Guidalberto Bormolini, “L’arte della meditazione”

Guidalberto Bormolini, L’arte della meditazione, pref. Giorgio Nardone, Ponte alle Grazie, 2022, pp.382, € 16,80


di Francesco Sasso

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Il fenomeno della meditazione è un fatto essenziale, universale della vita umana. Sotto ogni cielo, in ogni tempo, presso tutti i popoli, l’uomo ha sempre cercato la vera natura della mente e dell’anima attraverso la meditazione. Meditare è mettersi in cammino alla ricerca di sé o anche fare un percorso di conversione o purificazione interiore. Quale che sia il loro grado di evoluzione, l’essere umano desidera sapere chi è. È la più grande missione che ha da compiere nella sua esistenza terrena. Di questo e di molto altro tratta il bel libro dal titolo L’arte della meditazione di Guidalberto Bormolini.

Dopo aver lavorato come falegname, carpentiere e liutaio, Bormolini entra nella Comunità dei Ricostruttori nella Preghiera per vivere gli ideali monastici e in seguito viene ordinato sacerdote. Egli ha sempre vissuto l’esperienza meditativa «come un fatto intimo, sperimentato nella riservatezza» fino al giorno in cui Giorgio Nardone gli ha chiesto di mettere la sua esperienza al servizio dei lettori.

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Inquietum est cor nostrum: Luigi Maria Epicoco, “La scelta di Enea. Per una fenomenologia del presente”

Luigi Maria Epicoco, La scelta di Enea. Per una fenomenologia del presente, Rizzoli, 2022, pp.192, € 16,00


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di Luigi Preziosi

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E’ in libreria da qualche mese La scelta di Enea, edito da Rizzoli, che offre al lettore un’ampia e articolata raccolta di riflessioni sul presente, confuso ed incerto, che ci è dato di vivere. E’ l’ultima opera di Luigi Maria Epicoco, filosofo e teologo che alla profondità di pensiero affianca una ragguardevole capacità di scrittura. Già nella seconda metà del secolo scorso il teologo francese Jossua insisteva sulla necessità di un riavvicinamento tra teologia e letteratura, ed in La scelta di Enea questo risultato, sotto le specie, per quanto attiene al cotè di saggistica letteraria, pare pienamente raggiunto.

Epicoco, infatti, sviluppa il suo personale contributo all’analisi della “fenomenologia del presente”, come recita il sottotitolo, ricorrendo alle suggestioni evocate dal mito di Enea, ed utilizzando alcuni elementi fondanti della narrazione virgiliana come strumenti di interpretazione del nostro presente. Virgilio, dunque, assume nuovamente il ruolo di guida, pur in un contesto opportunamente attualizzato, da un lato, e dall’altro riletto, come avverte l’autore nell’introduzione, avendo “come punto di riferimento l’esperienza cristiana”, “nella convinzione che il messaggio del Vangelo e soprattutto la persona di Gesù siano lo sguardo più realistico e al tempo stesso più positivo che si possa avere sul mondo e sulla vita”. Ed ancora: Virgilio come anticipatore (se non profeta, ma per via diversa da quella leggendaria della Quarta ecloga), o almeno come descrittore di condizioni esistenziali evidentemente comuni all’uomo del suo tempo e a quello contemporaneo, che, peraltro, rispetto al primo, ha dalla sua l’immenso lascito della Rivelazione cristiana.

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Il dono è un legame di anime

Il dono è un legame di anime


di Francesco Sasso

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L’antropologia culturale è una disciplina eterogenea, il cui campo di studio – l’uomo in quanto elaboratore di cultura – è quanto mai ambiguo e al tempo stesso talmente vasto da rendere necessario l’utilizzo degli strumenti di più discipline per studiare i fenomeni ad esso correlati.

L’antropologia culturale è un modo di guardare all’uomo e alle sue opere nelle loro articolazioni etniche e nelle loro espressioni popolari. Il concetto di cultura è fondamentale per la definizione di questa disciplina anche se di difficile delimitazione. In antropologia, con cultura non si intendono soltanto i prodotti del lavoro intellettuale (arte, letteratura o scienza), ma il complesso di elementi non biologici attraverso i quali l’uomo si adatta all’ambiente e organizza la sua vita sociale. Di fatto, è difficile definire la cultura attraverso un elenco. Naturalmente, la cultura da un lato dipende dalle basi biologiche della vita umana, dall’altro si intreccia con esse e le modifica. In fondo la cultura è una nostra seconda natura. Quindi l’antropologia culturale si muove in simbiosi con le discipline della storia, della filosofia e degli studi umani e sociali. Tuttavia, l’ambito biologico e culturale restano distanti.

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Macedonio Fernandez, “Quaderni di tutto e nulla”. Dalla certezza d’essere alla sua estinzione e ritorno

Macedonio Fernandez, Quaderni di tutto e nulla, Prospero Editore, 2022, pp. 160, € 14,00


di Gustavo Micheletti

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La traduzione in italiano dei Quaderni di tutto e nulla di Macedonio Fernández (per Prospero editore, a cura di Irina Bajini) è di buon auspicio: consente infatti di sperare che uno degli scrittori e dei pensatori più originali dell’America latina, maestro e amico di Jorge Luis Borges, sia finalmente conosciuto anche in Italia come in molti altri paesi del mondo e come da troppo tempo merita.

Le traduzioni di opere letterarie di Macedonio in Italia sono state infatti fino ad oggi piuttosto rare: la più recente, presso l’editore Castelvecchi (dopo la prima e storica per il Melangolo, del 1992), è quella del Museo del Romanzo della Eterna; ma bisogna andare indietro con gli anni per trovarne una di qualche racconto: una breve raccolta fu pubblicata nella Biblioteca blu di Franco Maria Ricci, a cura di Marcelo Ravoni, col titolo La materia del Nulla.

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Echi di guerra

Echi di guerra

A Mario Quattrucci (1936-2022), scrittore


di Stefano Lanuzza 

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Leggi anche I “Piani” del sofo e dello zar

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L’invasione illegale russa è una violazione dell’Articolo 2, paragrafo 4, della Carta delle Nazioni Unite, che vieta la minaccia o l’uso della forza contro l’integrità territoriale di un altro Stato.

Gli uomini sono mistici della morte dei quali bisogna diffidare. […] Hitler non rappresenta l’apice, ne vedremo di più epilettici […]. L’unanime sadismo attuale muove innanzi tutto da un desiderio del nulla profondamente radicato nell’Uomo e soprattutto nelle masse di uomini, una specie di impazienza amorosa, più o meno irresistibile, unanime, di morire. […] Come distrazione ci sarà lasciato soltanto l’istinto di distruzione” (Louis-Ferdinand Céline, Omaggio a Zola, 1933).

La cartolina qui / mi dice terra terra / di andare a far la guerra / quest’altro lunedì. / Ma io non sono qui, / egregio presidente, /
per ammazzar la gente / più o meno come me. / […] / Per cui se servirà / del sangue ad ogni costo, / andate a dare il vostro / se vi divertirà” (Boris Vian, Le Déserteur, 1956).

Quando la violenza irrompe nella pacifica vita degli uomini, il suo volto arde di tracotanza ed essa porta scritto sul suo stendardo e grida: ‘IO SONO LA VIOLENZA! Via, fate largo o vi schiaccio!’. Ma la violenza invecchia presto, […] e per reggersi, per salvare la faccia, si allea immancabilmente con la menzogna. Infatti la violenza non ha altro dietro cui coprirsi se non la menzogna, e la menzogna non può reggersi se non con la violenza” (Aleksandr Solženicyn, Vivere senza menzogna, 12 febbraio 1974).

Non c’è niente di nobile nell’usare le armi e le arti della guerra per appropriarsi della terra altrui” (Morihei Ueshiba, L’arte della pace, 1992).

talpa cieca / duce di blatte / il mondo prega / che tu / schiatti. / Innaffia di sangue la sorella / la terra del mio cuore. / Si dilapida la Russia spargendo i suoi semi: / denti marci di drago” (Vera Pavlova, Versi del tempo di guerra, in Voci russe contro la guerra, Università di Torino, 2022).

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Conversazione su matematica e poesia fra Antonino Contiliano, Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi

Giacomo Cuttone, Ritratto pixellato, acrilico su tela 50×70, 2017

Conversazione su matematica e poesia fra Antonino Contiliano, Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi

per Giuseppe Panella


a cura di Antonino Contiliano 

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Prima di avviare la conversazione con i professori Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi, desidero esprimere loro il mio saluto. Un grazie, cioè, per aver accettato sia il mio invito per una chiacchierata su matematica e poesia, sia l’intenzione di dedicare la conversazione stessa all’amico scomparso Giuseppe Panella (filosofo, saggista e poeta). Fra le opere di Panella ricordiamo: Il lascito di Foucault (Giuseppe Panella e Giovanni Spena, 2006); L’arma propria- Poesie per un futuro trascorso (2007); Il secolo che verrà- Epistemologia letteratura etica in Gilles Deleuze (Giuseppe Panella e Silvio Zanobetti, 2012); Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide- Georges Bataille: l’estetica dell’eccesso (2014). Come poeta, Giuseppe Panella, ha partecipato anche alle azioni poetiche del soggetto collettivo-anonimo “Noi Rebeldía” (una nostra idea). A cura di Antonino Contiliano sono state pubblicate pure le sillogi “We are winning wing/2012 e L’ora zero/2014”. Due libri di poesia collettiva-anonima le cui copertine portano opere dell’artista Giacomo Cuttone. Con Francesco Sasso, Panella ha curato il “quaderno elettronico di critica letteraria- Retroguardia”. Devo la conoscenza di Giuseppe Panella all’amico Gaspare Polizzi. Anticipiamo pure, così, che questa conversazione sarà visibile sul sito stesso di Retroguardia. Prima di avviare il nostro incontro qualche nota (per gli eventuali visitatori) su Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi.

Giuseppe Mussardo è professore di fisica teorica alla SISSA di Trieste. È Direttore editoriale della rivista scientifica Journal of Statistical Physics and Applications (JSTAT). Tra le monografie scientifiche che ha pubblicato ci sono Il Modello di Ising (2007); Statistical Field Theory (2010) e The ABC’s of Science. È autore anche dei film-documentari Maksìmovic. La Storia di Bruno Pontecorvo (2013) e Galois. Un matematico rivoluzionario (2017).

