Per un Dante dappertutto e fuori posto, encore que… Saggio di Luciano Curreri

L’Accademia delle Scienze di Torino, in collaborazione con l’Università degli Studi, il Museo Nazionale del Cinema, la Bibliomediateca RAI-Centro Documentazione «Dino Villani» e la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino sono all’origine di una rassegna di iniziative dantesche, intitolata Luce nova. Dante al cinema, che animerà il capoluogo piemontese sino alla fine del 2021.

Il venerdì 8 ottobre 2021, alle ore 17.00, all’Accademia delle Scienze di Torino, il Presidente della stessa, il Prof. Massimo MORI, e il dott. Sergio TOFFETTI, curatori delle iniziative, salutano e presentano la rassegna con:

Prof. Alessandro BARBERO (UPO, sede di Vercelli) che introduce due conferenze di:

– Prof. Luciano CURRERI (ULIEGE), Per un Dante dappertutto e fuori posto, encore que

Prof. Silvio ALOVISIO (UNITO), Il cinema all’inferno.

Qui sotto potete leggere l’intervento di Luciano Curreri, che risponde sostanzialmente alla sua parte di introduzione (paragrafi I-VII, note 1-30) per il dossier monografico, co-diretto da Curreri con Simone Starace, “E allor fu la mia vista più viva”. Il lungo Novecento di Dante al cinema e alla televisione*, di “Immagine – Note di storia del cinema”, n. 24, la cui uscita è prevista a fine 2021.

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GLOSSA n.5: cronache e facezie

Giovanni di Paolo Morelli (Firenze, 1371 – Firenze, 1444)  iniziò la stesura dei Ricordi nel 1393. Qui narra la storia della propria famiglia dalle origini (XII secolo) al 1411. Ricordi è una cronaca privata attraverso cui è possibile ricostruire le vicende fiorentine del tempo.

QUI puoi leggere Ricordi.

Bonaccorso Pitti (Firenze, 25 aprile 1354 – Firenze, 1430) scrive Cronica. In questo libro l’autore riferisce della sua avventurosa vita giovanile e dei suoi viaggi in gran parte del mondo allora conosciuto.

QUI puoi leggere Cronica in formato pdf

QUI puoi leggere Cronica in altri formati

QUI puoi leggere Cronica su Google libri

Arlotto Mainardi, detto il Piovano o Pievano Arlotto (Firenze, 25 dicembre 1396 – Firenze, 26 dicembre 1484), gran viaggiatore, parroco della chiesa di San Cresci a Macioli, molto noto ai suoi tempi come “Piovano” e come produttore seriale di burle e arguzie. Un anonimo scrittore ha registrato il tutto nel popolare Motti e facezie del Piovano Arlotto (cft. G. Folena (a cura di), Motti e facezie del Piovano Arlotto, Ricciardi, Milano-Napoli 1953

Qui potete scaricare il pdf di Scelta di facetie, motti, burle, et buffonerie del Piovano Arlotto e altri autori, Venezia 1595, su books.google.it.

f.s.

Altre puntate di 

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[Leggi tutti gli articoli di Francesco Sasso pubblicati su RETROGUARDIA 2.0]

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GLOSSA n.4: La biblioteca di Petrarca

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a cura di Francesco Sasso

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Petrarca acquistò nei suoi viaggi e trascrisse lui stesso o fece trascrivere da copisti molti libri classici latini e volgari. Nei suoi numerosi spostamenti andò alla ricerca di libri perduti e vi scovò spesso di assai rari (per esempio Cicerone). La sua biblioteca negli ultimi anni aveva raggiunto una consistenza notevole per il suo secolo: certamente superava il numero di duecento volumi (manoscritti). Poca cosa per noi contemporanei, tanto per l’epoca. Tra i titoli posseduti dal poeta dominavano i classici latini e i Padri della Chiesa. Il Nostro aveva promesso di regalare la sua ricca biblioteca alla Repubblica di Venezia in cambio di una casa sulla riva degli Schiavoni, ma alcuni anni dopo, trasferendosi a Padova, fece sì che la maggior parte dei codici da lui posseduti passassero alla biblioteca del signore di Padova; trasmigrarono poi a Pavia nel castello dei Visconti, da dove più tardi passarono in parte a Milano presso gli Sforza e in parte in Francia, nel castello di Blois. Oggi le biblioteche che posseggono codici del Petrarca sono: varie biblioteche milanesi, in primo luogo Ambrosiana e la Trivulziana, varie biblioteche francesi, la Biblioteca Apostolica Vaticana, la Biblioteca Marciana di Venezia, quella del Seminario di Padova, quella Palatina di Parma, varie biblioteche americane ecc.

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PER UN’ INTERPRETAZIONE LAICA DELL’ULISSE DANTESCO. Saggio di Bernardo Puleio

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di Bernardo Puleio 

 

Presso Malebolge,  nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno dantesco, si presenta una fiamma  biforcuta, che racchiude le anime di Ulisse e Diomede. Come spiega Virgilio(1):

[…] Là dentro si martira/ Ulisse e Diomede, e così insieme/ a la vendetta vanno come a l’ira;/ e dentro da la lor fiamma si geme/ l’agguato del caval che fè la porta/ onde uscì de’ Romani il gentil seme./ Piangevisi entro l’arte per che, morta,/ Deidamìa ancor si duol d’Achille,/ e del Palladio pena vi si porta.

