Joao Guimaraes Rosa, Grande Sertao, Feltrinelli editore
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di Gustavo Micheletti
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Rispetto ad altri scrittori dell’America latina decisamente più letti e più famosi, come il brasiliano Jorge Amado o il columbiano Gabriel Garcia Marquez, a Joao Guimaraes Rosa mancano forse i requisiti favorevoli a un successo ampio e rapido. Rispetto al primo non ha per esempio lo stile da sceneggiatore ed il gusto per il giuoco folclorico, rispetto al secondo manca dell’accattivante combinazione di personaggi surreali con le evoluzioni fantastiche della storia. Tuttavia, nonostante l’assenza di tali requisiti, il suo maggiore romanzo, Grande Sertao, ha avuto la prerogativa di dare vita a due schiere di lettori: coloro che lo considerano uno dei più grandi romanzi del nostro secolo e quelli che non hanno superato, nella più ottimistica delle ipotesi, le prime settanta pagine.
Pur evocando i modelli narrativi tipici dell’epica classica, Grande Sertao rimane infatti – come ebbe a definirlo lo stesso Guimaraes Rosa – un libro “diverso e terribile, consolatore e strano. […] Gli uomini non muoiono, restano incantati”, disse lo stesso Guimaraes Rosa al termine del discorso che lo insediava all’accademia brasiliana delle lettere, poche ore prima della sua morte; e non si trattava di un pensiero solo occasionale: il restare incantati è infatti uno dei temi dominanti di tutta la sua opera, e in particolare di questo romanzo, dove si può rimanere incantati ad ogni riga. Grande Sertao è una storia di briganti, di uomini in guerra, di donne appena intraviste; è la storia di un ex bandito, Riobaldo, raccontata da lui stesso ad un dottore silenzioso in viaggio nel Sertao, che non chiede mai nulla e che nella traduzione italiana è chiamato Vossignoria.