire dal 14 gennaio 2022, in accesso ristretto, cioè a disposizione dei colleghi dell’ULIEGE e, a richiesta, per tutti i colleghi e amici interessati, del Seminario e non, per un centinaio di visite tra visualizzazioni e telescaricamenti (e ringrazio in particolare, per il feedback, Gianluca Albergoni, Alex Bardascino, Alberto Maria Banti, Willy Burguet, Fabio Danelon, Lea Durante, Roberto Fioraso, Vittorio Frigerio, Gian Luca Fruci, Claudio Gallo, Stefano Jossa, Andrea Montanino, Fabrizio Scrivano, Gianni Turchetta, Michele Ziviani).

L. Curreri (Aywaille, Belgium, 24 gennaio 2022).

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A proposito de “L’ultima poesia” di Gilda Policastro

A proposito de “Lultima poesia” di Gilda Policastro

la poesia insieme generico e libere scelte

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di Antonino Contiliano

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I rapidi mutamenti che caratterizzano lo spazio-tempo del nuovo millennio pongono sempre una domanda assillante: è l’ultimo, il definitivo? Non sembra che ci possa essere però una risposta determinata e ultima. L’instabilità è di casa. La parola fine è incompatibile con le aperture e le fratture che, inevitabilmente e contingentemente, il tempo e la storia portano con sé. Non c’è ambito storico della vita e del sapere scientifico e letterario (per stare dentro a una classica dicotomia) che non ne sia attraversato. Così Gilda Policastro (L’ultima poesia. Scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo novecento ad oggi, Mimesis, Milano, 2021) scrive che le mutazioni poetiche sono posizioni continue e anomale molteplicità linguistico-semiotiche (“scritture anomale”). Un insieme eteronomo non standardizzabile. Del resto l’anomalo, come ricordato da Gilles Deleuze e Felix Guattari (Mille piani-Capitalismo e schizofrenia), non è l’“a-normale”. Questo è definibile in rapporto alla presenza di una regola specifica o generica. L’anomalo (aggettivo) è legato invece all’anomalia quale sostantivo. Un sostantivo che designa «l’ineguale, il ruvido, l’asperità, la punta di deterritorializzazione. […] una posizione o un insieme di posizioni in rapporto a una molteplicità, dove l’anomalo, all’interno di una muta (molteplicità), situa così (corsivo nostro) le posizioni dell’individuo eccezionale. È sempre con l’anomalo, Moby Dick o Giuseppina, che si fa alleanza per divenire-animale»1. Nel caso, l’insieme delle “scritture anomale” (i testi delVentiVenti” del XXI secolo) di cui all’Ultima poesia del libro di Gilda Policastro. Un insieme che non pone fine alla sperimentazione e alla ricerca poetica ma ne segnala, appunto, la continuazione che di volta in volta, usando gli stimoli dei nuovi linguaggi, ne dice il nome, le emergenze, gli elementi e i limiti che ne indicano la definizione come indice di riconoscimento determinato all’interno della molteplicità delle forme emerse finora. In tal senso, a mo’ di elenco, prelevando dall’appendice («Glossario ragionato delle procedure sperimentali (1960-2020)», ne riportiamo i nomi:

Asemic writing, Cut-up, Easdropping, Flarf, Foud poetry, Googlismi, Language poetry, Loose writing, New Sentence, Prosa in prosa, Scrittura concettuale, Source code poetry, Spoken Word, Sought poem.

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D’Annunzio e il non-finito. Appunti di lettura sulla “Violante dalla bella voce”

D’Annunzio e il non-finito. Appunti di lettura sulla Violante dalla bella voce.

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di Manuele Marinoni (Università degli studi di Firenze)

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Assai di recente è stato edito un manipolo di appunti dannunziani dedicati a una progettata e mai portata a termine raccolta di Studi su Gesù. Ci informa il curatore dei testi che «l’insieme di scritti, appunti, taccuini, parabole […] specificamente dedicati a Gesù» copre «un arco di scrittura che va dagli esordi giornalistici a Il libro delle Vergini del 1884 e su fino al Libro segreto del 1935»1. Non è certo questo il primo caso di una costellazione testuale a cui il poeta si è dedicato per decenni lasciando in sospeso il progetto di partenza. L’esempio richiamato mostra in modo evidente uno degli aspetti più complessi del cantiere dannunziano. Sappiamo infatti molto bene che il non-finito è una delle caratteristiche più importanti di tale cantiere, e che, al di là di ogni eventuale – difficile da credere – progettualità del caso (da confrontarsi, invece, il caso Gadda)2, è possibile rinvenire una casistica assai ampia di processualità creative che proprio del non-finito rappresentano l’evoluzione interna.

