Passione per la Classicità. Opere di Pino Caminiti (1948-2018)

Passione per la Classicità. Opere di Pino Caminiti (1948-2018)

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di Stefano Lanuzza
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Il poeta è un irregolare. […] Il poeta è la summa delle diverse ‘esperienze’ dell’uomo del suo tempo, ha un linguaggio che non è più quello delle avanguardie, ma concreto nel senso dei classici” (dal Discorso dell’11 dicembre 1959 di Salvatore Quasimodo, insignito del Premio Nobel “per la sua poesia lirica che con fuoco classico esprime l’esperienza tragica nella vita dei nostri tempi”).

Iam iam non domus accipiet te laeta neque uxor / optima, nec dulces occurrent oscula nati / praeripere et tacita pectus dulcedine tangent. / Non poteris factis florentibus esse tuisque / praesidium. Misero misere” aiunt “omnia ademit / una dies infesta tibi tot praemia vitae”. / Illud in his rebus non addunt “nec tibi earum / iam desiderium rerum super insidet una”… Queste parole del Libro III del De rerum natura, poema filosofico-enciclopedico del I secolo a. C. dell’epicureo Lucrezio (Titus Lucretius Caro), Pino Caminiti le traduce/traspone in tensione analogica, interpretandole con empatia e filosofico accordo a significare che vana è la paura della morte, questo sonno senza pensieri né sogni: “Ecco, ormai / nulla più tu godrai / della casa ricolma di gioia / e dell’ottima, amata tua donna. / I tuoi bimbi, oramai / non potranno più correrti incontro / a baciarti e ricevere baci / e a toccarti, nel cuore / di segreta, infinita dolcezza. / Non avrai / più l’ebbrezza d’un fato / benigno, non sarai / più la forza dei tuoi. / Un sol giorno, funesto / ti ha reciso le gioie della vita. / Questo dicono, stolti / e non sanno / che ormai / più di nulla ti sfiora il rimpianto” (Leptalée [1997, 2003], 2014)… È palese l’effetto dei versi lucreziani su quelli, autoreferenziali, composti dall’imperatore Adriano (Publius Aelius Traianus Hadrianus) negli ultimi giorni di vita (anno 138 d. C.): “Animula vagula, blandula, / hospes comesque corporis / quae nunc abibis in loca / pallidula, rigida, nudula, / nec, ut soles, dabis iocos” (Aa. Vv., Historia Augusta. Adriano, IV sec.). [“Piccola anima smarrita e dolce, / compagna e ospite del corpo, / ora t’appresti a scendere in luoghi / scialbi, impervi e vuoti, / ove non avrai più le gioie consuete”].

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IL TERZO SGUARDO n.52: Michel de Certeau, “Utopie vocali. Dialoghi con Paolo Fabbri e William J. Samarin”

Michel de Certeau, Utopie vocaliMichel de Certeau, Utopie vocali. Dialoghi con Paolo Fabbri e William J. Samarin, a cura di Lucia Amara, Milano, Mimesis, 2015

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di Giuseppe Panella*

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Sulla figura di Michel de Certeau, gesuita studioso di psicoanalisi lacaniana, del linguaggio dei mistici e dei rapporti tra rappresentazione sociale della cultura religiosa, manca a tutt’oggi uno studio che ne inquadri le coordinate filosofiche più generali. Erudito apprezzato da Michel Foucault e teorico del linguaggio amato da Lacan, de Certeau, figura di indubbia poliedricità umana e sapienziale, ha spaziato come pochi tra linguistica, storia della cultura, poesia e cinema.

Questi dialoghi sulla glossolalia rappresentano un’incursione tutt’altro che occasionale del colto gesuita nel mondo della semantica linguistica. Nelle riflessioni superstiti dello storico francese, in un convegno tra happy few svoltesi a Roma nel 1977 in un serrato dialogo e confronto con Paolo Fabbri e William Samarin (dove, tuttavia, predominava il più intenso rigore dialettico di de Certeau) e restituite nel loro dettaglio dalla pazienza di Lucia Amara attraverso un meticoloso lavoro di archivio e di sbobinatura, il tema della glossolalia emerge con prepotenza in un insieme apparentemente caotico di annotazioni sparse:

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Giudizi di valore di Pier Vincenzo Mengaldo

Recensione/schizzo #22


Edito da Einaudi nel 1999, il volume raccoglie gli interventi del filologo e storico della lingua, nonché critico letterario, pubblicati su periodici non specializzati e su quotidiani a partire dal 1985. Gli articoli hanno “per lo più il taglio della recensione o notizia (talora dello spunto polemico). Perciò documentano la mia- nel complesso recente- attività di critico militante nel senso più stretto della parola”.