Gaspare Polizzi, storico della filosofia e della scienza, è membro del Comitato scientifico del Centro Nazionale di Studi Leopardiani. Insegna attualmente all’Università di Pisa. Su Leopardi ha pubblicato cinque volumi: Leopardi e “le ragioni della verità” (2003); Galileo in Leopardi (2007); «… per le forze eterne della materia» (2008); Giacomo Leopardi: la concezione dell’umano, tra utopia e disincanto (2011); Io sono quella che tu fuggi. Leopardi e la natura (2015). Con Giuseppe Mussardo (coautore) ha pubblicato L’infinita scienza di Leopardi (2019).

Ed è dalla lettura di quest’opera che è partita la mia idea di una conversazione con loro su matematica, poesia e scienza (in genere). Scontato è, poi, il fatto che (da parte nostra, non specialisti) l’interesse per l’argomento è quello di un’essenziale curiosità intellettuale.

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I “Piani” del sofo e dello zar

I “Piani” del sofo e dello zar


di Stefano Lanuzza 

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Eccellenze, gentiluomini, nobili, cittadini! Che cos’è dunque il nostro Impero Russo? Il nostro Impero Russo è un’entità geografica, ossia una parte d’un noto pianeta. L’Impero Russo comprende: in primo luogo la Grande, la Piccola, la Bianca e la Rossa Russia; in secondo luogo i regni di Georgia, Polonia, Kazàn’ e Àstrachan’; in terzo luogo… Ma eccetera eccetera eccetera. Il nostro Impero Russo consiste in una moltitudine di città: capitali, provinciali, distrettuali, autonome; e inoltre: nella metropoli e nella madre delle città russe. La metropoli è Mosca; e la madre delle città russe è Kiev (Andrej Belyj, Pietroburgo, 1916).

In considerazione del fatto che in ogni futura guerra mondiale verrebbero certamente impiegate armi nucleari e che tali armi mettono in pericolo la continuazione dell’esistenza dell’umanità, noi rivolgiamo un pressante appello ai governi di tutto il mondo affinché si rendano conto e riconoscano pubblicamente che i loro obiettivi non possono essere perseguiti mediante una guerra mondiale, e li invitiamo, di conseguenza, a cercare mezzi pacifici per la soluzione di tutte le questioni controverse (dalla “Dichiarazione sulle armi nucleari” firmata da Albert Einstein e da altri scienziati, e inviata il 9 luglio 1955 ai capi di Stato e di governo degli Stati Uniti, URSS, Cina, Gran Bretagna e Francia).

Una mattina mi son svegliato / o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / una mattina mi son svegliato / e ho trovato l’invasor (Bella ciao. Inno della Resistenza, s. d.).

ALEKSANDR DUGIN

Elaborazioni di pensiero con prevalenti toni messianici rigidamente dogmatici o solo apodittici, talora prepotenti “piani” sono quelli prospettati da Aleksandr Dugin (Mosca, 1962), sofo-politologo russo, nazionalista nostalgico dell’imperialismo zarista e d’una Russia composita multietnica sconfinata, autoritaria conflittuale repressiva, avidamente imperialista eppure supremamente presente nella cultura europea con la sua letteratura, la musica classica, la danza, l’arte figurativa, l’architettura, i musei, il folklore.

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Per un’est-etica-politica militante s-militarizzata de-localizzazione

Verso Kabul- acrilico su tela 40×40- di Giacomo Cuttone

Per un’est-etica-politica militante s-militarizzata de-localizzazione


di Antonino Contiliano

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i russi russi timeo Cri-mea

e cri cri in suso i Nato-fusi

dona ferentes e tombaroli sono

e dell’archeologia insapiens usura

Steli

Non è né insolito né nuovo che – in funzione analitico-intellettuale – i quadri concettuali e il lessico teorico-conoscitivo trasmigri da un campo ad altro del sapere. Così il concetto di isotopia dal linguaggio della fisica passa a quello della poesia; l’onda sonora armonica di Louis De Broglie dalla musica passa alla fisica quanto-relativistica; l’equivalenza dalla geometria e dall’economia passa alla scrittura poetica. Egualmente, poi, le similitudini, le metafore, le analogie e le anomalie … dalla produzione letterario-poetica passano a quella delle indagini conoscitive e della scienza (in genere). Dal canto nostro pensiamo, invece, di far trasmigrare il termine “delocalizzazione” dal campo dell’economia-finanziaria (propria al pensiero unico del neoliberismo capitalistico globalizzato) a quello (in genere) dell’estetica, dell’arte e della poesia: lo riscriviamo come de-localizzazione. Come dire che le parole non si possono brevettare (non c’è il copyright). Non sono proprietà esclusiva del linguaggio del modello di un sistema (capitalistico o altro …). Parafrasando “Humpty Dumpty”, interrogato da Alice sulle parole che hanno significati così diversi (Lewis Carrol, Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò), Humpty Dumpty ribatte che il problema è uno solo. Prendere posizione. Chi decide che! Chi è il padrone della lingua? Tutto qui! Così può succedere che chi – sotto il dominio di un regime identitario (Herbert Marcuse, Arte e rivoluzione) – dice pace, libertà e autonomia per mettere fine a una sporca guerra, in realtà significhi altro (vedere l’attuale guerra giocata in Crimea…). Il mettere fine alla guerra, infatti, significa «esattamente ciò che il governo belligerante sta facendo, anche se può essere in realtà tutto il contrario, e cioè intensificare il massacro invece che estenderlo; la libertà è esattamente ciò che il popolo ha sotto l’Amministrazione, anche se può essere in realtà tutto il contrario»1.

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Ordet, la parola

Ordet, la parola

Ovvero: la “scuola di cristianesimo” di Carl Theodor Dreyer e Søren Kierkegaard


di Gustavo Micheletti

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 La sceneggiatura di Ordet (La parola), un film di Carl Theodor Dreyer del 1955, è ispirata ad un lavoro teatrale di Kay Herald Munk, uno dei più noti drammaturghi danesi, nonché eroe della resistenza del suo paese, ucciso dai tedeschi nel gennaio 1944. Sia l’opera di Munk sia il film di Dreyer contengono ripetuti riferimenti alla concezione del cristianesimo di Søren Kierkergaard, tanto da renderne più evidenti e intuitive le implicazioni anche per un pubblico che non conosca direttamente le sue opere.

La storia narrata è quella di un uomo che è convinto di essere Cristo. Potrebbe trattarsi della convinzione di un folle, e in un certo senso lo è, se non fosse che per Kierkegaard ogni vero cristiano deve essere anche folle, perché la sua fede è paradossale. Il desiderio che anima la follia di Johannes è quello d’imitare Cristo fino alle estreme conseguenze, fino alla completa identificazione con lui.

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Il gatto e il filosofo. Stefano Scrima, “Sette vite non bastano”

Stefano Scrima, Sette vite non bastano, Aprilia, Ortica editrice, 2022, pp. 84, € 9,00


di Stefano Lanuzza 

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Dialoga col suo sacrale gatto birmano di nome Washington il giovane filosofo Stefano Scrima (1987), che al suo peloso interlocutore dallo sguardo insostenibile dedica il volumetto carico di pensiero Sette vite non bastano (Aprilia, Ortica editrice, 2022, pp. 84, € 9,00).

Mantiene una certa aria di sufficienza, quel felino che lascia vagare i suoi dolci, flemmatici occhi blu senza mai perdere di vista ogni cosa; e quando il filosofo gli chiede reverente di cedergli almeno una delle sue rinomate “sette vite”, quell’araldo infero lo guarda compassionevole da distanze abissali facendo le fusa prima d’inalberare le sue segnaletiche orecchie rosse e, senza sprecarsi in risposte, fa intendere che a lui, sette vite, mica bastano.

Allora che può eccepire il filosofo cui, per quanto ha da fare, una sola vita non è sufficiente? Per dirla tutta, a lui, al pari del grande Miguel de Unamuno cui ha dedicato il libro Non voglio morire (2015), di morire non va proprio. “Non voglio morire; non voglio e non voglio volerlo” dichiara il per una volta edonista Unamuno.

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Giuseppe Ardinghi e l’arte di vedere

Giuseppe Ardinghi e l’arte di vedere


di Gustavo Micheletti

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Vidi per la prima volta i quadri di Giuseppe Ardinghi quando avevo dieci anni e i miei genitori mi portarono a vedere una mostra collettiva – a Lucca, alla galleria “La Piramide” – dove esponeva insieme a sua moglie, Mari Di Vecchio Ardinghi, a Soffici e a Rosai. Era la prima volta che vedevo così tanti quadri tutti insieme e ne rimasi molto colpito. Mi parve che quei pittori sapessero vedere cose che sfuggivano alla mia vista, ma che sembravano “le cose vere” – così pensai – colte di sorpresa quando stavano da sole e nessuno le guardava, quando non dovevano mostrarsi a nessuno.

Quell’impressione rimase in me tanto viva che anni dopo, ogni volta che incontravo per strada Giuseppe Ardinghi e Mari Di Vecchio-Ardinghi, mi sembrava che fossero quasi due maghi, che sapevano cogliere quello che gli altri non riuscivano a scorgere, restituendo a ogni cosa la sua anima segreta. Anche al tavolino di un bar dove si recavano ogni tanto, in piazza XX Settembre, seduti in silenzio sotto una grande magnolia, sembrava che si esercitassero a vedere: un giorno che rimasi per un po’ a guardarli da lontano stavano zitti, uno accanto all’altra, e mi parve fossero presi da quell’esercizio muto.

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ESERCIZI DI LETTURA: Emile Cioran e l’arte del ritratto letterario

Emile M. Cioran, Antologia del ritratto, trad. it. di Giovanni Mariotti, Adelphi editore, Milano, 2017


di Gustavo Micheletti

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L’arte del ritratto letterario richiede una notevole dose di spregiudicatezza morale, se non addirittura di cattiveria. Delineare con brevi schizzi di penna la fisionomia psicologica di una persona o quella culturale di uno scrittore comporta infatti saper giustapporre in uno spazio breve qualità e caratteristiche spesso stridenti, il che comporta anche il saper essere crudeli con eleganza.

I moralisti, che sono maestri in quest’arte sottile, sono esseri costituzionalmente indiscreti che non risparmiano il mistero di nessuno, né tantomeno la sua privacy. Anzi, potremmo dire che con la privacy ci giocano come il gatto col topo, o almeno come i gatti di una volta con i topi di una volta. Insomma, sono dei veri maleducati. Ma dei maleducati che hanno gusto, perché hanno trovato abbastanza tempo libero per dedicarsi agli altrui vizi e pregi con cognizione di causa, avendo in genere cognizione anche dei propri e avendo coltivato l’esercizio non sempre gradevole di esaminarli con cura. Eccellono in quest’arte specialmente i memorialisti, come fu Saint-Simon, la cui replica letteraria fu un esempio di maleducazione ancora più fulgida di quanto non poté permettersi di essere in carne ed ossa nella vita.

