SUL TAMBURO n.80: Leandro Piantini, “Il poeta non deve tacere”

Leandro Piantini, Il poeta non deve tacere, Fucecchio (Firenze), Edizioni dell’Erba, 2018

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di Giuseppe Panella

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Ma perché poi dovrebbe? Il poeta non lo spiega né desidera farlo e infatti parla, racconta, descrive, rigira il coltello nella piaga. Egli parla di sé e analizza la propria poesia:

«La poesia più bella è sempre l’ultima. Lo dico ad alta voce / quello che mi spinge all’espressione / è forte e se trova ostacoli / non s’arresta / ed ecco arrivano i soccorritori / e domani mi vedrete scalpitante / con le parole che / fanno a gara ad agghindarsi / a dimostrare la loro fedeltà / la loro vocazione ad essere / nei casi estremi il rimedio migliore» (p. 73).

Scrivere poesia è una vocazione irrefrenabile e non si contenere facilmente: le parole urgono e vanno usate per esprimere ciò che si prova e si sente in maniera assoluta. L’ansia di scrivere poesia non si arresta facilmente sulla soglia della pagina bianca. La poesia è qualcosa che non si può né si deve arginare: il poeta non deve tacere perché non può tacere. Ma di cosa parla però? Quali sono gli argomenti che mette sul tavolo quando si cimenta con la scrittura? Il poeta essenzialmente parla della poesia:

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SUL TAMBURO n.79: Paolo Marati, “Gli indecenti”

Paolo Marati, Gli indecenti, Siena, Melville, 2017

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di Giuseppe Panella

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Perché Gli indecenti come titolo di un romanzo di costume? Perché l’in-decenza come categoria centrale in una riflessione sulla deriva della società contemporanea? Marati riprende alcuni personaggi del suo precedente L’intrusione delle onde anomale (Siena, Barbera, 2014) per raccontare una società in declino che non riesce più a trovare un centro, una direzione, un “centro di gravità permanente”. Soprattutto non riesce più a capire dove vuole andare a parare con i suoi stili di vita, i suoi tic, le sue mode, la sua ricerca di qualcosa di nuovo che la faccia uscire dalle asfittiche pareti del già visto. Federico Galbiati è un anti-eroe, un “inetto” – si sarebbe detto ai tempi di Verga e di Svevo. Divorziato ma felicemente accoppiato con una ragazza svedese, Harriet, conosciuta in circostanze avventurose nel primo romanzo, in procinto di volare a Stoccolma come fa ogni due settimane, viene bloccato da una perentoria richiesta di sua madre: l’anziana donna vuole rivedere Claudia, la figlia primogenita, l’un tempo severissima professoressa di latino protagonista di vicende sentimentali molto sfortunate narrate in L’intrusione delle onde anomale e apparentemente scomparsa quattro anni prima. La madre è radicale nelle sue richieste: se non rivedrà la figlia entro domenica, sicuramente il suo cuore si schianterà.

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SUL TAMBURO n.78: Marino Magliani, “Prima che te lo dicano altri”

Marino Magliani, Prima che te lo dicano altri, Milano, Chiarelettere, 2018

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di Giuseppe Panella

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Questo romanzo si basa su un desiderio rimasto inesausto: mettere in parole la nostalgia di una patria nella quale non si è potuto vivere come si sarebbe voluto. I personaggi della storia si ritengono tutti esuli (molti, come Christel, la matura mediatrice di immobili per i “russi” di cui Leo si invaghisce e che vorrebbe portarsi a letto) e il loro soggiorno sulla riviera ligure Magliani è un narratore nato e la sua ricerca linguistica non è mai disgiunta dalla volontà di raccontare storie, di illuminare con la luce radente dello stile vicende umane di grande spessore e di dolorosa potenza. Questo suo ultimo romanzo racconta un durissimo apprendistato di vita ma anche la struggente riconquista di un passato. Leo Vialetti di Sorba (Imperia), ligure come quasi tutti i protagonisti dei romanzi di Magliani, nasce e appartiene a una Liguria scabra, rocciosa, poco generosa con i suoi abitanti che pure la amano, costruita su baluardi montuosi, intervallati da brevi tratti di pianura, da salite erte e difficili, popolata di cinghiali e di uomini spesso più testardi e duri di quegli stessi animali selvatici cui danno la caccia.