 Il libro è suddiviso in sezioni che s’impaginano attorno alla parola-chiave “questioni”: Questioni ultime (serie di articoli che trattano di antisemitismo e Shoah), Questioni letterarie generali (saggi sulla narrativa e la lingua italiana), Critici (Fortini, Lukàcs secondo Cases, Baldacci), Metodi e didattica (articoli dedicati alla pratica dell’insegnamento), Scrittori italiani (Saba, Tozzi, Gadda, Fortini, Sereni, Calvino, Fenoglio, ecc.), Narratori di altri paesi (Hardy, Kawabata, Simenon, Christopher Isherwood, Hrabal, Schnitzler, Kis, Kuraev). Chiude l’opera una breve autobiografia: Minima personalia.

Il libro permette di leggere chiaramente- nonché parzialmente- il percorso di letture e di incontri dell’illustre studioso. La lettura del volume è piacevole e corroborante. Per chi è interessato, trovate il volume  in internet a metà prezzo.

f.s.

Pier Vincenzo Mengaldo insegna Storia della lingua italiana all’Università di Padova.
Tra i suoi ultimi scritti: Giudizi di valore (Einaudi, Torino 1999), Prima lezione di stilistica (Laterza, Roma-Bari 2001), Studi su Salvatore Di Giacomo (Liguori, Napoli 2003), Gli incanti della vita. Studi su poeti italiani del Settecento (Esedra, Padova 2003), In terra di Francia (Lisi, Taranto 2004) e Sonavan le quiete stanze. Sullo stile dei «Canti» di Leopardi (Il Mulino, Bologna 2006).

[Pier Vincenzo Mengaldo, Giudizi di valore, Einaudi, 1999, pag. 215, Lire 26 000]

Lessico. Classi di parole, strutture, combinazioni di Elisabetta Jezek.

Il lessico è l’insieme delle parole di una lingua.  La Lessicologia, invece, è “la disciplina che studia il lessico di una lingua allo scopo di individuare le proprietà intrinseche delle parole e illustrare il modo in cui queste, in virtù del loro significato, sono in relazione tra loro e possono combinarsi.”

Il risultato degli studi di lessicologia è “l’elaborazione di una teoria del lessico, cioè un’ipotesi a riguardo a come il lessico è strutturato, e di un modello lessicologico, cioè di un insieme di strumenti formali in grado di rappresentare questa struttura.”

Naturalmente queste indicazioni le ho ricavate studiando il volume Lessico. Classi di parole, strutture, combinazioni di Elisabetta Jezek.

Il saggio di Jezek è tecnico-didascalico. Utile per chi desidera approfondire e/o aggiornarsi sui recenti studi lessicologici.

Trascrivo la nota di copertina del libro:

Questo manuale traccia un accurato resoconto delle più recenti ipotesi formulate sull’organizzazione e la struttura del lessico. I principali temi trattati sono: la classificazione delle parole, i tipi di parole esistenti, i principi che regolano la combinazione delle parole, il carattere dinamico del significato lessicale, la costruzione del significato delle frasi, i modi in cui i concetti sono associati alle parole, le interazioni tra il significato delle parole e il loro comportamento sintattico. Il lessico diventa in questo modo l’osservatorio privilegiato per comprendere come le diverse dimensioni di cui è costituita una lingua interagiscano tra loro.

Indice del volume: Premessa. – I. Nozioni di base. – II. L’informazione lessicale. – III. Il significato delle parole. – IV. La struttura globale del lessico. – V. Strutture paradigmatiche nel lessico. – VI. Strutture sintagmatiche nel lessico. – Riferimenti bibliografici. – Indice analitico.

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Elisabetta Jezek è ricercatrice presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Pavia.

f.s.

[Elisabetta Jezek, Lessico. Classi di parole, strutture, combinazioni, ed. Il Mulino, 2005, pp. 208, € 14,00]

Profilo storico della linguistica moderna di Maurice Leroy

Recensione/schizzo #13 

Profilo storico della linguistica moderna di Maurice Leroy, volume che ho appena letto e studiato con interesse, offre agli studenti delle università e ai non cultori di linguistica un panorama dettagliato dei problemi e dei metodi della linguistica moderna.