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A proposito de “L’ultima poesia” di Gilda Policastro

A proposito de “Lultima poesia” di Gilda Policastro

la poesia insieme generico e libere scelte

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di Antonino Contiliano

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I rapidi mutamenti che caratterizzano lo spazio-tempo del nuovo millennio pongono sempre una domanda assillante: è l’ultimo, il definitivo? Non sembra che ci possa essere però una risposta determinata e ultima. L’instabilità è di casa. La parola fine è incompatibile con le aperture e le fratture che, inevitabilmente e contingentemente, il tempo e la storia portano con sé. Non c’è ambito storico della vita e del sapere scientifico e letterario (per stare dentro a una classica dicotomia) che non ne sia attraversato. Così Gilda Policastro (L’ultima poesia. Scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo novecento ad oggi, Mimesis, Milano, 2021) scrive che le mutazioni poetiche sono posizioni continue e anomale molteplicità linguistico-semiotiche (“scritture anomale”). Un insieme eteronomo non standardizzabile. Del resto l’anomalo, come ricordato da Gilles Deleuze e Felix Guattari (Mille piani-Capitalismo e schizofrenia), non è l’“a-normale”. Questo è definibile in rapporto alla presenza di una regola specifica o generica. L’anomalo (aggettivo) è legato invece all’anomalia quale sostantivo. Un sostantivo che designa «l’ineguale, il ruvido, l’asperità, la punta di deterritorializzazione. […] una posizione o un insieme di posizioni in rapporto a una molteplicità, dove l’anomalo, all’interno di una muta (molteplicità), situa così (corsivo nostro) le posizioni dell’individuo eccezionale. È sempre con l’anomalo, Moby Dick o Giuseppina, che si fa alleanza per divenire-animale»1. Nel caso, l’insieme delle “scritture anomale” (i testi delVentiVenti” del XXI secolo) di cui all’Ultima poesia del libro di Gilda Policastro. Un insieme che non pone fine alla sperimentazione e alla ricerca poetica ma ne segnala, appunto, la continuazione che di volta in volta, usando gli stimoli dei nuovi linguaggi, ne dice il nome, le emergenze, gli elementi e i limiti che ne indicano la definizione come indice di riconoscimento determinato all’interno della molteplicità delle forme emerse finora. In tal senso, a mo’ di elenco, prelevando dall’appendice («Glossario ragionato delle procedure sperimentali (1960-2020)», ne riportiamo i nomi:

Asemic writing, Cut-up, Easdropping, Flarf, Foud poetry, Googlismi, Language poetry, Loose writing, New Sentence, Prosa in prosa, Scrittura concettuale, Source code poetry, Spoken Word, Sought poem.

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L’economia politica dello sperimentalismo poetico astrazioni determinate e risonanze

Giacomo Cuttone, “Asincronie irreversibili”, mista, 33 x 33, collezione privata, 2007

L’economia politica dello sperimentalismo poetico astrazioni determinate e risonanze

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di Antonino Contiliano

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La semplice esperienza immediata delle cose e della vita – che ognuno può avere per il semplice fatto d’esser-ci e di esistere – non basta a percepirne la complessità. Il mondo della vita è soprattutto quello che intreccia relazioni d’essere nelle sue varie forme amalgamate e nei vari livelli condizionantesi (dal fisico allo psichico, dal biologico al sociologico, dall’individuale al collettivo, dal culturale all’etico-politico-economico, dal locale al globale). E le relazioni per l’elaborazione e l’evoluzione del fenomeno chiamano – crediamo – sia la facoltà del linguaggio, nel suo duplice rapporto di langue e parole, sia i segni strutturati della cura della “differenza” (gli altri soggetti, l’altro), le identità non riducibili al medesimo, all’uno. Nel mondo delle cose e delle relazioni temporali, tra sincronia e diacronia, c’è infatti il pensiero dei soggetti che fa domande e, tra costanti e variabili, costruisce risposte e pratica azioni per cucire le eterogeneità inter-soggettive, e refrattarie agli ingabbiamenti dei modelli culturali e politici dominanti. A tal fine non è molto discriminante (politicamente) se il pensiero e l’azione si muovono sul terreno scientifico o quello letterario. C’è un fuori con cui bisogna fare i conti. È ineludibile. Il “reale” sfugge agli schemi irrigiditi, reificati. Ciò che si para davanti chiede però sempre prove e riprove, sperimentalismo, organizzazione differenziale. Un’irriducibilità alle coordinate che impongono assunzione assoluta (insomma, i buchi neri non mancano) specie delle immedesimazioni emotive (un modo per eludere le identità proprie).

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ESERCIZI DI LETTURA: Il canto del mondo e il pensiero della vita

In che senso si può parlare di una semantica della musica? Un confronto tra Susanne K. Langer e Arthur Schopenhauer.

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di Gustavo Micheletti

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Una delle domande più frequenti e spontanee che ci si può porre intorno alla musica è se essa esprima qualcosa, se sia espressione di pensieri e sentimenti e se possa essere paragonata sotto questo riguardo all’immagine poetica, alla raffigurazione pittorica o all’azione drammatica. Come ricorda Massimo Negrotti, “accanto a Chopin, che asseriva di non poter concepire una musica che non esprimesse nulla, c’è la nota posizione di Stravinsky, secondo la quale l’espressione non è mai stata una proprietà importante della musica; accanto alla posizione di Richard Strauss che si rifiutava di credere ad una musica astratta, c’è la tesi di Hanslick che sosteneva drasticamente come la musica non significhi altro che se stessa”.1

Negrotti ricorda anche come lo stesso Stravinskij paragonasse “la sensazione generata dalla musica” a “quella evocata dalla contemplazione del gioco incrociato delle forme architettoniche”, citando a sua volta Goethe, che definì l’architettura come “musica pietrificata”, ed evidenziando così implicitamente l’aspetto formale e strutturale di ogni composizione musicale come fondamento del suo valore estetico.2 Negrotti evidenzia poi la centralità della questione attraverso le parole di Aaron Copland, che la pone in questi termini: “se mi si chiede ‘c’è significato nella musica’? la mia risposta sarà . Se poi mi si chiede ‘puoi descrivere con quante parole vuoi di che significato si tratta?’, allora la mia risposta sarà no”.3

Se l’evocazione, implicita nelle parole di Copland, delle considerazioni di S. Agostino sul tempo potrebbe forse suggerire che la questione è tanto cruciale quanto irresolubile, le parole di Goethe sembrano invece sollecitare ulteriori chiarimenti e possibilità. In effetti, se la forma musicale può evocare, come ritengono Goethe e Stravinskij, una forma architettonica, perché non dovrebbe poterne evocare molte altre? Questa stessa possibilità non allude forse al fatto che la musica possa essere espressione di qualcosa, e cioè di molte altre strutture dotate di una forma, come ad esempio, non ultima, quella del pensiero? Che possa quindi, in questo senso, costituire un’espressione dinamica di qualcosa che accade nell’anima umana, magari per il semplice fatto di farlo accadere?

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ESERCIZI DI LETTURA: In direzione uguale e contraria. Una lettura ponderata di Entropia e arte di Rudolf Arnheim

Rudolf Arnheim, Entropia e Arte, trad. it. Torino, Einaudi editore, 1974; ed. cit. 1989. L’ultima ristampa italiana del saggio è del 2000.

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di Gustavo Micheletti

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Premessa

   Nel 1865 Rudolf Clausius introduceva in fisica il concetto di “Entropia” (il termine deriva da Entropè, che in greco vuol dire cambiamento o evoluzione), con l’intento principale di esprimere in modo nuovo l’esigenza che definisce ogni sistema motore: ovvero il suo ritorno allo stato iniziale alla fine del ciclo, quando il flusso e la conversione del calore si sono compensati.
In un suo famoso saggio del 1944, il fisico Erwin Schrodinger (1887-1961) – insignito del premio Nobel nel 1933 – utilizzava poi il concetto di Entropia per cercare di fornire una spiegazione fisica del fenomeno della vita. Successivamente, un altro fisico, Ilya Prigogine – anch’egli premio Nobel nel 1977, nonché direttore degli Istituti Solvay di Bruxelles e del centro di meccanica statistica e di termodinamica dell’Università del Texas – si è servito del concetto di Entropia per spiegare l’irreversibilità che è alla base di molti fenomeni naturali e della stessa auto-organizzazione biologica.
Nel 1971, inoltre, lo psicologo della conoscenza e storico dell’arte Rudolf Arnheim ha dedicato al concetto di Entropia e alla sua utilità per l’analisi dell’opera d’arte un saggio fondamentale, adatto come premessa teorica e punto di partenza per impostare una ricerca interdisciplinare sulla rilevanza del concetto di Entropia (ma anche di “Disordine”, o “Caos”) nella scienza, nell’arte, nella letteratura – e quindi più in generale nella cultura – dell’ultimo secolo del secondo millennio. Lo scritto presente intende fornire, come esercizio di lettura, una sintesi ragionata di quest’ultimo testo: Rudolf Arnheim
Entropia e Arte, trad. it. Torino, Einaudi editore, 1974; ed. cit. 1989. L’ultima ristampa italiana del saggio è del 2000. Non mancheranno, o almeno è quanto auspichiamo, spunti di riflessione che, prendendo spunto da questo breve saggio, che è a nostro parere fondamentale per comprendere l’arte degli ultimi due secoli, potranno forse arricchirne la comprensione. Il numero delle pagine riportato di volta in volta fra parentesi, sarà da intendersi riferito ad esso.

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ESERCIZI DI LETTURA: Leibniz, Kant e il rapporto della filosofia con le scienze e l’evoluzionismo secondo Ernst Cassirer

Ernst Cassirer, Kant e la biologia moderna e altri scritti, a cura di Riccardo De Biase, Marchese editore, Grumo Nevano (Na), 2014.

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di Gustavo Micheletti

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Sigmund Freud sostiene che Leibniz sia stato l’ultimo uomo ad aver saputo tutto. Dopo di lui, già con l’Enciclopedia divenne chiaro che lo scibile umano non potesse più essere padroneggiato da una mente sola. La filosofia, che fino a quel momento era stata una sorta di coordinatrice generale di tutte le attività di ricerca nei campi più disparati, perse questa funzione. La “vecchia metafisica” – come la chiama Hegel – che aveva svolto quella funzione più di ogni altra sua componente e che per Cartesio ne costituiva il fusto centrale, venne da Kant relegata nell’alveo delle attività pseudoscientifiche, buona tutt’al più a mostrare l’aspirazione legittima e profonda dell’anima umana a conseguire un sapere assoluto e incondizionato. Da questo punto in poi, il rapporto tra la filosofia e le scienze particolari sarà sempre più problematico e incerto.