Nello stesso tempo, il romanzo di Magliani descrive un mondo che dovrebbe risultare radicalmente opposto a quello nativo del protagonista: la Liguria e l’Argentina appaiono nelle sue pagine due continenti diversi e lontanissimi, eppure simili nel loro rapporto con l’umanità dolente che le abita.

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SUL TAMBURO n.77: Marco Fagioli – Stefano Lanuzza, “Marginalia intorno a Louis-Ferdinand Céline”

Marco Fagioli – Stefano Lanuzza, Marginalia intorno a Louis-Ferdinand Céline, Firenze, AION Edizioni, 2018

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di Giuseppe Panella*

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Non sono certo marginali i problemi, le connessioni e i rapporti intellettuali e letterari sollevati da Fagioli e Lanuzza a proposito dell’opera di Louis-Ferdinand Céline, soprattutto rispetto ai suoi scritti più controversi e combattuti come le Bagatelles pour une massacre o i romanzi “autobiografici” del grande scrittore francese. Così come non sono marginali gli interrogativi morali suscitati da questioni ancora scottanti come il “forsennato” antisemitismo di Céline o quelli estetici legati al suo rapporto con le altre arti (la pittura, il cinema, la musica, la canzone).

Céline è ancora tutto un continente letterario e storico da esplorare nonostante la gran quantità di inchiostro versato sulla sua vita e sulla sua opera e la grande battaglia critica e politica combattuta in suo nome. Forse per nessuno degli altri grandi scrittori del Novecento lo schieramento si è diviso in maniera così netta tra chi lo voleva relegato nell’enfer degli scrittori pericolosi e funesti, da evitare o da boicottare (si pensi alla severa quanto infondata condanna di Sartre che pure aveva attinto a piene mani dalla sua proposta letteraria e dal suo laboratorio stilistico) e chi, invece, tendeva a giustificare tutto di lui, ogni suo scritto compresi i pamphlet antisemiti più accesi, in nome della supremazia della scrittura e dello stile. Il fatto è che anche nel caso Céline, anche se ammetto che è molto difficile, bisogna distinguere tra le asprezze dell’uomo e le sue vicende personali e il risultato della sua proposta di scrittura e la sua rivoluzione stilistica.

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SUL TAMBURO n.76: Evaristo Seghetta Andreoli, “Il paradigma di esse”

Evaristo Seghetta Andreoli, Il paradigma di esse, prefazione di Carlo Fini e con una nota critica di Franco Manescalchi, Firenze, Passigli, 2017

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di Giuseppe Panella*

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Il destino poetico di Evaristo Seghetta Andreoli è tutto racchiuso in quell’esse, in quell’essere che non vuol decidersi a confondersi con l’avere o scivolare nell’esserci: un verbo che si fa sostantivo e si appoggia alla vita per continuare il suo percorso esistenziale.

Scrive Carlo Fini nella sua densa e intuitiva prefazione:

«In queste nuove liriche, tuttavia, l’autore approfondisce la sua consolidata vena poetica: il linguaggio, di affascinante creatività, si prosciuga, come attestano l’apparente naturalezza e la scorrevolezza. In questa rinnovata essenzialità lo stile si esalta nelle immagini, nelle riflessioni su se stesso e l’altro. Il ritmo dei versi acquista sicurezza e musicalità. Appare importante aggiungere a queste prime annotazioni un particolare innovativo: l’autore spazia ancora di più (e con maggiore aderenza) sulla vita reale, sulle incerte sue sorti e in quelle del mondo. Ecco, allora, nella parte finale della silloge, comparire – come antiche divinità ostili – Il Tempo, lo Spazio e il Caos» (p. 5).