Il libro di Leroy è stato pubblicato nel lontano 1963 e poi ampliato dall’autore nel 1970. In conseguenza di ciò non trovate gli ultimissimi sviluppi scientifici. Tuttavia, questo libro è un ottimo punto di partenza per saperne di più su cos’è e qual è l’oggetto della linguistica, oltre che apprendere lo sviluppo storico degli studi linguistici dai precursori del ‘700-‘800, passando per l’atto di nascita della linguistica moderna (Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure) e approdando alla fonologia, allo strutturalismo, alla semiologia, alla dialettologia indoeuropea, alla stilistica, alla semantica ecc.

f.s.

[Maurice Leroy, Profilo storico della linguistica moderna, con appendice di Tullio De Mauro, Editori Laterza, 2005, pagine 248, euro 10]

Etimologia popolare: hamburger

 La lingua è un corpo vivo: si modifica, si combina continuamente. Lo sviluppo di forme contaminate e le retroinformazioni dimostrano che il mutamento morfologico, per esempio, può avere come conseguenza la creazione di nuove forme arbitrarie.

Ecco un esempio tratto dal libro di Lehmann:

<< Un elemento di questo genere che ha conosciuto uno sviluppo negli ultimi decenni è il suffisso inglese -burger In tedesco –er è un comune suffisso per la formazione di aggettivi derivati da toponimi, come in Berliner ‘berlinese’, Wiener ‘viennese’, Frankfurter ‘di Francoforte’. Alcuni di questi aggettivi venivano anche utilizzati per denominare particolari piatti tipici di una certa città, come Frankfurter (un tipo di salsiccia). La stessa sorte aveva avuto la parola Hamburger, ma una volta importata negli Stati Uniti, questa forma era stata reinterpretata come contenente la parola ham ‘prosciuto’ (benché il prosciutto non sia un ingrediente degli hamburger). Di conseguenza, la seconda parte della parola è stata reinterpretata come suffisso che denota un particolare tipo di bistecca, e utilizzata in altre forme come cheeseburger, fishburger, e via di seguito. Processi di questo tipo, in cui una forma viene interpretata in base a quella che si suppone sia la sua origine (come qui, ham + burger) vengono detti etimologie popolari>> (1).

(1) W. P. Lehmann, Manuale di linguistica storica, il Mulino, 1998, pag. 266

f.s.

La grammatica da Baudelaire a Chomsky

 Baudelaire scrisse:

<<La grammatica, persino l’arida grammatica, acquista la forza di una magia evocatoria, risuscitando le parole palpabili di carne e ossa; il sostantivo nella maestà della sua sostanza, l’aggettivo come un rivestimento trasparente che lo copre e lo colora, e il verbo, angelo del movimento, che dà spinta alla frase>>.

Suggestivo! Tuttavia la grammatica è una disciplina che ha per oggetto la conoscenza sistematica delle regole che governano il funzionamento di una lingua. La si potrebbe anche definire come insieme delle norme che regolano l’uso di una lingua (o anche l’arte di parlare e di scrivere senza errori). Questa è più propriamente la grammatica normativa, cioè la grammatica che espone una serie di “norme” basate su un modello di lingua (quello, ad esempio, proposto dalla scuola). Oltre alla grammatica normativa vi è la grammatica descrittiva che descrive uno stato della lingua (o di un dialetto) in un determinato momento: la grammatica dell’italiano di oggi, la grammatica del fiorentino del ‘300, la grammatica dei dialetti pugliesi. Vi è poi la grammatica storica che descrive lo sviluppo storico di una lingua, l’origine e la sua storia (nella fattispecie, l’evoluzione dal latino al volgare). La grammatica comparativa stabilisce i rapporti tra più lingue: la grammatica comparata delle lingue indoeuropee, ad esempio, In fine la grammatica generale cerca di stabilire delle leggi generali comuni a tutte le lingue. Basata sui principi dello strutturalismo americano di Chomsky, la grammatica generativo-trasformazionale dà ragione di come le frasi usate dai parlanti siano “generate”, mediante trasformazioni, da frasi minime.

f.s.

La nozione di Parola

In queste settimane mi sto dedicando allo studio del lessico. Il motivo è semplice: un lavoro di ricerca letteraria mi impone alcune letture, ma, in verità, queste letture sono state sollecitate da me dopo alcune riflessioni personali sulla questione “parola poetica”. Per chi si dedica alla poesia (scritta o letta, non importa), lo studio linguistico è fondamentale.

Per esempio, partiamo dalla Parola. La nozione di parola è immediata e intuitiva per il parlante, ma di difficile definizione per il linguista. Nell’opinione comune, costituisce una parola ciò che esprime un significato unitario, o, più tecnicamente, ciò che graficamente è compreso tra due spazi bianchi di un testo, e può essere pronunciato in isolamento: questa definizione non soddisfa il linguista, che sa bene che non tutte le lingue hanno tradizione scritta (e pur tuttavia hanno parole) e per il quale ‘significato unitario’ è una definizione troppo vaga.

