Marco Missiroli, Atti osceni in luogo privato, Milano, Feltrinelli, 2015
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di Giuseppe Panella
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In primo luogo, comincerei con un dato di fatto. Comunque si voglia valutare o relazionarsi al rapporto tra scrittura e sessualità (o, per dirla con Henry Miller, tra arte e oltraggio), l’oscenità è sempre qualcosa che il testo trasmette come forzatura rispetto a se stesso e come espressione volutamente esterna rispetto al suo normale svolgimento. In altre parole, l’ob-scenitas è sempre fuori luogo e fuori tempo rispetto al discorso che lo spazio della scrittura converte e coinvolge. L’osceno è spiazzante perché implica un riferimento a qualcosa che non si dovrebbe fare – cioè non si dovrebbe dire. L’osceno è divertente perché dis-trae dallo scopo principale dell’accoppiamento (cioè la procreazione) concentrandosi sul piacere che produce. L’osceno è felice perché va contro tutte le convenzioni e i riti della convivenza umana infischiandosene bellamente delle preoccupazioni della società dei benpensanti e dei convinti sostenitori della sacralità delle forme istituzionali consolidate della sessualità stessa. L’osceno è qualcosa che compensa dalla banalità e dalla continuità dei giorni della vita quotidiana. L’osceno è la concentrazione della diversità rispetto alla convenzione dei rapporti sociali. Ma, nel bel libro di Marco Missiroli, l’osceno non c’è: c’è l’erotismo di vario tipo (da quello masturbatorio a quello vagamente sadico di certi rapporti interpersonali con donne avute e poi rifiutate), c’è la sessualità del tutto normale dell’adolescenza, della maturità e dell’”adultità” (come l’autore chiama l’età della procreazione responsabile dei figli nel matrimonio), c’è la discussione e la descrizione degli effetti della pletora sessuale sui comportamenti e sulla formazione della mentalità di un ragazzo adolescente, poi giovane e poi adulto, c’è la descrizione – solida e compatta – del come si forma un legame d’amore tra un uomo e una donna, ma l’oscenità non c’è. In un romanzo di formazione come quello di Missiroli, lo spazio non è occupato dal sesso ma dalla sua idealizzazione come pratica liberatoria e come avventura letteraria, come frutto di una crescita che più che dalle logiche dei corpi viene fuori dall’emancipazione ottenuta attraverso i libri.
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