Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)
di Giuseppe Panella
La padronanza ermetica della parola. Maria Grazia Maramotti, Alchimie d’amore, Introduzione di Emerico Giachery, trad. inglese di Alberto Sighele, Pasian di Prato (UD), Campanotto, 2005
La maggiore peculiarità (ma tra le altre, sia chiaro in linea di principio) di questo ultimo volumetto di poesie di Maria Grazia Marmotti è quello della doppia lingua in cui si può leggere. La traduzione inglese delle liriche, a cura di Alberto Sighele, ha il compito di esplicitare in misura più articolata e più netta la dimensione assoluta in cui i testi vogliono collocarsi rendendoli comprensibili anche a non italiani. Ma forse ci sono anche altre ragioni per questo sulle quali sarà meglio soffermarsi in seguito. La dimensione cosmopolitica del testo non stupisce anche in ragione della dedica a Tullio Grado de Petris von Herrenstein sulla cui natura più intima, però, non mi sembra il caso di soffermarsi (essa attiene, infatti, alla sfera personale della vita dell’autrice).