Con Kant, la filosofia si emancipa definitivamente dalla teologia: se infatti una volta si poteva eventualmente “convenire con l’orgogliosa pretesa della facoltà teologica di considerare quella filosofica la sua ancella”, dopo Kant è rimasta aperta la questione se “l’ancella precedesse la sua graziosa signora con la fiaccola o le reggesse lo strascico”. Ma nel secolo dei lumi, secondo Ernst Cassirer, non solo la filosofia si emancipa definitivamente dalla teologia, ma si trova anche a dover ripensare radicalmente le proprie relazioni con le altre scienze particolari.

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La lotta di classe in lockdown. L’iocrazia dei padroni: Comunismo linea di fuga fluente (parte IV)

Comunismo linea di fuga fluente

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di Antonino Contiliano

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Se oggi l’attività lavorativa si deve confrontare anche con il tribunale delle macchine intelligenti (learning machine, i cervelli elettronici che hanno incorporato la potenza creativa e produttiva della forza-lavoro umana automatizzandola), non per questo si deve rimanere inerti e immobilizzati negli ordini del padrone dei capitali finanziari. Si devono sperimentare delle linee di fuga come azioni conflittuali e di rottura accendendo focolai di micro-poteri antagonisti in ogni punto delle fortezze. Lo stesso potere dominante non è più padrone assoluto della complessità delle variabili globalizzanti. La governabilità, dipendente dalla stessa innovazione tecnologia diffusa, è condizionata dal disequilibrio fra gli interessi e le strategie variegati delle grandi forze internazionali dell’economia finanziarizzata e in competizione tra loro stesse; un movimento che rimane sempre in preda anche all’imprevedibilità degli effetti ambientali e delle diverse passioni collettive messi moto. Si deve divenire-conflitto. Maturare una soggettivazione della “molteplicità” di contro-tendenza flessibile per rimuovere il feticistico “stato di cose presenti” rilanciando in modo diverso i processi della rivoluzione comunista (piuttosto che pensare, dire e fare come se il capitalismo e le sue forme risultassero inamovibili). Perché una nuova rivoluzione comunista democratica è possibile, se la democrazia comunista è costruenda a partire dalla sua semantica di termine fluente e “vuoto” (non la parola d’ordine di un partito centralizzato) via via da concretizzare nella contingenza degli eventi storici e materiali e con passione poetica non secondaria. Le passioni sono un corto circuito di passività e reattività senza scarti ed eccessi. La rivoluzione comunista è un ‘evento’, una virtualità attualizzabile quale estrazione dalla contingenza ineliminabile delle cose, e per questo soggetta (in senso positivo e negativo) a una congiunzione disgiunta di fattori eterogeni ed esposti ai colpi della “fortuna” o del caso (come ricordava N. Machiavelli).

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La lotta di classe in lockdown. L’iocrazia dei padroni: No al lockdown pastorale (parte III)

No al lockdown pastorale

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di Antonino Contiliano

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Ma si potrebbe dire che il fenomeno dell’iocrazia capitalista e dei padroni, senza considerare l’isteria consumistica e le presunte cure dell’amministrazione paternalistica, non è meno intrattenimento infantilizzante e prodigo di azioni pastorali. Di questo XXI secolo, almeno per i primi suoi tre decenni, non si può dire di certo che l’umanità abbia perso i suoi pastori, se il mondo, raccontato dai media elettronificati, è quello del perpetuo intrattenimento ludico e della chiacchera fine a sé stessa. Il mondo delle immagini digitali che, integrate con il piccolo schermo della tv, a milioni di individui sodomizzati, fornisco fantasmi senza immagini riflesse. Simulacri che scivolano su altre immagini-simulacro. Immagini senza corpi reali, quelli della virtualizzazione capitalistica che dematerializza la concretezza storica delle cose con la figurazione astratta e una fantasmagoria erotizzante fabbricata ad hoc, ma fuorviante. Il gioco di azioni e passioni di simulacri manovrato con joystick di classe e poteri transnazionali deresponsabilizzanti e devianti.

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La lotta di classe in lockdown. L’iocrazia dei padroni: Il godimento del plusvalore capitalistico (parte II)

Il godimento del plusvalore capitalistico

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di Antonino Contiliano

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E il plus-valore come godimento ripetitivo, nell’iterazione dei meccanismi del valore ciclico dell’economia capitalistica, viene usato come “astuzia”. Un’astuzia, questa, però diversa dalle astuzie individuate da Bertol Brecht. Un’astuzia cioè di tipo “pulsionale” o attinente alle relazioni inconsce e consce della psiche dell’animale umano, e strutturante sia il linguaggio socio-individuale tout court che le forze economiche e politiche.

Già Karl Marx (per non andare a Platone e Aristotele…) scriveva che è un’assurdità pensare «al formarsi di una lingua senza che esistano individui che vivano e parlino insieme. […] La produzione in generale è un’astrazione, […] che, astraendo (corsivo nostro) l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Tuttavia questo elemento generale, ovvero l’elemento comune […] è esso stesso qualcosa di complessamente articolato, che si dirama in differenti determinazioni. Di queste, alcune appartengono a tutte le epoche; altre sono comuni solo ad alcune. […] Senza di esse sarà inconcepibile qualsiasi produzione; salvo che, se le lingue più sviluppate hanno leggi e determinazioni comuni con quelle meno sviluppate, allora bisogna isolare proprio ciò che costituisce il loro sviluppo, ossia la differenza da questo elemento generale, mentre le determinazioni che valgono per la produzione in generale devono essere isolate proprio affinché per l’unità – che deriva già dal fatto che il soggetto, l’umanità, e l’oggetto, la natura, sono i medesimi – non venga poi dimenticata la diversità essenziale»1. Ma le diversità (espunte dall’astrazione), in funzione di parti escluse, vengono dimenticate o manipolate per dimostrare l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali e politici esistenti e di potere.

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La lotta di classe in lockdown. L’iocrazia dei padroni (parte I)

La lotta di classe in lockdown. L’iocrazia dei padroni

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di Antonino Contiliano

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Nel mondo della produzione e della divisione capitalistico-sociale del lavoro e del suo governo politico-sociale, non di rado il termine populista – letto come se fosse una qualità ‘generale’ a sé stante – è utilizzato per sminuire l’avversario politico e svalorizzare le stesse istanze popolari di cui si fa portavoce. Il termine diventa un capo di accusa, o il trascinarsi di una pura astrazione generale ideologica e propagandistica. Si lascia cadere l’intreccio relazionale che la parola, invece, intrattiene con quella di popolo, popolazione, plebe. Ma i nomi generali sono astrattezze linguistico-logiche elaborate sacrificando la concretezza e la contingenza delle cose e, in un contesto come quello odierno dell’ipercapitalismo tecnologico, non tutti (individui, gruppi, classi sociali) per interessi e bisogni soffrono però degli stessi limiti richiesti dalle definizioni generali.

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SNAKE

Il serpente che non può cambiar pelle muore.

Lo stesso accade agli spiriti

ai quali s’impedisce di cambiare opinione:

cessano di essere spiriti.

Friedrich Wilhelm Nietzsche, Aurora.

Sfregandosi insieme queste cose,

ossia nomi e definizioni,

visioni e sensazioni, le une con le altre,

e venendo messe a prova

in confutazioni benevole

e saggiate in discussioni fatte senza invidia,

risplende improvvisamente

la conoscenza di ciascuna cosa.

Platone, Dialoghi.

di Giuseppe Gentile

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INTRODUZIONE

Parlando del più e del meno in una serata senza tempo, una serata che potrebbe essere di ieri come di oggi, e perché no anche di domani, mi ritrovai dinanzi ad una questione che sembrò essere importante per chi mi stava di fronte, ma allo stesso tempo compresi che per me sarebbe stata vitale. Si disquisiva sul colore del tramonto. Vennero fuori tutta una serie di possibili colori: arancio, rosa, rosa tendente all’arancio, amaranto. Nessuno, tuttavia, riuscì a trovare un colore che minimante desse l’idea di quello che stava capitando sotto i nostri occhi: la fine di un giorno.

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SCAMBIO DI RUOLI

di Giuseppe Gentile

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Passeggiavo per le vie di Roma, quando all’improvviso notai l’avvicinarsi di un forte vociare, anzi si trattava di urla inneggianti un dio. Prima passò un gruppo di uomini e poi un altro, si trattava di gruppi nemici, inneggianti entrambi un dio diverso. Girato l’angolo vidi che queste due fazioni oltre a scambiarsi ingiurie del tipo “Traditori, Dio vi punirà”, a cui gli altri rispondevano “Siete voi i traditori, voi avete ucciso lo avete ucciso”, si lanciavano pietre a più non posso l’uno contro l’altro.

Ricordo che l’odio religioso era forse più forte di quello razziale, era pericoloso camminare per strada: gli ebrei venivano lapidati dai cristiani, i cristiani lapidati dagli ebrei, i pagani dai cristiani e dagli ebrei, le donne non potevano parlare altrimenti lapidate anche loro, solo le alte cariche erano esenti da maltrattamenti fisici; ma se qualcosa andava storto dovevano comunque sobbarcarsi il peso di lamentele provenienti da tutte e tre le fazioni religiose. Un mondo “plurireligioso” sì, ma enormemente instabile. In qualsiasi momento poteva scoppiare una rivolta che puntualmente sfociava nel sangue e nella morte.

Per tutta la vita ho vissuto con il terrore di morire per mano di un religioso. Può sembrare strano, ma io non riuscivo ad appartenere a nessuna delle divinità adorate dai romani, lo stesso valeva per Gesù e per Dio, ma il mio terrore stava proprio nel fatto di dover giustificare a chiunque le mie idee senza correre il rischio di essere malmenato o peggio ancora ucciso. Ero diventato un uomo solo, senza amici e ben presto fui costretto a gettarmi in diverse attività solo per avere la mente occupata e non pensare alla solitudine.

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ESERCIZI DI LETTURA n.11: Un ipotetico kantiano dionisico. Sette conversazioni utili per comprendere meglio Lacan

Sergio Benvenuto, Antonio Lucci, Lacan, oggi. Sette conversazioni per capire Lacan; Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2014, pp. 215.