E a ben vedere, nemmeno il parlante comune considererebbe una singola parola sequenze come in italiano compralo, scrivimi, nonostante dal punto di vista grafico non contengano spazi bianchi.

Recenti discussioni sulla parola si trovano in Ramat, Pagine linguistiche, Laterza, 2005, Roma-Bari (pag 106-121)

Lessico e dizionario

Il dizionario non costituisce mai, nemmeno nelle forme elettroniche, una fonte esaustiva di tutte le parole di una lingua e dei significati e usi che caratterizzano tali parole, ma un repertorio incompleto; questo avviene da un lato per scelta, dall’altro per necessità, poiché il numero complessivo delle parole di una lingua è difficile da stabilirsi e le proprietà di ogni singola parola non sono così facilmente individuabili.

 

Una recente trattazione di questi aspetti, in chiave principalmente lessicografica, è in De Mauro, La fabbrica delle parole: il lessico e problemi di lessicografia, Torino, UTET, 2005.

 

<< Se il dizionario costituisce un repertorio incompleto del lessico, esso contiene però un numero di informazioni maggiore rispetto a quelle che costituiscono di norma la competenza lessicale di un singolo parlante. Infatti, un parlante nativo non conosce mai tutte le parole, le accezioni e gli usi documentati di un dizionario, e tanto meno informazioni specifiche come per esempio l’etimologia o la data della prima attestazione delle parole. Viceversa, la competenza lessicale del parlante non rappresenta un perfetto sottoinsieme delle informazioni riportate nel dizionario. Mancano nei dizionari alcuni diminutivi, come borsina, alcuni participi passati usati come aggettivi, come addobbato, e così via: sono parole formate attraverso regole morfologiche produttive (non quindi diminutivi come per es. carrozzina, il cui significato si è specializzato, nel senso che non indica più genericamente ‘una piccola carrozza’). Questa mancanza dei dizionari, a ben vedere, non è immotivata: si tratta di parole che si suppone non stiano costantemente nel lessico, ma siano ‘ricreate’ o ‘ricreabili’ all’occorrenza dal parlante, con l’ausilio della competenza morfologica oltre che di quella lessicale.>>

 

f.s.

Lingua meticcia e cristallina

La standardizzazione della lingua italiana non annulla la Verità della Parola. L’italiano di oggi è policentrico, non più immobile sulle sponde dell’Arno, ma meticcio, spesso pigro, alimentata dalla comunità e dalla tv.

In un mondo stressato e caotico, la lingua è stressata e caotica. Tuttavia, non posso negare a me stesso il fascino proibito di una lingua cristallina, sterilizzata, senza tempo; una lingua lontana dal terreno della praticità.

Parole che si moltiplicano all’infinito, che si allargano come chiazze d’olio sulla superficie del significato, finendo per occupare spazi non suoi, o ritenuti tali da intere generazioni di uomini e donne. Il linguaggio si sfibra e si consuma, perde colore e le sfumature diventano spazi bianchi o neri.

(È proprio nella grammatica la base stessa dell’esistenza di Dio?, domandò Nietzche).

Non è più la Parola a condizionare il con-testo?

f.s.

Appunti su latino. Latino volgare.

Palese è la continuazione dal latino delle lingue romanze. Più precisamente, però dal latino volgare, che altro non è se non il latino parlato. Non è del tutto corretto, a dirla con il Vossler, sostenere che le lingue romanze siano ‘figlie’ del latino.
Queste, come anche lo stesso latino volgare, altro non sono che un latino parlato oggi. A cosa ascrivere le differenze che saltano immediatamente all’occhio? La risposta è: al sostrato, cioè a dire la lingua che i vari popoli assoggettati da Roma parlavano prima della conquista romana. Il latino, quel modesto dialetto parlato dai pastori che fondarono Roma, quell’idioma che, ancora in epoca documentabile attraverso fonti storiche, occupa un’area assai limitata del Lazio, stretto com’era tra i dialetti italici e l’etrusco e che poi, fissandosi definitivamente come lingua letteraria, nell’aspetto che gli fu dato dai grandi scrittori dell’epoca repubblicana, fu diffuso nel mondo dalla forza conquistatrice dei romani, è un idioma appartenente alla grande famiglia Indoeuropea. Esso ci è noto, con una documentazione ininterrotta e organica, solo dal III sec. a.C. (le iscrizioni anteriori sono sporadiche) e cioè un’epoca assai più recente di quelle in cui abbiamo attestazioni di altre lingue indoeuropee quali l’ittita, l’antico indiano, l’iranico e il greco.