Da quando la filologia si è adoperata al fine di perlustrare le molteplici aree del lavoro dannunziano (Ciani, Gibellini, Riccardi, Montagnani, etc.)3 è emersa l’immagine di uno scrittore che dava al testo prima ancora che un valore simbolico (certo fondamentale) un valore, diremmo, empirico. Anche pochi appunti, poche frasi, magari in stile nominale, persino costituiti da soli elenchi di sostantivi, o da piccole descrizioni rubate allo spirito di osservazione, come esercizi della memoria, potevano occorrere in momenti di nuova spinta creativa anche a distanza di parecchi lustri. I primi testimoni di tutto ciò, come ben noto, sono da anni i due ponderosi volumi dei Taccuini, accanto ai quali vanno tenute le infinite lettere. Senza scomodare ulteriormente la teoresi di Genette, o di chi per lui, sappiamo anche che la maggior parte di queste testimonianze racchiude di per sé un valore testuale molto alto. Non credo, per fare un esempio, sia possibile leggere per intero i taccuini dannunziani come leggiamo un Journal di fine ottocento, o un diario novecentesco, ma questo assunto, se ricondotto a una precisa dialettica, non nasconde l’ipotesi che nei taccuini siano presenti felici tratti di scrittura che, di per sé, non esiteremmo a ricondurre a stile e forma degli stessi Journaux o ad altri esemplari diaristici. Sono, per lo più, appunti visivi, talvolta già declinati secondo l’indice simbolico, campioni di plurime possibilità del descrittivo, sottratti a una predilezione per il particolare plastico. I Taccuini sono, in effetti, un esempio concreto di «memoria materiale» che, in quanto tale, torna all’uso ogni qualvolta d’Annunzio ha sentito la necessità di recuperare immagini, campioni visivi o tessere descrittive.

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Domenico Rea, il ‘neo-neorealismo’ e l’immaginario barocco

Domenico Rea, il ‘neo-neorealismo’ e l’immaginario barocco

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di Stefano Lanuzza 

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Anticipa il Convegno su Domenico Rea e il Novecento italiano, tenuto all’Università Federico II di Napoli (9-11 novembre 2021) in occasione del centenario della nascita dello scrittore, la preziosa antologia critica, curata da Francesco G. Forte, Domenico Rea nel canone del Novecento (Oedipus, 2021, pp. 142, € 14,00).

Il volume accoglie saggi di Walter Pedullà (La scrittura magra di Domenico Rea), Renato Barilli (Purché vi sia il neo…) e Domenico Scarpa (Le 99 disgrazie di Pulcinella…); con, in aggiunta, un capitolo sul critico teatrale Giuseppe Bartolucci studioso di Rea (Il ghigno amaro, la risata terribile), seguito da un’Appendice (Le ragioni di Nofi) includente tre essenziali interviste con lo scrittore condotte da Forte, Corrado Piancastelli e Alessandro Baricco.

Dopo il felice esordio con Spaccanapoli (1947), racconti espressionistico-dialettaleggianti che nell’ambiente letterario italiano dell’immediato dopoguerra suscitano viva curiosità per l’originale debuttante, è soprattutto a partire dal 1950, con la stampa della raccolta, ancora di racconti, Gesú, fate luce (Premio Viareggio 1951), che, anche grazie alla prestigiosa prefazione di Francesco Flora, Rea ottiene il serio riconoscimento della critica e, viste le riedizioni succedutesi anno dopo anno, un successo notevole presso lettori finalmente interessati al primo innovatore della tradizione del realismo: un ‘neo-neorealista’ progressivo, ricco d’estro e di talento.

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“D’Annunzio tra Lombroso, Ribot e Dostoevskij. L’esperimento del Giovanni Episcopo”. Saggio di Manuele Marinoni

D’Annunzio tra Lombroso, Ribot e Dostoevskij. L’esperimento del Giovanni Episcopo

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di Manuele Marinoni* (Università degli studi di Firenze)

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Raggiunta la fama internazionale, divenuto ormai maestro indiscusso dell’antropologia criminale, Cesare Lombroso si chiedeva, al tramontare del secolo, quali fossero le ragioni per cui «il vero si accetta dai romanzieri e non dagli scienziati»1. Lo studioso era in tal senso conscio della diffusione di un genere allora di grande successo, quello che Carlo Dossi circoscriveva nelle formule del «romanzo criminale» e della «cronaca ergastolina». E che, dai protocolli della nuova disciplina scientifica, addirittura Dante venisse dichiarato epilettico, e che a Cristo venissero diagnosticate «allucinazioni acustiche», sono argomenti che non devono certo stupire, ripensando l’estatica fascinazione che il teatro dei nervi offriva alle più inquiete e acute sensibilità della cosiddetta fin-de-siècle. Sono la rêverie dell’allucinazione, l’attenzione per un formulario dell’eccesso e del periferico della coscienza, l’interesse per le zone umbratili della psiche – in sintesi la retorica del delirio, per dirla con Juan Rigoli2 – a rinfocolare i palinsesti narrativi di una letteratura tanto aperta quanto disposta a polemizzare con tensioni e proposte scientifiche coeve, specie quelle radicate nel bisogno di osservare e analizzare il comportamento individuale e collettivo dei campioni sociali.