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di Gustavo Micheletti

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Un filosofo competente in cose psicoanalitiche pone delle domande a uno psicoanalista con una formazione filosofica e dal loro dialogo nasce un libro, effettivamente utile per capire Lacan. Le sette conversazioni tra Sergio Benvenuto e Antonio Lucci hanno il grande merito di sottrarsi a due tipi di approcci fino a poco tempo fa predominanti: quello di fornire una ricostruzione del pensiero dello psicoanalista francese tutta dall’interno, per così dire di scuola, pur con tutte le numerose e sottili variazioni che nell’ambito di quella lacaniana è stato fino ad oggi possibile registrare; e un approccio esterno, talora massivamente critico e frettolosamente intransigente nell’argomentare le proprie riserve.

Per quanto questa contrapposizione sia stata negli ultimi anni mitigata dall’avvento di una seconda generazione di discepoli di Lacan, che anche in Italia stanno intraprendendo un prezioso lavoro di tessitura tra l’opera del maestro e le sue implicazioni o relazioni filosofiche operando così una sorta di “urbanizzazione della provincia lacaniana”, queste “sette conversazioni” sono comunque uno dei pochi testi in grado di porre anche un lettore poco esperto in condizione di comprendere alcuni snodi cruciali del pensiero di Lacan, fornendo nel contempo al medesimo lettore gli strumenti idonei per valutarlo secondo altre prospettive teoriche.

Nel libro, uscito nel 2014 per le edizioni Mimesis, s’insiste infatti su un doppio registro di lettura, uno interno e uno esterno all’impianto teorico in oggetto: in entrambi i casi Sergio Benvenuto riesce a fornire non solo delucidazioni utili per una migliore comprensione dei temi proposti da Lucci, ma anche per porre in comunicazione orizzonti culturali diversi e spesso ritenuti incompatibili. Lacan può apparire così come un punto di riferimento irrinunciabile anche per coloro che non condividano aspetti della sua teoria o della sua tecnica, che vengono in questo modo posti in condizione d’interagire con punti di vista filosofici diversi.

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Per una sovrana utopia, la rivoluzione

Per una sovrana utopia, la rivoluzione

Siamo forti e abbiamo sconfitto molti popoli / e costruito

grandi città / aspettiamo che questo male muoia /

restiamo nelle case / e tutti insieme vinciamo. 

Eracleonte da Gela (233 a.c.)

Perché ogni epoca sogna la successiva,

ma sognando urge al risveglio.

Walter Benjamin

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di Antonino Contiliano

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La rivoluzione politica di classe, per una società universale senza classi, non è meno astrazione e sovrana utopia della corrispondente universalità scientifica e sperimentalità; ed è tale che insieme richiede anche capacità di astrazione dalle proprie identità. L’astrazione è potenza complessa, azione e forma organizzativa che attiene sia alla conoscenza che alla pratica, e non meno all’immaginazione produttiva che l’alimenta in vista di mondi umani possibili ugualitari. L’utopia è facoltà che appartiene ai domini del vivere umano, ma nel prospettare le trasformazioni di cui si fa carico implica, comunque, il rapportarsi con le cose, gli altri e le esigenze soggettive e collettive che coesistono e si intrecciano in qualunque contesto storico dato. Non manca di dover fare i conti con le stesse relative stratificazioni sociali (e d’altro genere) che connotano individui e collettività, nonché con le stesse possibili coerenze o incoerenze che incontra nel suo cammino. La realtà, cioè, in cui i soggetti generano istituzioni atte a realizzare le istanze etico-politiche comuni quanto quelle individuali entro modelli via via messi in pratica, e non senza attriti di atteggiamenti disparati fra posizioni impersonali e personali, legittimi e illegittimi, neutrali e imparziali.

A nessuno (singolo, o collettività) dovrebbe venire in mente di chiudere in soffitta l’utopia come istanza che, in un mondo stracolmo di diseguaglianze insopportabili, spinge verso l’uguaglianza sociale, le cose e le azioni necessarie al suo divenire-realizzazione. Ed è certo che il mondo delle diseguaglianze del modello neoliberista e ordoliberista non naviga nella direzione di una comunità umana d’uguali e liberi possibile, che, pur diversi nel pensiero e nelle idee, liberamente associati, all’unanimità decidano di inventare e sperimentare istituzioni a ciò necessarie (quali possono essere quelle di un divenire-mondo-comunista). Perché a fronte del potere sovrano delle altre logiche etiche, sociali, politiche che da tempo, già istituzionalizzate e in servizio, impongono discipline e controlli antidemocratici e classisti, la ratio dell’utopia rivoluzionaria non ha meno coerenza e possibilità di realizzazione.

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Il “Sempre” e il “di là di quella” del pensiero leopardiano

Ed è probabile che qui ci sia

qualche segreto da scoprine.

C. S. Peirce

Gaspare Polizzi e Giuseppe Mussardo, L’infinita scienza di Leopardi, Scienza Express, Trieste, 2019

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di Antonino Contiliano

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Il mondo speculativo, il retroterra scientifico-culturale e la stessa produzione poetica (complessiva) di Giacomo Leopardi non finiscono mai di incuriosire (del resto la curiosità è una passione della conoscenza e non ha limiti). Questa volta, la passione esploratrice prende corpo visibile nell’opera L’infinita scienza di Leopardi (Scienza Express, Trieste, 2019). Del volume sono coautori Gaspare Polizzi e Giuseppe Mussardo. G. Polizzi, leopardista (all’attivo già altri lavori pubblicati su Leopardi), storico della filosofia e della scienza. G. Mussardo è prof. di fisica teorica alla “SISSA” – Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati – di Trieste. Di questo fortunato incontro cooperativo dei due sulla formazione e l’opera di Leopardi nella postfazione del libro (p. 188) ne parla Andrea Gambassi, altro “fisico teorico e direttore del Laboratorio interdisciplinare per le scienze naturali e umanistiche della Sissa”. Polizzi e Mussardo, mettendo in parallelo il tempo delle letture (antiche e moderne) e quello delle riflessioni evolutive del pensiero filosofico-poetico del Recanatese, seguono il concetto di infinito e di indefinito.

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ESERCIZI DI LETTURA n.6: Lo Zarathustra crocefisso. I seminari di C. G. Jung su “Lo Zarathustra” di Nietzsche

Lo Zarathustra crocefisso. I seminari di C. G. Jung su “Lo Zarathustra” di Nietzsche

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di Gustavo Micheletti

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Nel biennio 1934-35 C. G. Jung tenne, nei pressi di Zurigo e dopo qualche sollecitazione da parte di alcuni suoi allievi ed estimatori, un seminario su “Lo Zarathustra di Nietzsche”. Tra tutte le opere di Jung – sia scritte che trascritte in seguito, sia pubblicate in vita che postume – questa ci pare senza dubbio una delle più dense e significative, e non solo perché vi si legge “Lo Zarathustra” da una prospettiva nuova, che offre un contributo critico assolutamente originale e comunque molto diverso da quelli usciti in epoche diverse dall’ambito accademico-universitario, ma soprattutto perché le numerose digressioni su tematiche religiose, filosofiche e psicologiche fanno di questo testo (recentemente tradotto in italiano per Bollati Boringhieri da Alessandro Croce, in un volume curato da James L. Jarrett) uno dei più preziosi per la stessa comprensione del pensiero di Jung.

Oltre alle diverse letture psicologiche e allegoriche delle stesse allegorie nietzschiane, si possono trovare infatti, nel testo tratto da questi seminari, riflessioni a ruota libera che spaziano dal tema della solitudine di Dio fino al tema, presente anche in molti altri scritti junghiani, del rapporto tra Dio e il Demonio, o tra Dio e il male; tra il Sé, tra le sue proiezioni e i suoi simboli, e l’ombra; tra lo Spirito, la mente e il corpo; tra la Fede e la Grazia. I concetti di Enantiodromia, di Anima e di Animus, di coscienza e inconscio vengono approfonditi, e sebbene non risultino sempre più chiari di quanto non lo fossero prima della lettura risultano alla fine meno esposti a schematizzazioni semplicistiche.

Volendo qui fornire solo un breve riassunto e qualche esempio della fecondità e originalità delle divagazioni junghiane su questi ed altri argomenti, ci limiteremo a esaminare alcuni temi che ci sono parsi particolarmente indicativi e illuminanti per comprendere lo spessore psicologico e filosofico di questi seminari: quello del rapporto tra Zarathustra e Cristo, quello dell’ “Enantiodromia” e poi il “Sé”, con le sue relative proiezioni.

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Il progresso astratto dell’arte. Qualche considerazione su Astrattismo, entropia e progresso (II parte)

Il progresso astratto dell’arte. Qualche considerazione su Astrattismo, entropia e progresso

Nescis quid Vesper serus vehat

(Virgilio, Georgiche)

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di Gustavo Micheletti

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Le successioni di temi e idee melodiche, così come quelle di strutture di segni, sono alternate a variazioni non dissimili da quelle che caratterizzano l’uso di una parola all’interno di una lingua: anche in questo contesto gli usi possono succedersi in modi identici o poco prevedibili, evocare iterazioni convenzionali o attuare soluzioni particolarmente evocative sotto il profilo retorico o poetico.

Dall’inizio del Novecento anche le forme e i colori si succedono sulle tele dei pittori con ritmi diversi, assumendo complessivamente forme significative alla luce di codici sempre più ridotti, probabilmente perché una tale riduzione è funzionale ad una maggiore perspicuità visiva, la quale a sua volta è in grado di rendere più icastico e perentorio l’orizzonte entro cui si svolge la combinatoria degli elementi in gioco. Per questo la vocazione grafica di questo tipo di arte pare inscindibile dalla sua propensione all’astrazione, e forse è proprio per compensare e integrare questa propensione che il colore interviene come contrappunto della narrazione grafica.

Ci sono tuttavia tanti diversi modi d’astrarre. Secondo Tomás Maldonado c’è ad esempio una profonda differenza tra l’astrattismo costruttivo e l’astrattismo genericamente inteso, nel senso che “le opere di artisti come Malévic, Mondrian e Albers sono diverse, per esempio, da quelle di Pollock”.1

L’incremento dell’entropia che caratterizza gran parte dell’arte contemporanea, e di cui Pollock costituisce il caso più esemplare, è dovuto secondo Arnheim a due specie del tutto diverse di effetti: “da un lato, un impulso verso la semplicità, che promuoverà la regolarità e l’abbassamento del livello dell’ordine; dall’altro, il dissolvimento disordinato. Ambedue conducono alla riduzione di tensione”.2 Se Pollock può essere considerato il prototipo di questo secondo caso, Mondrian o Arp possono essere considerati validi modelli del primo.