Fissata la lingua letteraria, specialmente per merito dei grandi scrittori del periodo aureo, il latino scritto con intenti artistici mantiene una relativa fissità, che è imposta dalla fedeltà ai modelli, alla tradizione e dall’autorità dei grammatici. Ma come in ogni paese, anche nella stessa Roma, la lingua comunemente parlata differiva più o meno considerevolmente, secondo le epoche e le categorie sociali, dalla lingua scritta con intento artistico. Noi ce ne possiamo agevolmente accorgere mettendo a confronto fra loro passi di uno stesso autore, là dove questi, libero da schemi retorici e da preoccupazioni letterarie, si rivolgeva ad amici o parenti (Cicerone, ci dicono i latinisti, in alcune sue epistole familiari non destinate alla pubblicazione, usa uno stile considerevolmente diverso da quello delle Orazioni o delle opere filosofiche e retoriche) oppure vuole, ad arte, imitare la comune parlata (Petronio imita la lingua popolare e scorretta di un “nuovo ricco” nella sua Cena di Trimalchione e, del resto, in tutta l’opera raccoglie largamente forme della lingua parlata).

Il latino scritto e letterario, il latino della cultura appare ai nostri occhi sostanzialmente unitario e difficilmente distinguiamo certe peculiarità regionali, che pure gli antichi sentivano.

Il latino parlato, per quanto anch’esso fino ad un certo punto fosse unitario, a causa del livellamento provocato dall’unità politica e culturale, conteneva un certo maggior numero di differenze regionali e sociali.

Ma questa ‘rusticitas’, per dirla con Cicerone e Quintiliano, porta nella lingua di Roma dapprima dagli Italici e dagli Etruschi, poi dai Galli e da altre popolazioni più distanti, non era ovunque la stessa ed il SERMO VULGARIS (il latino volgare) doveva avere già in se stesso quei germi di differenziazione dialettali che si svilupperanno poi nelle singole lingue romanze, anche se alcuni fenomeni di origine volgare erano già entrati a far parte della koinè latina parlata. In alcuni casi si tratta di tendenze manifestatesi già nel latino arcaico e che non furono accettate dalla lingua letteraria, cosicché in molti punti troviamo concordanze fra il latino volgare e il latino arcaico, mentre il latino classico presenta un’evoluzione diversa.

La denominazione di latino volgare (da sermo vulgaris) può prestarsi a qualche equivoco. Sarebbe forse meglio parlare di ‘latino parlato, latino comune, koinè latina’. Non si tratta infatti solo del latino parlato dalle classi più basse del popolo, ma della lingua parlata da tutte le classi sociali, con infinite sfumature.

f.s.

Segno, significato, significante, referente

Appunti sparsi  

Per Ferdinand de Saussure la lingua è un sistema di segni assai complesso, un insieme organico di elementi posti in rapporto funzionale l’uno con l’altro. Un segno è l’associazione di un significante e di un significato. Il significato è l’<<immagine mentale>> di un oggetto, vale a dire un concetto; il significante è l’<<immagine acustica>>, la serie di suoni con cui si veicola il concetto. Il rapporto fra significato e significante, come molti ben sanno, nel comune sistema linguistico, è arbitrario, non motivato, frutto di una convenzione fra parlanti.

Il referente è la realtà extraletteraria a cui rinvia il segno. Esso è estraneo alla considerazione della scienza linguistica.

I referenti, cioè gli elementi della realtà esterni al testo- storici, concettuali o immaginari che siano- costituiscono i materiali su cui lavora la lingua. In un’opera letteraria (il testo è un insieme di parole, di segni) l’uso di un referente vero (un personaggio storico, una data situazione sociale) serve di norma a creare un effetto di realtà di cui l’autore si serve per rendere credibile la fictio inventiva.

f.s.

da i Quaderni (1914-1916) di L. Wittgenstein

Trascrivo/ripropongo (Amanuense web) 

Il mondo incapsulato nel linguaggio

I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.

C’è realmente soltanto una anima del mondo, che io di preferenza chiamo la mia anima, e in base alla quale solamente concepisco le anime degli altri.

La precedente osservazione dà la chiave per decidere in che misura il solipsismo sia una verità. [L. Wittgenstein, Werkausgabe, Band I, Frankfurt a.M., 1984, p.141]

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