Dai registri criminologici proveniva così una casistica di fenomeni comportamentali, individuali e collettivi di fondamentale importanza per la metamorfosi del personaggio di romanzo di quel periodo. E se da un lato le nuove prassi scientifiche garantivano puntuali prospetti comportamentali, tra allucinazioni, dissociazioni, alienazioni, vagabondaggi patologici, riduzioni del senso morale, e quant’altro, dall’altro sovvenivano dettagliate ispezioni interiori dalla più moderna e agguerrita narrativa russa, accolta anzitutto in terra di Francia, a corroborare il costituirsi di una ricchissima letteratura della degenerazione3.

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Amore e morte nella “Gerusalemme liberata”

Amore e morte nella “Gerusalemme liberata”

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di Francesco Sasso

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Tasso scrisse la Gerusalemme liberata, poema epico-religioso di venti canti in ottave, cui attese con particolare alacrità nel biennio 1573-75 a Ferrara. Finito che l’ebbe, lo sottopose al giudizio di alcuni dotti perché valutassero alla luce dell’ortodossia aristotelico-cattolica.

Alla Gerusalemme il Tasso si era preparato meditando a lungo sul genere epico e perciò la sua composizione, rigidamente ossequente alle norme letterarie, incornicia, per fortuna senza soffocarlo, ma certo disciplinandolo, il mondo delle sue fantasie. Omero e Virgilio gli fanno da modello: Rinaldo è l’Achille omerico nell’assedio di Gerusalemme, Goffredo arieggia il “pius Aeneas”, ma è contemporaneamente sovrano fra i prìncipi, come Agamennone, Rinaldo e Armidia richiamano Enea e Didone; ma non meno presenti erano al Tasso molti poeti medievali e rinascimentali e specialmente l’Ariosto.

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“Approssimazioni a Itaca e oltre (1982) o di Salgari e Torino” di Luciano Curreri

Abstract:

These approximations are a tribute to Claudio Magris and his Itaca e oltre (1982) but also to Turin, where I became myself, and to Salgari. In my own small way, with my own style, I have attempted to push the boundaries of essay writing that, during the 1980s, was still about discovery, not scholarly archiving (or terminal editing): an essayistic form which did not shun away from drawing attention to itself, in a ‘metacritical’ and ‘interdisciplinary’ sense avant la lettre. I thus concentrated on a large school and said something about two of its less remembered representatives: Marco Cerruti, with his very dense Notizie di utopia (1985), and Pierpaolo Fornaro, whose critical narrative Trapassato presente. L’appropriazione psicologica dell’antico attraverso la narrativa moderna (1989) remains unsurpassed.

in Pellegrini, Ernestina; Fastelli, Federico; Salvadori, Diego (Eds.) Firenze per Claudio Magris (2021)

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ORB (University of Liège)

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[Leggi tutti gli articoli di Luciano Curreri pubblicati su Retroguardia 2.0]

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Il nido famigliare dei Gerace. Saggio di Benedetta Mastrullo e Matteo Mocerino

Il nido famigliare dei Gerace

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di Benedetta Mastrullo* e Matteo Mocerino*

«fuori del limbo non v’è eliso».

È così che Elsa Morante conclude la dedica e dà avvio al romanzo che le ha garantito la vittoria del premio Strega nel 1957: L’isola di Arturo. Tale verso lapidario racchiude, a nostro avviso, l’essenza dell’intera opera e del conseguente accostamento con il poeta fanciullino per eccellenza, Giovanni Pascoli.
Il destinatario di questa rivelazione è il protagonista Arturo, proiettato fin dall’inizio in un limbo, inteso  ̶ da chi ne ha già consapevolezza  ̶ come stato indefinito di possibilità e potenzialità, fuori dal quale non c’è altro paradiso possibile, e nel quale non è presente una distinzione tra fantasia e realtà. È la fanciullezza, la parte naturalmente ingenua e onesta, lo sguardo vergine sulla realtà, capace di sottrarsi ai meccanismi mortificanti della vita, e che Pascoli ritrova in ognuno di noi. Il filtro del fanciullino sia nel suddetto poeta che nella scrittrice è presente nonostante le voci (dell’io poetico, da un lato, e del narratore, dall’altro) siano adulte e maturate. Se però Pascoli lo lascia emergere nelle sue poesie tramite un io trasparente e autobiografico, Morante preferisce che sia Arturo, con le proprie esperienze, a rappresentarla in tal senso.