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SUL TAMBURO n.75: Gianluca Barbera, “Magellano”

Gianluca Barbera, Magellano, Roma, Castelvecchi, 2018

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di Giuseppe Panella
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«12 settembre 1568. Mi chiamo Juan Sebastián del Cano – detto el Perro, il cane – e, come la maggior parte dei miei connazionali senz’altro ricorda, ho viaggiato in qualità di nocchiero sulla Trinidad, al fianco di Ferdinando Magellano, per un anno, sette mesi e diciassette giorni: tanti ne ho contati. Delle cinque caracche partite per sfidare gli oceani con a bordo duecentosessantacinque uomini di equipaggio solo una tornò, la Victoria, che il destino aveva posto sotto il mio comando, quale ultimo ufficiale rimasto di tutta quella gran spedizione; invero la più piccola e fragile della flotta dopo la Santiago, affondata tra i crepacci del Rio Santa Cruz, ad appena due gradi di latitudine dallo stretto di Todos los Santos, da noi scoperto il 1 novembre dell’anno di grazia 1520. Sì, io ebbi la ventura (o chiamatela come vi pare) di essere stato uno dei diciotto uomini cui fu concesso di fare ritorno, dopo tre anni intorno al globo e avventure e tragedie al di là di ogni umana sopportazione. Io, Sebastián del Cano, el Perro, lo confesso, qui, ora, per la prima volta, ho tradito il mio comandante e ammiraglio, Ferdinando Magellano, nel più abietto dei modi…»

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SUL TAMBURO n.74: Rita Monaldi – Francesco Sorti, “Malaparte – Morte come me”

Rita Monaldi – Francesco Sorti, Malaparte – Morte come me, Milano, Baldini & Castoldi, 2016

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di Giuseppe Panella
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Rita Monaldi e Francesco Sorti sono autori molto conosciuti di romanzi storici e di brillanti ricostruzioni satiriche di eventi del passato che probabilmente non hanno bisogno di presentazioni per il vasto pubblico dei loro lettori. Le vicissitudini del loro primo romanzo, Imprimatur, pubblicato con buon successo da Mondadori nel 2002 e poi non più ristampato dallo stesso editore per ragioni mai compiutamente emerse nel corso della violenta polemica che ne seguì, sono state anch’esse l’oggetto di un importante dibattito sulla scrittura letteraria e i condizionamenti esterni esercitati su di essa (ne parlai proprio su Retroguardia in anni non sospetti, per la precisione il 16 luglio del 2009). Nel 2016, pur proseguendo la serie di romanzi storici incentrati sulla figura della spia vaticana Atto Melani e le sue imprese politico-poliziesche ambientate in tutta Europa (alla conclusione della serie mancano i due volumi conclusivi), i due scrittori hanno deciso di dedicare un ampio e intrigante volume a una vicenda poco nota della biografia umana e intellettuale di Curzio Malaparte, ambientandola in gran parte nella Capri mondana di fine anni Trenta. Ma la storia della persecuzione poliziesca ai danni dello scrittore pratese, la ricostruzione delle sue indagini effettuate con lo scopo di evitare l’arresto e un processo che ne avrebbe distrutto la reputazione e infine la scoperta della verità sulla misteriosa morte di Pamela Reynolds, giovane poetessa dal profilo dolcissimo con la quale Malaparte aveva avuto quattro anni prima un breve flirt, non esauriscono la fitte rete di rimandi storici, politici, letterari e umani che attraversano e sorreggono la potente ricostruzione effettuata dai due autori.

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SUL TAMBURO n.73: Domenico Cipriano, “L’origine”

Domenico Cipriano, L’origine, Forlimpopoli (Forlì-Cesena), L’Arcolaio, 2017

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di Giuseppe Panella
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Che cosa c’è alle scaturigini prime, all’origine vera e profonda della poesia, della sua produzione inevitabile? Cipriano ha pochi dubbi al proposito, c’è il ritmo, c’è la musica, c’è la scansione delle parole che si intrecciano con il suono e il significante prodotto dal suono stesso.

