Anna Maria Ortese, Da Moby Dick all’Orsa Bianca, Piccola biblioteca Adelphi, 2011, pp.187
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di Gustavo Micheletti
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La purezza del sorriso e il divertimento del nulla. Gli esercizi di lettura suggeriti – con affetto e gratitudine – da Anna Maria Ortese
L’orsa bianca dello zoo ha appena avuto un figlio e Anna Maria Ortese non riesce a staccare gli occhi di dosso dalla scena, da quell’“immagine sacra”, dalla “cieca grazia del figlio” e dal modo in cui la madre lo accudisce offrendogli un rifugio. Il sospetto che però subito l’attraversa è che noi siamo tutti orfani di quell’orsa, di quella premura così assoluta e avvolgente, prede di un ingranaggio sinistro che rende sempre più automatici e inconsapevoli i nostri gesti e i nostri pensieri, quasi fossimo ormai dei “creditori del nulla” perduti “nel sistema senza orizzonte dell’utile”. E infatti quel bianco dell’orsa le ricorda il bianco di Moby Dick, il placido presagio di morte che incombe sulla vita di Achab, “uomo pieno di rumore e insieme taciturno, ignoto alla Parola, come un insetto, una gigantesca formica. Un uomo – del – Futuro solo in apparenza: in sostanza, Anti-Uomo, Anti-Universo, Anti-Dio”.
Nella visione della Ortese, Achab sarebbe infatti l’anticipatore dell’uomo d’oggi, irrigidito e ossessivo, capace di un odio senza limiti e per questo non più capace di produrre segreti, ma incarnazione di un unico segreto immobile e vorace.
Ma questo è solo uno dei tanti spunti contenuti in questa breve rassegna di ricordi letterari, di recensioni, di schizzi e ritratti a memoria, che ha il solo privilegio di conferire il titolo alla raccolta (Anna Maria Ortese, Da Moby Dick all’Orsa Bianca, Adelphi). Non è facile individuare in essa un filo rosso ulteriore rispetto allo sguardo dell’autrice, uno sguardo che rivela una sensibilità rispettosa verso ogni forma di vita e che s’incarna in uno stile limpido, penetrante e lieve. Le opere e gli autori che in questo libro si legano in un ordito sottile sono i più disparati, tanto che potrebbe risultare assai problematico il vederli comparire insieme all’interno di in uno stesso testo. Qui la Ortese ci parla di Hemingway e De Amicis, di Melville e del Vangelo, e poi ancora di Buzzati e Anna Frank, di Edoardo De Filippo – i cui personaggi le ricordano talora quelli di Gogol – e di Leopardi, di Thomas Mann, di Wilde, della Morante, di Cechov e di molti altri scrittori da lei amati o ammirati con una singolare modulazione d’affetto o di stima, per motivi diversi ma forse anche per una stessa ragione di fondo, che potrebbe consistere in una sorta di trasparenza della loro scrittura, in una piena aderenza della loro vita alla qualità e al timbro della loro prosa o della loro poesia.
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