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L’economia politica dello sperimentalismo poetico astrazioni determinate e risonanze

Giacomo Cuttone, “Asincronie irreversibili”, mista, 33 x 33, collezione privata, 2007

L’economia politica dello sperimentalismo poetico astrazioni determinate e risonanze

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di Antonino Contiliano

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La semplice esperienza immediata delle cose e della vita – che ognuno può avere per il semplice fatto d’esser-ci e di esistere – non basta a percepirne la complessità. Il mondo della vita è soprattutto quello che intreccia relazioni d’essere nelle sue varie forme amalgamate e nei vari livelli condizionantesi (dal fisico allo psichico, dal biologico al sociologico, dall’individuale al collettivo, dal culturale all’etico-politico-economico, dal locale al globale). E le relazioni per l’elaborazione e l’evoluzione del fenomeno chiamano – crediamo – sia la facoltà del linguaggio, nel suo duplice rapporto di langue e parole, sia i segni strutturati della cura della “differenza” (gli altri soggetti, l’altro), le identità non riducibili al medesimo, all’uno. Nel mondo delle cose e delle relazioni temporali, tra sincronia e diacronia, c’è infatti il pensiero dei soggetti che fa domande e, tra costanti e variabili, costruisce risposte e pratica azioni per cucire le eterogeneità inter-soggettive, e refrattarie agli ingabbiamenti dei modelli culturali e politici dominanti. A tal fine non è molto discriminante (politicamente) se il pensiero e l’azione si muovono sul terreno scientifico o quello letterario. C’è un fuori con cui bisogna fare i conti. È ineludibile. Il “reale” sfugge agli schemi irrigiditi, reificati. Ciò che si para davanti chiede però sempre prove e riprove, sperimentalismo, organizzazione differenziale. Un’irriducibilità alle coordinate che impongono assunzione assoluta (insomma, i buchi neri non mancano) specie delle immedesimazioni emotive (un modo per eludere le identità proprie).

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Per un Dante dappertutto e fuori posto, encore que… Saggio di Luciano Curreri

L’Accademia delle Scienze di Torino, in collaborazione con l’Università degli Studi, il Museo Nazionale del Cinema, la Bibliomediateca RAI-Centro Documentazione «Dino Villani» e la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino sono all’origine di una rassegna di iniziative dantesche, intitolata Luce nova. Dante al cinema, che animerà il capoluogo piemontese sino alla fine del 2021.

Il venerdì 8 ottobre 2021, alle ore 17.00, all’Accademia delle Scienze di Torino, il Presidente della stessa, il Prof. Massimo MORI, e il dott. Sergio TOFFETTI, curatori delle iniziative, salutano e presentano la rassegna con:

Prof. Alessandro BARBERO (UPO, sede di Vercelli) che introduce due conferenze di:

– Prof. Luciano CURRERI (ULIEGE), Per un Dante dappertutto e fuori posto, encore que

Prof. Silvio ALOVISIO (UNITO), Il cinema all’inferno.

Qui sotto potete leggere l’intervento di Luciano Curreri, che risponde sostanzialmente alla sua parte di introduzione (paragrafi I-VII, note 1-30) per il dossier monografico, co-diretto da Curreri con Simone Starace, “E allor fu la mia vista più viva”. Il lungo Novecento di Dante al cinema e alla televisione*, di “Immagine – Note di storia del cinema”, n. 24, la cui uscita è prevista a fine 2021.

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Giorgio Manganelli, “Concupiscenza libraria”

Giorgio Manganelli, Concupiscenza libraria, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Adelphi, 2020, pp. 454, € 24

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di Francesco Sasso

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«Una antologia è una legittima strage,» scriveva Manganelli nel risvolto di copertina dell’Antologia privata (Rizzoli, Milano, 1989) «una carneficina vista con favore dalle autorità civili e religiose, un massacro commercialmente attendibile». Aveva annotato, nel «Ragguaglio Librario» del dicembre 1949, che non c’è «lavoro più inquietante che scegliere e scartare per fare un’antologia».

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LEGACCETTI (recensioni come ricordi): Carlo A. Madrignani, Verità e narrazioni. Per una storia materiale del romanzo in Italia

Carlo A. Madrignani, Verità e narrazioni. Per una storia materiale del romanzo in Italia, a cura di Alessio Giannanti, Giuseppe Lo Castro, Antonio Resta, Pisa, ETS («La Modernità letteraria», 71), 2020, pp. XXVI, 468

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di Luciano Curreri* (ULIEGE, Belgique)

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Questo legaccetto è più lungo ed è pure un po’ diverso, forse. Forse ci sono un po’ più «io» ma non mi pare che ci sia ragione di vergognarsene, specie alla mia età e in un astratto contesto che vuole scrivere il racconto della tua vita al posto tuo e ‘pulirla’, perché diventi spendibile, visibile, perché possa tradursi tutta in slogan altrui (altruisti mai e giammai) e in curricula leggibili, traducibili.