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Il progresso astratto dell’arte. Qualche considerazione su Astrattismo, entropia e progresso (I parte)

Il progresso astratto dell’arte. Qualche considerazione su Astrattismo, entropia e progresso

Nescis quid Vesper serus vehat

(Virgilio, Georgiche)

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di Gustavo Micheletti
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Ernst Gombrich si domanda come sia stato possibile giungere a concepire la vita artistica dei nostri tempi sotto il segno dell’idea di progresso. Lo storico viennese Hans Tietze, si chiede a sua volta come sia possibile che un linguaggio artistico nato appena una dozzina di anni prima possa essere considerato superato. Alla fine degli anni venti del Novecento, lo stesso Tietze individua nello storicismo – termine che usa grosso modo nella stessa accezione con cui lo usa Popper – l’origine di questa inarrestabile propensione.1

Nel Postscriptum alla sua Storia dell’arte, è sempre Gombrich a far osservare come gli artisti rappresentino ormai, secondo l’opinione di una vasta minoranza, “l’avanguardia del futuro”, tanto che rischierebbe di apparire ridicolo chiunque non dovesse apprezzarli a dovere.2 Questa concezione dell’avanguardia artistica risulta in effetti leggibile come un’ultima conseguenza di quella concezione storicista che, se applicata all’arte, può risultare, come anche Max Weber aveva avvertito, decisamente fuorviante, perché se “l’attività scientifica è inserita nel corso del progresso”, viceversa nessun progresso “si attua nel campo dell’arte”.3

Denys Riout fa tuttavia notare che la logica che presiede alla pittura astratta contemporanea, nella concezione che ne ha per esempio un rappresentativo esponente come Reinhardt, implica almeno un’altra fede oltre a quella storicista, e cioè quella, nata con il decadentismo e l’estetismo, nell’autonomia dell’arte e del suo impianto formale.4

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AVVICINANDOMI A UN LIBRO CHE SENTO AFFINE. Cosimo Marco Mazzoni, “Quale dignità. Il lungo viaggio di un’idea”

Cosimo Marco Mazzoni, Quale dignità. Il lungo viaggio di un’idea, Firenze, Olschki («Ambienti del diritto», 1), 2019, VII-128 pp., 18 euro.

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di Luciano Curreri (ULiège)
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Aperto e suggestivo il titolo di una nuova collana di Olschki: «Ambienti del diritto». In effetti, in molti ambienti, circola ancora l’idea che il diritto sia chiuso nel suo, di ambiente, e a doppia mandata. Quando invece il diritto, e non dovrei certo dirlo io, fa parte a pieno titolo, e dalle sue origini quanto meno, di una vasta storia delle idee (o della cultura) che di ambienti ne infila uno dopo l’altro: dalla filosofia, morale e non, alla psicologia, dall’antropologia culturale alla sociologia politica, dalla teologia etica alla critica artistica e letteraria a un tempo, dalle filosofie dell’educazione, dei diritti alle politiche comunitarie europee, dalla letteratura alla saggistica più avvertita et j’en passe.

Ecco, tra archetipi dei diritti umani e visioni giusnaturaliste, il diritto si dà e si dice nella realtà tutta, in seno a quel «lungo viaggio di un’idea» che non proprio a caso è evocato nel sottotitolo del libro di Cosimo Marco Mazzoni; libro cui provo ad avvicinarmi, pur non avendo particolari competenze, perché lo sento affine.

Due, comunque, i numi tutelari: Giovanni Pico della Mirandola e Immanuel Kant, presenti dall’inizio alla fine del libro e veri fautori, tra Umanesimo e Modernità, del principio della dignità umana. Quasi tutto il discorso di Mazzoni ruota attorno al pensiero di questi grandi personaggi. E solo per fare un esempio e accennare così a un altro concetto su cui ritorneremo in chiusura, direi che non è un caso che Pico introduca il discorso sulla «responsabilità», tesa a chiarire il senso della parola «dignità». Ma proviamo a procedere con ordine, perché il rischio di una recensione a un libro molto denso (e pure molto chiaro) è proprio questo: inanellare subito troppi concetti-parole intorno alla «dignità», con cui molti discorsi quotidiani (quello cattolico per esempio e per tacere del politico) vanno a nozze, infilandola dappertutto.

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Gustavo Micheletti, “La sventura e la grazia”

[Proponiamo l’Introduzione al volume La sventura e la grazia, appena uscito per i tipi di Asterios Editore, ad opera di Gustavo Micheletti. (f.s.)].

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Gustavo Micheletti, La sventura e la grazia. Come credere in un Dio assente. Un saggio su Simone Weil, Asterios Editore, 2019, pp.302, € 29,00

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di Gustavo Micheletti
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Il pensiero di Simone Weil ha un andamento musicale. Specialmente nei Quaderni, lo sviluppo della sua riflessione filosofica procede attraverso la proposta di temi e di variazioni in cui riaffiorano tracce di temi precedenti, in un succedersi di riproposizioni che delle sonate, dei concerti e delle sinfonie classiche simulano vagamente la struttura.1 Quest’aspetto diviene a poco a poco così evidente e significativo da non poterne prescinderne quando ci si accinge a scrivere l’ennesimo saggio su di lei. Di qui la scelta di procedere a nostra volta in maniera musicale, lasciando riaffiorare a più riprese gli stessi problemi e gli stessi argomenti all’interno di diverse strutture tematiche e problematiche. Così, ad esempio, l’idea centrale del libro, quella secondo cui il Dio in cui la Weil crede è un Dio assente, verrà più volte ripresa e modulata in relazione sia alle sue diverse implicazioni sia alle concezioni di quei pensatori che possono averla anche solo in parte condivisa.

Ci sono echi di molti pensatori <<classici>> e di alcuni <<santi>> nell’opera di Simone Weil: in ordine sparso, potremmo menzionare Platone, S. Agostino, S. Francesco, S. Caterina da Siena, S. Giovanni della Croce, Cartesio, Pascal, Spinoza, Kant, Hegel, Marx, oltre, naturalmente, ad Alain, forse il principale tra i suoi maestri diretti. Tutte queste influenze danno vita a una sintesi originale, che in uno stile di pensiero rigoroso e schietto nulla concede alla retorica, al sentimentalismo e all’approssimazione.

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SUL TAMBURO n.62: Stefano Petruccioli, “I miglioratori del mondo. Utopia e democrazia tra letteratura, fumetto, filosofia”

Stefano Petruccioli, I miglioratori del mondo. Utopia e democrazia tra letteratura, fumetto, filosofia, Bergamo, Moretti & Vitali, 2017

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di Giuseppe Panella

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Prima di tutto bisogna chiedersi chi siano “i miglioratori del mondo”. Sono coloro i quali aspirano, in realtà, più che a migliorarlo e a renderlo più adeguato alle esigenze umane, a cambiare il mondo in profondità, a creare un nuovo modello di Uomo, a rendere la vita perfetta e agibile per sempre e non solo per il limitato orizzonte di ogni individuo che vive nel presente. “I filosofi finora si sono limitati a interpretare il mondo, si tratta però di cambiarlo” – hanno scritto Karl Marx e Friedrich Engels nella undicesima delle loro Tesi su Feuerbach. Il fatto è che per rendere la realtà umana abitabile e gestibile per tutti, per portare la felicità sulla Terra, per permettere al mondo di essere ordinato, confortevole e compiutamente trasformato, libero dagli impacci della Storia e dalle angosce della mancanza di libertà e dell’impossibilità di sopravvivere senza stenti e sofferenze, quello stesso mondo deve essere distrutto e il nuovo sorgere sulle macerie del vecchio. Occorre distruggere il presente per organizzare il futuro, è necessario cancellare il passato per preparare in maniera adeguata l’avvenire dell’umanità. Si tratta di realizzare in modo compiuto e onorevole l’utopia che permetterà di cancellare diseguaglianza e dolore e instaurare il regno della libertà e dell’uguaglianza umana. Questo può compare perdite umane e dolore e sofferenza a chi si oppone al cambiamento o la fine di intere generazioni ed epoche della vicenda umana: c’è da pagare un prezzo di illibertà e di sopraffazione per una libertà futura mai conosciuta prima e per la felicità possibile da ottenere per tutti al costo dell’infelicità di alcuni. Ogni rivoluzione, ogni trasformazione storica, ogni cambiamento epocale comporta questo necessariamente. Ma quello che bisogna chiedersi è se questa palingenesi, questa “grande trasformazione” avverrà da davvero. I “miglioratori” miglioreranno davvero il mondo?

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Walter Benjamin: uno sguardo al futuro. Saggio di Marco Fagioli

Walter Benjamin: uno sguardo al futuro. L’edizione critica di L’opera d’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica

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di Marco Fagioli

 L’edizione critica e sinottica delle cinque versioni di L’opera d’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica, a cura di Salvatore Cariati, Vincenzo Cicero e Luciano Tripepi (testi a fronte, direttore Giovanni Reale, Bompiani, Firenze-Milano 2017) rappresenta senza dubbio l’episodio più rilevante della critica benjaminiana in Italia, dopo le due diverse edizioni delle Opere presso Einaudi.

In Italia L’opera d’arte (Kunstwerkaufsatz), dopo la sua apparizione nel 1966, nella traduzione di Enrico Filippini con la prefazione “storica” di Cesare Cases, e il diverso titolo di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, era uscita nelle sue diverse redazioni nel 2004 e 2006, a cura di Enrico Ganni, sempre nella versione Filippini; nel 2011 ancora Filippini, a cura di Francesco Valagussa con un saggio di Massimo Cacciari, nel 2012 tutte e tre le versioni (1936-1939) nella traduzione di M. Baldi per la cura di Fabrizio Desideri, nel 2012 la traduzione di R. Rizzo a cura di F. Ferrari, ancora per la prima stesura dattiloscritta (1935-36), a cura di A. Pinotti e A. Somaini, la seconda versione (1936) tradotta da Giulio Schiavoni e infine la prima versione nel 2016 a cura di M. Montanelli e M. Palma.

La letteratura critica sul libro di Benjamin, stando alla bibliografia riportata nel volume, elenca ottanta titoli, senza contare la miriade di recensioni e articoli apparsi in giornali e riviste. L’opera d’arte è stato dunque lo scritto di Benjamin più studiato in Italia e nella storia della sua critica si può definire il succedersi delle diverse interpretazioni.

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“Con i soviet dei Kom-futy, ancora…”. Saggio di Antonino Contiliano

Battete in piazza il calpestío delle rivolte!

