Dicibile e indicibile tra fisico e metafisico. Le Elegie duinesi di Rilke e la figura dell’Angelo
di Manuele Marinoni (Università degli studi di Firenze)
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C’è una netta sinergia tra ciò che è il riflettente (lo «specchiante», per dirla con Baltrušaitis)1 e la sostanza dell’oltre che di per sé non può mostrarsi nelle forme. Si tende a dire, secondo un certo codice ermeneutico, che se è fruibile una parola che dia e dica l’indicibile2, senza doversi limitare all’entelechia della stessa, essa deve compararsi a quella gamma in-determinata dell’ontologico nella quale rientrano tutte le distopie della materia (che, in ultima istanza, altro non sono che un non-essere immanente all’essere). Il principio di fondo è quello della presentificazione3: per sub-determinare un’esperienza, nella sostanza, in-esperibile occorrono forze ed alleanze metaforiche e metonimiche tutte ricavate dal tempo e da figure della temporalità.
Uno dei Sonetti a Orfeo di Rainer Maria Rilke, per la precisione il 27 della II serie, Gieb es wirklich die Zeit, die zerstörende?, soccorre al nostro dialogo e permette, nel cristallizzante senso di tensione fra micro e macrotesto, e così tra figure e controfigure, che contrassegna quest’opera rilkiana, alcune puntualizzazioni sul principio che scinde e disarticola ciò che sta nell’immanenza, nel percepibile, e ciò che si sottrae ad essa, ubicandosi nell’eterno: ossia il problema del tempo. Un tempo come senso delle cose, come margine della fragilità dell’esserci che diventa interrogativo di sostanza («Sind wir wirklich so ängstlich Zerbrechiche,/ wie das Achicksal uns wahr machen will?», 5-6)4.