Bref, rivendico qui quel racconto che spetta a me e a tante altre persone: il racconto di chi non vive bene soltanto in un hortus conclusus accademico o in cordate di progetti europei. Se poi penso, una volta di più, alla recensione come a un ricordo, e quindi anche come a un racconto-saggio che ha il desiderio mai dismesso di partire dalla vita vera, e non solo da un libro – anche se di grande libro si tratta: Carlo A. Madrignani, Verità e narrazioni. Per una storia materiale del romanzo in Italia, a cura di Alessio Giannanti, Giuseppe Lo Castro, Antonio Resta, Pisa, ETS («La Modernità letteraria», 71), 2020, pp. XXVI, 468 –, devo dirVi che sono ancora più convinto di poter tentare qui una recensione diversa da quella che feci alla prima raccolta saggistica postuma di Carlo A. Madrignani – Verità e visioni. Poesia, pittura, cinema, politica, a cura di Alessio Giannanti e Giuseppe Lo Castro, con uno scritto di Antonio Resta, Pisa, Ets («La Modernità letteraria», 39), 2013, pp. 200 – e che finì su «Filologia e critica», III, 2013, pp. 477-478, per i buoni uffici di Claudio Gigante.

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Leopardi e i costumi degli italiani

Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, a cura di Vincenzo Guarracino, La nave di Teseo, Milano, 2021, pp. 416, € 17,10

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di Renato Minore

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Qualunque sia la loro classe di appartenenza, le “classi superiori” non meno che il “popolaccio”, gli italiani sono oggi i più cinici del mondo. “Ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione”. “Il più savio partito è quello di ridere indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno, incominciando da sé medesimo”, celando la propria disperazione dietro una maschera, se non di tetra indifferenza, almeno di dolente impassibilità e spaesamento, di fronte a un quadro disarmante di arretratezza. Si potrebbe continuare sulla stessa lunghezza d’onda: così la pensava Giacomo Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, breve trattato di filosofia politica, in cui analizza qualità e vizi che contraddistinguono il nostro carattere nazionale. Vitaliano Brancati lo considerava un “piccolo capolavoro” paragonabile al Principe di Machiavelli,“ un modello di saggistica, di prosa vigile e acuta”.

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LETTI QUASI PER CASO, SCRIBACCHIATI PER UNA QUALCHE NECESSITÀ: Filippo La Porta, “Come un raggio nell’acqua. Dante e la relazione con l’altro”

Rubrica senza cadenza e scadenza ovvero Fustino letterario di Lucio Lontano*.

L’idea di questa rubrica birichina sta nel titolo e sottotitolo della stessa, che non necessitano di ulteriori spiegazioni, a nostro avviso. L’unica cosa che val forse la pena precisare è che si è pensato di far leggere lo scarabocchio – prima ancora che venga pubblicato – all’autore del libro da cui si parte, dando a quest’ultimo la possibilità di aggiungere, in coda, anche solo qualche riga, una parola, un’ipotesi di dialogo.

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A partire da: Filippo La Porta, Come un raggio nell’acqua. Dante e la relazione con l’altro, Salerno Editrice («Piccoli Saggi», 75), Roma (febbraio) 2021, 144 pp., 16 euro.

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di Lucio Lontano*

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L’ultimo saggio pubblicato da Filippo La Porta è una laica preghiera critica ed è l’opera di un pensatore, libero e metodico a un tempo, ancorato, come tutte e tutti noi, a una «generazione», a una storia (e Storia), ma senza pregiudiziali forti di natura ideologica né accademica. Certo, lo dice che è della sua generazione ma non lo fa pesare, almeno non qui, e anzi chiede scusa quando si fa prendere la mano da qualche digressione. Una, molto bella, tra le altre, tutte felici, è quella «cinematografica», raccolta in due dense pagine in cui l’Empireo di Dante è accostato a Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick: l’idea che la sottende è la sospensione della comprensione a tutti i costi, ovvero di quell’esorcismo del «giudizio» che la stessa vuole proporre a ogni verso, a ogni fotogramma, come se non potesse farne a meno. Si consiglia la lettura, la visione di un dormeur évéillé che rispetti e salvaguardi una «traccia di esperienza conoscitiva» resa libera dalla cultura tutta. E si cerca quindi di far capire che la letteratura – pure quella che ci appare più lontana – ha conquistato libertà non solo per fini didattici o estetici ma per trasmettercene il DNA, finanche attraverso le rivisitazioni che altre arti ne hanno fatto lungo i secoli e fino ai nostri giorni. Se la intendiamo davvero come tale, la letteratura, forse possiamo ancora essere liberi, anche noi, anche oggi, e dirci davvero tali, senza far pagare dazio all’alterità di una rappresentazione che ci sfugge e che soprattutto sfugge a quel «nostro io, infaticabile e indispensabile artefice, impegnato a praticare il bene full time», ovvero anche procedendo per paradigmi etico-conoscitivi coatti, predicanti l’obbedienza.

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LEGACCETTI (recensioni come ricordi): Francesco Paolo Botti, “Scritti su Leopardi”

Francesco Paolo Botti, Scritti su Leopardi, Salerno Editrice («Studi e Saggi», 67), Roma 2021, 160 pp., 18 euro.