L’incontro con Ulisse (2) « lo maggior corno de la fiamma antica » caratterizza, connotandolo di forti, eroiche e trasgressive suggestioni, il canto XXVI dell’Inferno.

L’eroe omerico espia la colpa dell’« agguato » del cavallo di Troia, che pure reca in sé, nell’ideologia dantesca, un elemento di provvidenzialità divina: la distruzione di Troia apre la porta, attraverso le pellegrinazioni di Enea, alla nascita del « gentil seme » dei Romani, il cui impero è voluto e prescelto da Dio (3).

L’arte di Ulisse appare colpa meritevole di dannazione ed emendazione eterna: forzare i segni della realtà (4) è un’opera di grave mistificazione, una specie di audacia sofistica, in grado di confondere ed occultare la ricerca della verità.

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“Il Milione” di Marco Polo

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Preso dal desiderio d’evadere dall’epoca in cui vivo, mi sono deciso ed ho letto Il Milione, edizione Eri 1982. Un singolare libro di geografia e di cronaca, che è poi un resoconto di viaggio, rivolto a descrivere terre, costumi, economia, compose Marco Polo (1254-1324), vissuto alla corte di Kublai-Khan dei Tartari, giunto fino alla Cina e all’India. L’opera fu scritta in lingua franco-veneta sulla base del racconto di Marco Polo, dal letterato Rustichello da Pisa, che si trovò insieme al mercante veneziano prigioniero dei Genovesi dopo la battaglia di Curzola (1298). Il manoscritto fu poi divulgato sotto il titolo Il Milione.

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Secretum di Francesco Petrarca

Secretum o, più esattamente, De Secreto conflictu curarum mearum (“Il segreto conflitto delle mie cure affannose”; ossia “L’intimo dramma della mia vita”), scritto a Vallachiusa nel 1343 e definitivamente ritoccato fra il 1353 e il 1358. Libro intenso ed organico in cui Petrarca ci parla delle sue contraddizioni e delle sue lotte intime.

In quest’opera sant’Agostino per tre giorni, in tre dialoghi, rimprovera al poeta il suo desiderio di gloria, di agi, di onori, la sua sensualità, il suo amore per Laura. Al colloquio assiste, silenziosa ma vigile, una donna: la Verità. Il Petrarca si difende con abilità, se pure con umiltà, ammette il suo errore, ma lascia intendere che si rende conto che non potrà mai rinunciare ai suoi affetti terreni.

L’opera in prosa latina, di straordinaria e acuta introspezione, rispecchia indubbiamente il pentimento del Petrarca per la sua vita non sempre irreprensibile, e il suo lento ravvedimento, iniziatosi nel 1333 dopo la prima lettura delle Confessioni di sant’Agostino e compiutosi nell’anno del Giubileo.

Scritto in un latino duttile e sciolto, elegante e insieme familiare. Consiglio di accompagnare la lettura di quest’opera con quella di sant’Agostino. Naturalmente, il libro del Petrarca è così ricco di humanitas e di artifici letterari che queste mie poche righe non riusciranno mai a restituire in pieno il valore dell’opera.

f.s.

[Francesco Petrarca, Secretum, Mursia, 1992, a cura di Enrico Fenzi, Pag. 419, lire 25.000]

Vida Nueva de Dante Alighieri

[Traduzione di José Daniel Henao Grisales ]

[QUI] potete leggere il testo italiano già pubblicato su Retroguardia.

Vida Nueva de Dante

De Francesco Sasso

La obra ha sido compuesta una vez ha muerto Beatriz. En ella el poeta recoge veinticuatro sonetos, cuatro canciones, una estancia y una balada. Las ha reunido con una prosa antes que nada directa, para explicar las circunstancias y los estados de ánimo, de aquel cuyas rimas habían nacido y nos dan la tierna historia de su amor por Beatriz.

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F. De Sanctis: La dissoluzione delle forme nella Divina Commedia

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amanuense-web: trascrivo da F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Totino, Einaudi, 1958, vol 1, p.201. (f.s.)

[…] Il concetto dantesco, lo spirito che alita per entro al suo mondo, è dunque la progressiva dissoluzione delle forme, un costante salire di carne a spirito, l’emancipazione della materia e del senso mediante l’espiazione e il dolore, la collisione tra il satanico e il divino, l’inferno e il paradiso, posta e sciolta. Omero trasporta gli dèi in terra e li materializza; Dante trasporta gli uomini nell’altro mondo e li spiritualizza. La materia vi è parvenza; lo spirito solo è; gli uomini sono ombre; i fatti umani si riproducono come fantasmi innanzi alla memoria; la terra stessa è una rimembranza che ti fluttua avanti come una visione; il reale, il presente è l’infinito spirito; tutto l’altro è “vanità che par persona”. Questo assottigliamento è progressivo: il velo si fa sempre più trasparente. L’Inferno è la sede della materia, il dominio della carne e del peccato; il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in presenza; la pena non modifica i caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre si continua nell’altro mondo e s’immobilizza in quelle anime incapaci di pentimento: peccato eterno, pena eterna. Nel Purgatorio cessano le tenebre e ricomparisce il sole, la luce dell’intelletto, lo spirito; il terreno è rimembranza penosa che il penitente si studia di cacciar via, e lo spirito sciogliendosi dal corporeo si avvia al compiuto possesso di sè, alla salvazione. Nel Paradiso l’umana persona scomparisce, e tutte le forme si sciolgono ed alzano nella luce; più si va su, e più questa gloriosa trasfigurazione s’idealizza, insino a che al cospetto di Dio, dell’assoluto spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento: […]

