Franco Ferrarotti, Al Santuario con Pavese. Storia di un’amicizia, Bologna, EDB, 2015
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di Giuseppe Panella*
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«Ciò che forse non è stato capito dai contemporanei è che in Pavese, come del resto in Adriano Olivetti, benché in tutt’altro modo, era sempre presente e nel fondo, misteriosamente operante, un sentimento religioso che lo rendeva estraneo allo storicismo “laicistico” allora dominante e lo spingeva invece allo studio dei grandi miti, archetipi strutturali, racconti metastorici, risposte criptiche alle pulsioni profonde che costituiscono l’uomo in società. Vico e Frazer al posto di Hegel, per non parlare dei suoi garruli italici nipotini. Ricordo come se fosse ieri che provammo un sommesso divertimento nel riuscire a far passare sotto il naso del crociano-marxista Ernesto de Martino il libro antropologico- strutturale di Theeodor Reik da me tradotto» (p. 49)1.
Franco Ferrarotti, giunto alla soglia dei novanta anni, rievoca, con passione e accoratezza, la passata e condivisa amicizia con Cesare Pavese. In un libro breve ma denso e tutto concentrato sui fatti, il sociologo vercellese racconta del suo incontro con lo scrittore di Santo Stefano Belbo, del loro rapporto di confronto produttivo e qualche volta di scontro, della loro corrispondenza e del loro ritrovarsi a ogni snodo della loro vita (fino all’interruzione brusca ma non imprevedibile legata al suicidio di Pavese). Pavese emerge come “un uomo complesso e privato”, con un interesse serrato e vibrante per la dimensione mitopoietica della vita umana, delle origini della coscienza, del senso ultimo e profondo della vita. – una dimensione astorica che urtava con i convincimenti più forti dell’ambiente culturale in cui egli vive e da cui traeva linfa. La sua fama di “eterno adolescente” affibbiatogli dalla critica letteraria italiana (in ultimo in un saggio pur importante come quello di Cesare Segre che costituisce la sua introduzione all’ultima edizione di Il mestiere di vivere2) ha continuato da sempre a perseguitarlo.