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di Luciano Curreri* (ULIEGE, Belgique)

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Francesco Paolo Botti, a inizio anni Settanta, poco più che ventenne, scrive saggi su Leopardi che entrano nel dibattito allora in corso. L’Umberto Carpi di Il poeta e la politica. Belli, Leopardi, Montale (1978) li cita praticamente tutti, commentandoli positivamente e più di una volta in nota. Quando – nelle benemerite «Le forme del significato» (Mazzacurati, Palermo, V. Russo) di Liguori (indimenticabili le copertine), in cui esce il libro di Carpi ora ricordato – gli studi di Botti vengono raccolti e pubblicati in La nobiltà del poeta. Saggio su Leopardi (1979), il libro è giudicato «interessante» e «serio», pur accompagnato dai soliti ‘ma’ dei Maestri, rispettivamente nella quarta edizione di La protesta di Leopardi (1982, la prima è del 1973) di Walter Binni e in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana (1982 e 1985) di Sebastiano Timpanaro.

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Resistenza, resilienza, desistenza dei poeti

Montale e Vittorini alle “Giubbe Rosse”

Resistenza, resilienza, desistenza dei poeti

al Caffè letterario delle Giubbe Rosse

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di Stefano Lanuzza
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La città  [Firenze] è buia alle dieci e si dà  il naso nei passanti. Lampadine a pila, azzurrate, come lucciole. Ci sono Montale ingrugnato, la Mosca ospitale, il conte Landolfi giocatore pazzo, il Luzi, il Bigongiari, mentre Carlo Bo fa il soldato a Genova, con facoltà  di lettura di Malebranche in fureria. Verso sera la solita seduta alle Giubbe Rosse (ora bianche con controspalline rosse) dove il Poeta siede, in tre sedute (mattutina, vespertina e serale) quattro ore al giorno da tredici anni a questa parte, senza essere ancora morto di noia. Poi si mangia riuniti nella bettola di Bruno, col Poeta, col Conte, coi minori, col Rosai enorme, con tutte le gomita sulla tavola, col grifo nel piatto, orrendi intingoli e miserandi pezzi di palombo ed infinita fagioleria” (C. E. Gadda, Lettera a P.G. Conti, luglio 1940).

Un argomento circa la resistenza, la resilienza e poi la desistenza, ossia la perseveranza, la capacità di sopportazione o, infine, la rinuncia dei poeti a Firenze – città dove, a proposito del Primonovecento letterario, sembra che tutto cominci e tutto finisca – può proporsi anche da quando la questione della qualità della poesia diviene un fatto di quantità. Infatti, col proliferare di libri di versi, stampati, deplorevolmente, quasi sempre a spese degli stessi autori, quanto emerge di più non è la poesia bensì una poltiglia di confluenze, forme, linguaggi, codici autodesignatisi ‘poetici’ e fin dal loro nascere destinati alla disattenzione, alla non-lettura o all’indifferenza.

Si dice che il pubblico della poesia sia costituito dagli stessi poeti, ma ciò è vero solo in astratto perché accade che gli stessi poeti e presunti tali, pur conoscendosi (o proprio per questo), nemmeno si leggano fra loro… Va denotato che non esisterebbe la crisi dell’editoria di poesia se ogni poeta acquistasse almeno qualche libro di versi. Ne consegue che la poesia fallisca il proprio scopo conoscitivo ripiegando su un’onnicomprensiva autoreferenzialità dove i versificatori inscenano un isolamento individuale che metaforizza un’incurabile solitudine collettiva… Temi, questi, riguardanti anche il rapporto tra gli scrittori e l’ambiente dello storico Caffè fiorentino delle Giubbe Rosse in un tempo come quello attuale caratterizzato dall’obsolescenza delle ideologie e dalla vanificazione dell’impegno politico e socio-culturale.

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LETTI QUASI PER CASO, SCRIBACCHIATI PER UNA QUALCHE NECESSITÀ: a cura di Maddalena Rasera, “Letteratura italiana e Grande Guerra un anno dopo il Centenario” & Vittorio Roda, “Da Carducci alla Grande Guerra. Studi di letteratura italiana”

Rubrica senza cadenza e scadenza ovvero Fustino letterario di Lucio Lontano*.

L’idea di questa rubrica birichina sta nel titolo e sottotitolo della stessa, che non necessitano di ulteriori spiegazioni, a nostro avviso. L’unica cosa che val forse la pena precisare è che si è pensato di far leggere lo scarabocchio – prima ancora che venga pubblicato – all’autore del libro da cui si parte, dando a quest’ultimo la possibilità di aggiungere, in coda, anche solo qualche riga, una parola, un’ipotesi di dialogo.

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Da ‘bastian contrario’ ma ‘fedele alle amicizie’. Appunti e spunti, domande e dubbi, ricorsi e riverberi a partire da: Letteratura italiana e Grande Guerra un anno dopo il Centenario, Atti del Convegno di studi (Verona, 23-24 ottobre 2019), a cura di Maddalena Rasera, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2020 (dicembre), 114 pp., e da Vittorio Roda, Da Carducci alla Grande Guerra. Studi di letteratura italiana, Bologna, Pàtron, 2019 (febbraio), 280 pp.