/…/ Nostre armi sono le nostre canzoni. /…/

Vedete, il cielo s’annoia di stelle! /…/

Majakovskij, La nostra marcia

Non si tratta di conservare il passato,

ma di realizzare le sue speranze.

M. Horkheimer, T.W. Adorno

(Dialettica dell’Illuminismo)

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di Antonino Contiliano

Nel tempo delle bancherotte del capitalismo finanziario-simbolico e delle sue crisi sempre più ravvicinate (che il linguaggio del sistema considera come processo di rinnovamento permanente della propria naturalezza e eternità), è possibile rinunciare al linguaggio della ricerca che, storico-scientifica, relaziona la politica con l’arte, con la poesia, e i loro nessi ritmici con la speranza e l’utopia che il futuro non nega?

Se ogni individuo come ogni epoca non è giudicabile secondo l’immagine che ha di sé e non dimentica il futuro del passato rimasto immemore (un fuoco sotto la cenere come i sogni del mondo onirico), allora non c’è forma capitalistica che possa arrestare il futuro.

Così il primo terreno di scontro con il linguaggio dell’odierna forma cognitivo-immateriale del capitalismo contemporaneo potrebbe essere addirittura quello di ricordargli che la sua durata è smentita scientificamente dalla pluralità dei tempi (la teoria e la sperimentazione quanto-relativistica). Una pluralità dei tempi che trova anche il suo modo d’essere nella storia delle culture diverse e delle categorie verbali messe in uso, come per esempio il privilegiare l’“aspettualità” dei tempi verbali; le forme cioè perfettive, imperfettive e iterative (progressive, abituali) che maggiormente danno risalto all’azione. Qui non è il tempo assoluto della misura del valore astratto-capitalistico che conta ma l’azione, l’azione temporale che i soggetti vogliono significare con quella determinata idea-immagine (aspetto). E i soggetti hanno una singolarità plurale che prima di tutto obbedisce a differenti modalità di soggettivare la libertà e l’eguaglianza non solo nei rapporti con il tempo e i suoi ritmi/intervalli – “tempuscoli” – ineguali quanto differenziali (ritmo non è misura di ripetizione periodica fissa), ma anche con il blocco spazio-tempo dell’insieme delle relazioni socio-politiche dinamiche e instabili, asintotiche e aggrovigliate (pieghe frattalizzate).

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Punctum… ozio magi-stralis su “Il femminile e l’immaginario”

opera-mralloPunctum… ozio magi-stralis su “Il femminile e l’immaginario”*

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di Antonino Contiliano

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Non mi amo così come sono,

ma sono così come mi amo.

Narciso

L’identità gender, in ogni immaginario sociale e individuale, ha ragione d’essere solo nei modelli (l’ordine simbolico proprio ad ogni contesto storico-temporale quanto atemporale) delle soggettivazioni. Processi che, come i vari prototipi di macchine (o altro) prodotti dell’industria nei/dai contesti storici e contingenti – innescati dall’industria materiale e/o immateriale –, non sfuggono alla modellistica della situazione in corso d’opera della produzione e riproduzione (sempre rivoluzionaria, K. Marx). Sono i modelli cioè che nel loro divenire amalgamano la biologia naturale, le norme sociali e l’educazione, la cultura e il potere politico di classe vs le “minoranze” (specie il bio-potere della bio-politica della realtà a noi contemporanea). Il maschile e il femminile, così, al di fuori della relazione dei termini e delle connessioni con le extra-contiguità dei casi, non hanno sostanzialità alcuna. Cosa che, crediamo, può essere seguita scorrendo l’ordine schematico appresso fotogrammato:

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L’arte della nausea. Stefano Scrima, “Nauseati”

stefano-scrima-nauseati“La vita mi fotte, non ce la intendiamo. Devo prenderla a piccole dosi, non tutta assieme” (Charles Bukovski, Il capitano è fuori a pranzo, 1998)

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Stefano Scrima, Nauseati, Stampa Alternativa, 2016, pp. 96, € 12,00

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di Stefano Lanuzza

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Cos’è la nausea esistenziale, quella provocata dall’inadattabilità al contesto ‘umano-troppo-umano’ e al mondo? E quanti nomi può assumere simile sentimento declinato anche come disgusto, schifo, fastidio, noia, ribrezzo, repulsione?… Al pari del nichilismo, che può essere attivo contro lo stato di cose oppure passivo e inerte, ripiegato su se stesso, senza conoscenza fuori di sé o autoreferenziale, c’è una nausea come ‘pensiero forte’ o alacre metodo critico: avanzato, per esempio, da Erich Fromm avverso al consumismo che “crea un clima di superfluità, di eccesso e nausea” e coniuga “la nausea di avere” con la nausea di essere (cfr. Superfluo e nausea della nostra società, 1971). C’è inoltre la nausea che insidia l’esistenza e ne denigra il senso producendo quel vuoto disperante percepito e, nello stesso tempo, possibilmente esorcizzato dalla filosofia, dalla letteratura, dall’arte.

Dopo Esistere forte. Ha senso esistere?, libro del 2013 incentrato su Sartre Camus Gide, cruciale triade filosofico-letteraria novecentesca, Stefano Scrima, giovane filosofo ricco di talento letterario, completa una coerente dilogia con l’opera neoesistenzialista Nauseati (Viterbo, Stampa Alternativa, 2016, pp. 96, € 12,00), florilegio con una cospicua serie di protagonisti, maestri umbratili di un’‘arte della nausea’ che, mentre “sentono mancare un senso all’esistenza”, fanno della loro condizione apparentemente negativa uno strumento artistico produttivo di bellezza.

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Sulla giustificazione (rechtfertigung)

sulla-giustificazioneSulla giustificazione (rechtfertigung)

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di Domenico Carosso

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1.

Intanto, ecco quel che scrive Wlodek Goldkorn ne Il bambino nella neve :

«Noi, i viventi, dobbiamo essere giudicati per le nostre azioni, non per il passato dei nostri genitori, o per il modo in cui morirono i nostri nonni, le nostre zie, i nostri cugini. Nella capacità di rivolta e nel discernimento sta l’essenza del nostro essere nel mondo».

W. Glodkorn riprende la parola ebraica “Tikkun”, che significa riparazione, per lui il mondo è e rimarrà senza riparazione, per la Arendt e per M. Walser le cose si pongono diversamente, nonostante che per entrambi il male trionfi, nell’epoca passata, presente e futura, come banalità del male.

La giustificazione è però, per essere corretti e precisi, quella che nel mondo tedesco segnò la separazione dalla chiesa cattolica dei cristiani protestanti, che “protestarono”, tra l’altro, per la vendita delle indulgenze. I protestanti lavorarono da allora in poi, a cogliere da san Paolo, dalla sua lettera ai Romani, il problema della giustificazione non a partire dalle opere, ma per la bontà e bellezza del sacrificio di Cristo. Per loro siamo giustificati per il sangue e il nome di Cristo…

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IL TERZO SGUARDO n.52: Michel de Certeau, “Utopie vocali. Dialoghi con Paolo Fabbri e William J. Samarin”

Michel de Certeau, Utopie vocaliMichel de Certeau, Utopie vocali. Dialoghi con Paolo Fabbri e William J. Samarin, a cura di Lucia Amara, Milano, Mimesis, 2015

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di Giuseppe Panella*

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Sulla figura di Michel de Certeau, gesuita studioso di psicoanalisi lacaniana, del linguaggio dei mistici e dei rapporti tra rappresentazione sociale della cultura religiosa, manca a tutt’oggi uno studio che ne inquadri le coordinate filosofiche più generali. Erudito apprezzato da Michel Foucault e teorico del linguaggio amato da Lacan, de Certeau, figura di indubbia poliedricità umana e sapienziale, ha spaziato come pochi tra linguistica, storia della cultura, poesia e cinema.

Questi dialoghi sulla glossolalia rappresentano un’incursione tutt’altro che occasionale del colto gesuita nel mondo della semantica linguistica. Nelle riflessioni superstiti dello storico francese, in un convegno tra happy few svoltesi a Roma nel 1977 in un serrato dialogo e confronto con Paolo Fabbri e William Samarin (dove, tuttavia, predominava il più intenso rigore dialettico di de Certeau) e restituite nel loro dettaglio dalla pazienza di Lucia Amara attraverso un meticoloso lavoro di archivio e di sbobinatura, il tema della glossolalia emerge con prepotenza in un insieme apparentemente caotico di annotazioni sparse:

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Thomas Piketty, “Il capitale nel XXI secolo”

Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secoloThomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, pp. 946, euro 22,00.

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di Andrea B. Nardi

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Thomas Piketty è l’accademico francese cui vanno almeno due mirabili meriti: il primo, ovviamente, scientifico, per il colossale studio sul ruolo del capitale finanziario dall’Ottocento ai giorni nostri; il secondo, invece, editoriale. Egli infatti ha inconsapevolmente scardinato, direi: terremotato, le abitudini commerciali dei nostri pessimi editori. Per la prima volta da decenni, viene proposto al grande pubblico – benché dubito fortemente che tutti i suoi commentatori giornalistici lo abbiano letto per intero (esperienza, vi assicuro, non lieve) – un testo dal più profondo rigore storico, sociale, economico, in luogo di tutti gli pseudo saggi di sedicenti esperti, che ingombrano gli scaffali dei librai con argomenti, teorie e conclusioni totalmente campate in aria, senza alcuna referenza verificata, senza nessuna prova a latere, privi d’ogni elementare sostegno documentale.

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I LIBRI DEGLI ALTRI n.108: Salvate (almeno) la faccia. Guido Guidi Guerrera, “Avatar Beauty Project”

Guido Guidi Guerrera, Avatar Beauty ProjectSalvate (almeno) la faccia. Guido Guidi Guerrera, Avatar Beauty Project, Baiso (Reggio Emilia), Verdechiaro Edizioni, 2013

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di Giuseppe Panella

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La fisiognomica è un’arte antica e che nasce dallo sviluppo della riflessione filosofica sul rapporto tra corpo e anima. I tratti del volto (soprattutto il riflesso dello sguardo e il taglio della bocca) sono tra le forme espressive che caratterizzano il corpo umano e lo rendono unico e indistinguibile rispetto a quello di tutti gli altri esseri umani.

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Diego Fusaro, “Il futuro è nostro – Filosofia dell’azione”

Diego Fusaro, Il futuro è nostroDiego Fusaro, Il futuro è nostro – Filosofia dell’azione, Bompiani 2014, pp. 614, € 15,00.