Vita Nuova di Dante Alighieri

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(con disgressione: dall’adolescenza a Ligabue) 

Ho letto ben due volte la Vita Nuova di Dante: la prima per motivi di studio all’università, la seconda per puro piacere personale.

L’opera è stata composta subito dopo la morte di Beatrice. In essa il poeta raccolse ventiquattro sonetti, quattro canzoni, una stanza e una ballata, le collegò con prose più che altro dirette a spiegare le circostanze e gli stati d’animo da cui quelle rime erano nate e ci diede così la tenera storia del suo amore per Beatrice.

Ci dice che non aveva ancora nove anni quando, vedendola per la prima volta, si sentì dominato da Amore; nove anni dopo la vide passare per via e tutto trepidante ne ricevette un virtuoso cenno di saluto. D’allora in poi tutta la sua gioia fu in quel saluto che lo inebria e lo solleva al più alto grado di felicità; non voleva però che gli altri lo intuissero, perciò fingeva di sospirare per altre donne, che gli facevano da <<schermo de la veritade>> (tra parentesi, chi di voi, adolescente, non ha mai usato un’uguale tattica in amore?).
E tanto insiste nel corteggiamento ad una di esse (altra digressione: secondo me a Dante non dispiaceva poi tanto far finta di interessarsi ad altre donne), che voci pettegole si levarono contro di lui infamandolo come persona sensuale, dedica ai facili amori.
Giungono codeste chiacchiere a Beatrice che lo priva del saluto: il dolore del poeta fu terribile, non osò più rivolgere a lei i suoi versi, ma, indirizzandosi alle donne gentili, incominciò a tessere le più alte lodi di lei, trasfigurata già in creatura celeste: i famosi sonetti Tanto gentile e Vede perfettamente sono frutto di questa nuova poesia, originale e perfetta, quale nessun stilnovista aveva composto.

Naturalmente non vi racconto tutta la storia, ché non desidero togliere al lettore il gusto della scoperta dell’opera dantesca (per esempio, le pagine in cui Dante sta per svenire davanti a Beatrice e si appoggia alla parete, tale è l’emozione, ma ella, incredula della sua sincerità, ride, con le altre donne, di lui. E’ l’episodio del <<gabbo>>, una tristezza da non ridire).

Ammalatosi, Dante si fermò sempre più sul pensiero della fragilità umana e fu preso dall’angoscioso presentimento della morte di Beatrice: ciò avvenne realmente poco dopo e riempì di lutto non solo il poeta, ma tutta la città. Mentre così egli si consumava nel dolore, lo vide Donna gentile, che cercò di consolarlo (e qui io vi rinvio alla canzone di Ligabue Certe notti: “Certe notti c’hai qualche ferita che qualche tua amica disinfetterà”): già il poeta si sentiva attratto da un sentimento nuovo per la fanciulla, quando TAC Beatrice, apparendogli in sogno così come egli l’aveva vista il giorno in cui se ne  era perdutamente innamorato, gli fece sentire che nulla avrebbe mai spento in lui il suo ricordo e promettere di non parlare più di quella <<benedetta>> finché non avesse potuto <<più degnamente trattare di lei>>.

Le solennità quasi religiosa del racconto, il mistico rapimento del poeta, la contemplazione della donna divenuta creatura terrestre, l’uso della visione (Rimbauld deve ancor nascere), l’indeterminatezza con cui sono volutamente indicati persone e luoghi e che trasporta il lettore in un mondo di sogno, tutto il pathos dell’opera insomma e specialmente quella solenne promessa finale sono il vero e più degno annuncio della Divina Commedia.

Spesso anche le pagine di prosa non sono meno spirituali, assorte e malinconiche, delle liriche; e se risentono certamente delle dottrine filosofiche e retoriche, hanno però accenti notevolmente personali, forse perché furono composte tutte insieme con un disegno prestabilito, probabilmente nel 1290, quando il poeta decise di riunire in un’opera organica la sua storia d’amore.

Queste, le prose, assolvono anche la funzione di raccordare nell’economia narrativa le varie liriche fra loro, affinché nessuna di esse risulti l’espressione di un momento irrelato e tutte concorrano all’organicità della vicenda. Insomma, caro lettore, possiamo leggere la Vita Nuova anche come un romanzo d’amore. Nacque da questa operazione il primo modello di prosa d’arte, in senso moderno, della nostra letteratura.

f.s.