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di Lucio Lontano*

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Scrivendo un saggio narrativo dei miei dedicato a Storia di Tönle (1978) di Mario Rigoni Stern (1921), ho provato a spiegarmi così il racconto della Grande Guerra nelle pagine di quel libro: «Il racconto, qui, non è la vendetta ma il suo contrario: il perdono. Perché questo non è un libro di guerra ma di pace, di speranza. E se la «baita» non c’è più, perché ne puoi solo più vedere – e da lontano – le rovine fumanti, se «lassù» non resta «più niente da distruggere, e più niente per poter vivere», a casa ci si ritorna lo stesso, perché il mondo è la nostra casa e la nostra casa è il mondo. […] Tönle è un antidoto umano alla guerra disumana; è un uomo che sa scegliere i tempi e gli spazi per andare al pascolo e riposare, per viaggiare e fermarsi, per fuggire e star fermo, quasi come un filosofo antico».

Eppure, mi dico ora, anche questo testo rientra nella grande famiglia della ricezione letteraria della Grande Guerra. E mi viene anche da farmi – e da farvi, cari lettori – una domanda.

Quale è la guerra ‘italiana’ più ‘coperta’ dalla letteratura italiana in tempo più o meno reale, ovvero nei dintorni più o meno immediati della stessa? Forse una guerra che se ne porta dietro altre e che finisce quasi per riprenderle e poi riassumerle e sintetizzarle nel suo seno, ammesso e non concesso che l’espressione appena citata possa confarsi a un contesto patriottico che è davvero poco materno e – metaforicamente e non solo – mutilato assai. La Grande Guerra, in effetti, ha un noto ‘portato risorgimentale’, quello delle tre guerre d’indipendenza almeno, che non a caso giungono a rinominarla da ‘prima guerra mondiale’ a ‘quarta guerra d’indipendenza’. Et pour cause: i sette decenni che anellano via via il 1848 al 1918 fanno un po’ pensare a una nostrana «guerra dei settant’anni», dove il tutto si dilata – copertura e ricezione letteraria compresa, ovviamente – magari mentre si infila nella «guerra civile europea» colta da Enzo Traverso, nel 2007, tra il 1914 e il 1945… E allora chissà quante guerre dei cent’anni abbiamo vissuto, pensando di essere in pace…

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Stendhal in Sicilia. Per amore di Stendhal, Sciascia diventa napoleonico

Stendhal in Sicilia. Per amore di Stendhal, Sciascia diventa napoleonico

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di Francesco F. Forte

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«Non la finiremo mai con Stendhal» (Paul Valéry); «Ha saltato un secolo intero, il diciannovesimo» (Stefan Zweig); «un Eden delle passioni in libertà» (Julien Gracq); «O si è stendhaliani o non lo si è» (Émile-Auguste Chartier-Alain); “Stendhal for ever”: ex libris ricordato da Sciascia (si ama tutto di Stendhal»); «romanzo puro, e Stendhal ne è, giustamente, il campione, affabulatore mai domo» (Giovanni Macchia); «nella scrittura domina, travolgente e incontrastato, il puro gusto del racconto, della narrazione: uno stile da Mille e una notte» (Francesco Flora).

Per Leonardo Sciascia, ancora, «la gioia che dà Stendhal è imprevedibile quanto la vita, quanto le ore di una giornata e quanto le giornate di una vita». Una gioia che accompagna lo scrittore di Racalmuto attraverso gli stadi della giovinezza, della maturità e dell’affacciarsi della vecchiaia. In un testo del lontano 1978, apparso su Mondo Operaio, scrive, a proposito dei tre gradi dello stendhalismo: «Il più bel libro di Stendhal è l’Henry Brulard. Ci sono tre gradi dello stendhalismo. In un primo si crede che il più bel libro di Stendhal sia Il rosso e il nero; poi ci si converte alla Certosa di Parma; in un terzo grado, quando lo stendhalismo è arrivato alla sua perfezione, ci si convince che il suo più grande libro è la Vie de Henry Brulard».

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Lord Byron, un antiromantico travolto dal romanticismo

(c) Newstead Abbey; Supplied by The Public Catalogue Foundation

Lord Byron, un antiromantico travolto dal romanticismo

(“Swept into the camp of the Romantics”)

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di Claudia Cardella

L’epiteto romantico e l’antitesi classico-romantico sono approssimazioni da lungo tempo entrare nell’uso. Il filosofo le mette solennemente alla porta esorcizzandole con logica che non erra, ed esse rientrano chete chete per la finestra, e son sempre lì tra i piedi, elusive, assillanti, indispensabili; il retore cerca di dar loro stato, grado e inamovibilità, ed ecco, alla fine di travagliose costruzioni, s’accorge d’aver trattato ombre come cose salde”.1 Così Mario Praz introdusse un discorso a proposito della funzione e della quasi necessità di due “etichette”, cioè romantico e quella che qui, per comodità, ribattezziamo opposto a romantico. Si tratta di due etichette l’utilità delle quali è innegabile, soprattutto se, come in questo caso, si devono segnalare delle caratteristiche atipiche. Tuttavia, esse tendono a dare l’impressione che si stia parlando di quadri omogenei, nei quali tutto è in armonia con i connotati di una o dell’altra categoria. E invece bisogna tenere presente che queste etichette, solitamente, indicano piuttosto delle caratteristiche comuni, la presenza delle quali mette in relazione un autore, le sue opere, il suo pensiero, con una categoria o con un’altra.