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di Andrea B. Nardi

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Questo saggio di Diego Fusaro potrebbe essere destinato a diventare uno dei libri più significativi della nostra epoca, e – ce lo auspichiamo – uno dei più influenti. C’è qui, finalmente, la visione della società migliore, la società liberata dalle pastoie concettuali cui è stata perversamente assoggettata tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, le stesse pastoie responsabili d’aver distrutto quei principi democratici e civili con tanta fatica raggiunti in millenni di storia umana. Oggi non solo ci stanno strappando via le conquiste politiche e morali della modernità, ma noi stessi contribuiamo a buttarle nella spazzatura senza reagire, rassegnati alla nostra presunta impossibilità di ribellarci ai nuovi feudatari del mondo. Siamo ridiventati servi della gleba senza neppure essercene accorti.

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Aldo Pardi, “Vertigini. Scritture della rivoluzione”

Aldo Pardi, Vertigini. Scritture della rivoluzioneAldo Pardi, Vertigini. Scritture della rivoluzione, Firenze, Editrice Clinamen, p. 283, 2014

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di Silverio Zanobetti

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Questo lavoro sul concetto-immagine di “rivoluzione” è denso, compatto, sobrio come gli ultimi lavori di Aldo Pardi. Un testo in cui ritrovo la sobrietà militante e rigorosa che già avevo trovato nei libri precedenti. Deleuze, a cui è dedicato un capitolo, parla non a caso di sperimentazione come condizione del vero pensare ed invita sempre alla sobrietà nella sperimentazione e questo testo ne è un esempio di una potenza vertiginosa.

Al di là di certe posizioni discutibili (ma ampiamente motivate) per la loro durezza (su Gramsci, ad esempio) la coerenza e il rigore teorico-politico con cui Pardi persegue la sua ricerca è evidente laddove si colga la continuità con i lavori precedenti. Ruolo essenziale tornano ad avere i concetti di “produzione” e “conflitto” che «sono la porta per arrivare a codificare un concetto di “trasformazione” capace di rendere la produzione di teoria un’esperienza di liberazione»[1].

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DISPOSTI ALL’UBBIDIENZA. Fabio Ciaramelli – Ugo Maria Ulivieri, “Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa”

Fabio Ciaramelli – Ugo Maria Ulivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressaDISPOSTI ALL’UBBIDIENZA. Fabio Ciaramelli – Ugo Maria Ulivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa, Milano, Mimesis, 2013

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di Giuseppe Panella

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L’obbedienza è una virtù, come lungamente ha sostenuto una tradizione di origine religiosa che parte con i Padri della Chiesa cristiana o è semplicemente l’”altra faccia” dell’ipocrisia, della pigrizia mentale e, in particolar modo, della mancanza di desiderio vitale? L’obbedienza è un fattore positivo della dinamica sociale in quanto permette alle strutture statuali di sopravvivere e operare proficuamente oppure è soltanto il nome che ha preso, in epoca moderna, la disposizione dell’eterno consenso umano all’oppressione tirannica? In che cosa consiste la “servitù volontaria”?

E’ quanto si chiedono Fabio Ciaramelli e Ugo Maria Ulivieri in un saggio denso e incisivo, ben fondato filologicamente e pieno soprattutto di inquietanti interrogativi.

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La passione del “noi” e il conflitto, il mondo di Giorgio Gaber. Due parole sul saggio del prof. Claudius Messner

coper.gaber.jpg.2Sono un uomo che ci crede ancora…sono malato

di conoscenza, di voglia di cambiare le cose…

Forse è da lì che ciascuno di noi dovrebbe

ripartire, dall’individuo e dalle sue contraddizioni.

Giorgio Gaber (1984/1998)

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 La passione del “noi” e il conflitto, il mondo di Giorgio Gaber. Due parole sul saggio del prof. Claudius Messner

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di Antonino Contiliano

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La realtà, lasciò scritto Bertolt Brecht nei suoi pensieri sull’arte e la letteratura (oltre che nei suoi testi poetici e teatrali), ha più forme di quante ne possa inventare la poiesis dell’uomo, e di quelle che la “modernità”, in particolare, ha pensato e agito per creare un uomo e una società nuovi. Questi, specie nel Novecento, il “secolo breve”, ci ha provato (sintetizziamo e per approssimazione), fallendo, infatti, in modi diversi (ma il secolo breve avrebbe anche di che difendersi di fronte a un tribunale!). Sono le prove delle grandi guerre e delle rivoluzioni rosse, nere, gialle e bianche; quelle dei blocchi contrapposti e degli equilibri del terrore o quelle degli ecumenismi etico-religiosi fondamentalisti, e di segno diverso; quelle tecnologiche e ideologiche della prima e seconda (post-fordista) industrializzazione o quelle che fanno appello al diritto, ai diritti e ai diritti fondamentali, etc.

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Comunismo possibile. Utopia efficace

 L’amico aveva il padre che faceva il tubista, / e la vita se l’è sudata/ per consentire al figlio di essere quello che ora è. / […] / Nulla ricorda in lui il padre che faceva il tubista, / e la vita se l’è sudata / per consentirgli di essere quello che è. […] / È felice, e basta. / Va in televisione, fa l’addetto stampa, / e parla sempre con la stessa voce, dice sempre le stesse cose.  / Che i comunisti sono cattivi, e hanno rubato la gioventù / a chi solo perché aveva vent’anni credeva di essere eterno / e di poter cambiare il mondo. Che il mercato rende liberi, / e che un servo di scena può essere felice come il padrone, /  e che sa bene come i servi sono simili a quei cagnolini, / e che scodinzolano non appena annusano l’odore del biscotto.
Emilio Piccolo[1]

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di Antonino Contiliano
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Nel  “kuore dell’impero, mescolando memoria e desiderio” – scrive Stefano Docimo, Attualità o no del comunismo- TEMPI DI CATASTROFE, TEMPI INTERESSANTI (www.retididedalus.it, luglio, 2012)  –  è  possibile ancora pensare alle promesse del “comunismo” e alle sue premesse?

Il cuore dell’Impero, chiamando a testimoni l’Identificazione biometrica (Mario Lunetta, Ivi) e l’Algo-Mondo(Marco Palladini, Ivi), infatti non predilige “un’equa distribuzione dei pani, dei pesci & delle tecnologie” (Mario Lunetta) e “non conosce Algos, il gran dio dei dolori /che ci fa umani oltre le equazioni incognite, / anestetizza ogni operazione di vita” (Marco Palladini). E tuttavia sembra che le premesse per attivare il mondo delle promesse della democrazia comunista non manchino se i “tempi di catastrofe” dell’Impero appaiono “tempi interessanti”.

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Remainders n.10: Un modello di repubblica da non imitare. Tommaso Campanella, “La Città del Sole”

Tommaso Campanella, La Città del Sole, a cura di Massimo Baldini, Newton & Compton editori, 2002, pp.123, € 3,00

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di Francesco Sasso


Tommaso Campanella nasce in una povera famiglia di contadini calabresi nel 1568 a Stilo (in Calabria). Entra nell’ordine dei domenicali subendo processi e condanne per le proprie idee. Più volte torturato, per sopravvivere, finge d’esser pazzo. È condannato al carcere perpetuo dove scrive gran parte delle sue opere. È forse questa la vera pazzia: scrivere di filosofia dentro una cella umida, fredda e sporca. Campanella scrive per riepilogare il suo pensiero e per ripartire verso nuovi orizzonti. Scrive perché si sente investito di una missione politica e sociale. Chiuso in una cella, pensa e immagina.

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RASSEGNA SU POSTMODERNO E NUOVO REALISMO: Oggettività e realismo. Maurizio Ferraris, Carlo Sini, Umberto Eco, Nóema, Gianni Vattimo, Labont, Nude Review

RASSEGNA SU POSTMODERNO E NUOVO REALISMO (2011-2012)

a cura di Francesco Sasso

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Ci sono delle cose che non si possono dire

Di un Realismo Negativo

di Umberto Eco

Ho letto in vari siti di internet o in articoli di pagine culturali che sarei coinvolto nel lancio di un Nuovo Realismo, e mi chiedo di che si tratti, o almeno che cosa ci sia di nuovo (per quanto mi riguarda) in posizioni che sostengo almeno dagli anni Sessanta e che avevo esposte poi nel saggio Brevi cenni sull’Essere, del 1985.

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Riportare la filosofia alle origini. Giusy Randazzo, “La svolta filosofica. Consulenza filosofica e relazioni di aiuto”

Giusy Randazzo, La svolta filosofica. Consulenza filosofica e relazioni di aiuto, Cieffepi- Erga edizioni, 2008, pp.124, € 10,00

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di Francesco Sasso

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È cosa relativamente recente la netta differenziazione che oggi si fa tra filosofia, religione e psicologia, perché nell’antichità noi vediamo che molto sovente queste due discipline sono state affidate agli stessi uomini. Inoltre è indiscutibile che la civiltà greca fu la prima ad avere una vera e propria filosofia, e il genio di Aristotele e Platone fu per secoli l’ideale pietra di paragone per ogni altro sistema filosofico. E non solo: il filosofo greco era colui che metteva in pratica le sue riflessioni, mentre oggi pare che tra riflessione e prassi filosofica ci sia un abisso incolmabile.

Giusy Randazzo, insegnante di filosofia e in psicofilosofia, in La svolta filosofica. Consulenza filosofica e relazioni di aiuto analizza la deriva autoreferenziale della filosofia accademica e ci segnala un approccio altro: la filosofia pratica o, ancor meglio, il consulente filosofico.

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IL TERZO SGUARDO n.37: Estetica marxista. Emiliano Alessandroni, “La rivoluzione estetica di Antonio Gramsci e György Lukács”

Estetica marxista. Emiliano Alessandroni, La rivoluzione estetica di Antonio Gramsci e György Lukács, prefazione di Pietro Cataldi, Padova, Il Prato, 2011

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di Giuseppe Panella*

«Questo studio affronta in prevalenza questioni che sono state attuali negli anni Venti e Trenta in Europa, e poi di nuovo fra gli anni Cinquanta e i Sessanta; e che oggi sono tramontate dal dibattito. Resuscitarle implica il rischio di apparire anacronistici e sorpassati. In questa percezione si agita appunto il concetto di “egemonia”. Il velo di polvere caduto sulle grandi questioni teoriche qui considerate è infatti parte di una generale sconfitta delle prospettive di cambiamento presenti negli attori che le hanno animate. Questo studio ha il merito di rifiutare la sconfitta come dato irreversibile e di non scendere, d’altra parte, sul terreno dell’archeologia filologica. Tratta cose morte come se fossero vive. Se un solo giovane, leggendo, sarà interessato e coinvolto, avrà avuto ragione» (pp. 10-11).

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