Helen Macdonald, Io e Mabel, ovvero l’arte della falconeria, trad. Anna Rusconi, Einaudi, 2016, pp.292, €19,50
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di Stefano Lanuzza
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Tradotto da Anna Rusconi, Io e Mabel ovvero l’arte della falconeria (Einaudi). Altro il titolo originale: His for Hawk [H come astore]) appare un perfetto ‘romanzo di formazione’, un autobiografico e ispirato bildungsroman, a tratti un poema in prosa di preziosa letterarietà e straordinaria ricchezza lessicale. In esso l’inglese Helen Macdonald, dopo la morte improvvisa del padre (“Mia madre chiamò per dirmi che mio padre era morto”), racconta il passaggio dalla sua crisi depressiva al graduale superamento del lutto, alla maturazione psicologica e alla conoscenza di sé attraverso l’esperienza paradossale dell’addestramento d’un falco.
Com’è possibile morire così, di colpo, essere e, in un momento, fulminati da una morte grifagna, non esserci più? Assurda, inaccettabile fine: dapprima, Helen ne è stordita e come sospesa a fluttuare in una dimensione d’irrealtà, persa in una segreta demenza che l’aliena, la paralizza e la precipita nell’insensatezza: “In quel periodo sviluppai una specie di pazzia”.
È sola, non ha un compagno né figli, non una casa propria, un lavoro sicuro, e l’uomo di cui, per salvarsi dal disamore di sé, vorrebbe innamorarsi, l’abbandona dopo una breve frequentazione credendola psicotica. I suoi pensieri si dibattono, vagano, s’ingarbugliano, qualche volta la consolano volando agli anni dell’infanzia, agli inizi della sua sempre coltivata passione per i falchi, alle spedizioni nei boschi col padre fotoreporter in cerca degli sparvieri somiglianti in miniatura agli astori assai più grandi: nella proporzione – considera l’autrice – di un gatto rispetto a un leopardo. “Uccelli del folto dei boschi”, gli indomiti astori “sono il graal proibito dei birdwatcher”.