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Introduzione a “La Critica” di Benedetto Croce (1903)

«La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce», 1, 1903

Abbiamo in Italia molte riviste speciali di storia politica, di filologia, di filosofia, di arte, e, specie, di storia letteraria, talune delle quali sotto ogni rispetto ottime. Ma, dovendo ciascuna d’esse tener dietro alla copiosa produzione d’un singolo ramo di studii, ed informare i lettori su tutte le questioni e controversie minute, è naturale che non possano acconciamente soddisfare al bisogno di chi desideri un ragguaglio critico, e come una scelta, dei libri, che si vanno pubblicando, d’interesse generale. Inoltre, appunto per essere specializzate, accade che di parecchi libri, anche dei più importanti, nessuna di quelle riviste si occupi o si occupi a fondo, perché o non entrano nelle specialità già organizzate in riviste o si distendono sulle linee d’incrocio di parecchi campi di studio attigui. Cosi, per spiegarci con un esempio, se una dissertazione su un punto anche particolarissimo della biografia o dell’opera di un antico scrittore italiano troverà ora in Italia per lo meno quattro o cinque recensori competenti, critici ernunctae naris, non si può dir che la stessa sorte sarà per toccare ad un libro, poniamo, Ai storia politica contemporaii o ad un altro che concerna un argomento di letteratura o di storia straniera. Di questi, se mai, tratteranno, più o meno leggermente, le riviste pel gran pubblico; nelle quali la parte critica è di solito assai trascurata, consistendo o in annunzii editoriali di uniforme intonazione elogiativa, o in articoli complessivi e sommarii in cui la critica non ha l’agio d’esplicarsi.

Peggiore è l’inconveniente che delle riviste pel gran pubblico nasce dall’assenza di criterii fermi e di un organico sistema d’idee: onde un’anarchia e un’ineguaglianza di giudizii che le fa somigliare talvolta a botteghe di caffè, dove ciascuno si rechi a dire, o a gridare, la propria opinione od impressione.

Eppure ognuno di noi sente forte il bisogno di non perder di vista i problemi generali e d’insieme, che son tanta parte della vita degli studii, e di dedicare ad essi la stessa attenzione ed intensa cura che si adopera per le idee e i fatti speciali e particolari. 

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ESERCIZI DI LETTURA: Borges, Macedonio e la Belarte

Borges, Macedonio e la Belarte.

Macedonio Fernández «precursore» di Borges in un saggio di Daniel Attala

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di Gustavo Micheletti

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Quando in qualche scritto si parla di Macedonio Fernández è ormai invalsa la consuetudine di chiamarlo per nome, al contrario di quanto si fa normalmente con tutti gli altri autori dotati di un cognome. Si deve probabilmente a Jorge Luis Borges quest’abitudine, che contribuisce a rendere Macedonio subito familiare a chi si avventura nei suoi scritti, sebbene contengano tesi desuete e assai sorprendenti.

Borges eredita l’amicizia di Macedonio da sua padre, ma ancor prima di essere un suo amico, Macedonio fu per lui un maestro influente, tanto da indurlo a rilevare che nessuna persona famosa lo aveva “mai impressionato come lui, neppure in modo analogo. Cercava di nascondere, non di sfoggiare, – scrive Borges – la sua straordinaria intelligenza; parlava come ai margini del dialogo, eppure ne era il centro. Preferiva il tono interrogativo, il tono di modesta consultazione, piuttosto che l’affermazione magistrale. Non pontificava mai: la sua eloquenza era di poche parole e perfino di frasi lasciate a mezzo. Il tono abituale era di cautelosa perplessità”.1 L’insieme di queste ed altre prerogative del suo amico e maestro lo porteranno poi a dire, e lasciar scritto sulla sua tomba, che il non imitarne il canone, letterario e filosofico, avrebbe costituito “un’imperdonabile negligenza”.2

Macedonio, dal canto suo, “paragona Borges al poeta spagnolo J.R. Jimenez: «tanto intelligente quanto dolorante di passione e vita, che sembra preoccuparlo». L’intelligenza è in effetti, secondo Macedonio, l’unico talento di Borges visibile nella sua letteratura; si tratta però, a suo avviso, di “un talento pratico, d’una muscolatura dell’anima senza interesse per l’Arte, né più né meno che le capacità dell’atletismo”.3

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