Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)
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di Giuseppe Panella
L’usignolo resta senza voce. Gennaro Oriolo, Mute parole e ingannevoli delizie, con una prefazione di Franco Manescalchi, Cosenza, Ferrari Editore, 2010
Di Oriolo e della sua scrittura mimetica scrive proficuamente Franco Maniscalchi nella sua notevole presentazione di questo volume di poesie:
«Si può parlare, perciò, di un autore per il quale la scrittura è fine e mezzo, strumento per dare voce ad una complessa articolazione dove lo spazio tempo prende corpo e identità storica in un vivo e vivido divenire di parole che amplificano e definiscono il farsi medesimo degli eventi. L’ecletticità che emerge anche ad una lettura immediata è dunque movimento modulare e non dispersione stilistica. Un movimento modulare che conferma, come già abbiamo scritto, un operatore di grande cultura e di sapiente mimesi nel quale il “divertissement”(nel senso del pensiero divergente e della reinvenzione ludica) conduce fino alle radici di un’estrema drammaticità dove finito e infinito, vota e morte, esistere ed essere, tutto e nulla confermano la pienezza di una coscienza alimentatasi al mito mediterraneo di una terra dove un tempo abitarono gli dei e dove ancora è possibile respirarne gli ultimi pollini. E questo è possibile perché nel poeta si fondono tre archetipi: la monovalenza del “logos” che inizialmente in lui sembra prevalere, l’entropia dell’ “eros” che, sottesa, crea tensioni telluriche nell’uomo e dunque sulla pagina, e, infine, la non deperibilità del “ludus” confortato dalla “tèchne” del mondo primigenio» (pp. 7-8).