Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaire Dreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P.)
di Giuseppe Panella
3. L’incertezza delle attese, le sicurezze della scrittura. Giuseppe Favati, Mater certa, Firenze, Il Ponte Editore, 2007
«Ecco ora il racconto dell’avventura che aveva determinata la situazione rispettiva nella quale sono venuti a trovarsi i personaggi di questa scena…»
(Honoré de Balzac, La duchessa di Langeais)
1. Figli e ideologie
Giuseppe Favati non demorde ancora. Dopo un primo romanzo tutto sommato classificabile come tradizionale ma con vistose e vigorose innovazioni linguistico-metanarrative (Villandorme e Cartacanta, Firenze, Il Ponte Editore, 2002) e un attraversamento trasversale e “filosofico” degno del Diderot dei Gioielli indiscreti di quel che resta della sessualità post-moderna (Per esempio, con la coda dell’occhio, San Cesario di Lecce, Manni, 2005), ecco qui un terzo romanzo (Mater certa, Firenze, Il Ponte, 2007) ancora più deciso individuato da una scrittura che pigia sempre di più sul pedale della frantumazione e della moltiplicazione delle voci e delle possibilità ancora rimaste alla scrittura romanzesca. Un romanzo bachtiniano e polifonico, forse – ma forse ancora qualcosa di diverso (sicuramente nei confronti dei romanzi precedenti). Sarà opportuno esaminarlo con cura. Ancora una volta – ed è importante dirlo – il libro si apre con degli esergo significativi (come già il precedente Per esempio, con la coda dell’occhio). Sarà interessante verificarli uno alla volta per comprenderne l’importanza. Il primo viene direttamente dalle Lettere dal carcere di Gramsci e recita: “Il tempo […] è un semplice pseudonimo della vita stessa” (lettera alla cognata Tatiana Schucht del 2 marzo 1933). Il pezzettino di testo compreso tra le parentesi quadre recitava peraltro che il tempo è “la cosa più importante”. Gramsci voleva rilevare come il tempo umano e quindi la Storia sia l’unica misura per giudicare e rivendicare la verità e la validità delle proprie azioni.