«Io sono / tutte le terre che ho visitato / anche se da una sola / ho preso vita. // Lì / è rimasta ferma una ferita / per ogni passo / trascinato stanco / per ogni sguardo / che non mi riconosce. // E sono tanti i segni sul mio corpo / che ha tracciato la poesia / di chi / non ha più un luogo / e chiede asilo» (p. 15).

E’ il primo testo poetico, quello che apre la raccolta, e dà il senso dell’operazione messa in atto da Cipriano. L’origine della poesia affonda nel passato, in un passato così lontano che di esso rimane poco da analizzare e di condividere – si può soltanto accertarne l’esistenza e trasformarla in una parola che cerchi di delimitarlo. Il poeta rappresenta, di conseguenza, ciò che esiste fin dagli albori e lo sintetizza nelle sue parole del presente. Il corpo vivente della poesia si rastrema nell’immagine del corpo ferito del poeta che porta su di sé i segni del percorso che lo porta verso la propria autorealizzazione. La scrittura poetica non ha luogo definito e si realizza sempre nell’esilio della mente dove avviene ciò che la rende visibile e comprensibile ai più.

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SUL TAMBURO n.72: Matteo Melchiorre, “La via di Schenèr”

Matteo Melchiorre, La via di Schenèr, Venezia, Marsilio, 2016

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di Giuseppe Panella
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La prima impressione che si ricava dalla lettura di questo libro di Matteo Melchiorre è quella di aver commesso un errore di valutazione quando si è scelto di leggerlo: non si è in presenza di un romanzo ma di un saggio storico, di una ricostruzione approfondita e accurata di un episodio di storia di Feltre e dintorni, di una analisi di alto livello di storia economica e sociale ma non di un romanzo. La bio-bibliografia stessa di Melchiorre, autore ad es. di una biografia di fra’ Bernardino da Feltre e della sua predicazione antisemita, autorizzerebbe una tale lettura. Eppure La strada di Schenèr non solo è un romanzo (sia pure molto particolare) ma è anche la sua particolare versione dell’Apologia della storia di Marc Bloch (libro sotto la cui protezione il testo di Melchiorre si pone fin dall’esergo).

«Credere che la storia sia meno capace di soddisfare anche la nostra intelligenza per il fatto che esercita un così possente richiamo sulla sensibilità, sarebbe davvero una straordinaria sciocchezza» ha scritto il grande storico francese. E alla sensibilità come pure all’intuito l’autore del libro si richiama più volte. Ma si aggrappa anche, e con grande forza stilistica, alla chiarezza dell’evocazione che nasce dalla lucidità dell’intelligenza. Il libro di Melchiorre è un elogio del mestiere dello storico e la rivendicazione della sua bellezza e lucidità e anche della fatica che costa. Il colloquio con il dottor Schuster di Erfurt, “specialista in dinamiche psicoemotive”, è emblematico al riguardo:

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SUL TAMBURO n.71: Giampaolo Simi, “La ragazza sbagliata”

Giampaolo Simi, La ragazza sbagliata, Palermo, Sellerio, 2016

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di Giuseppe Panella
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«E invece mi ritrovo ventitré anni dopo a scrivere ancora del caso Calamai e di quell’estate inquieta e volubile. Il 1993 sarebbe stato ricordato per un luglio ancora primaverile e un agosto tropicale. Fu un’estate a due facce, come il dio Giano che con i suoi due volti guarda verso il passato e scruta il futuro. Contro ogni pronostico Bill Clinton aveva mandato a casa Bush Senior. Internet e le inchieste di Mani Pulite facevano presagire l’alba di una nuova era. Pensavamo che molto presto l’Europa sarebbe stata forte e unita, non a caso mezzo mondo ballava la discomusic prodotta in Italia, in Germania o in Svezia. La realtà era diversa. Noi ballavamo sulla spiaggia, e intanto sotto i nostri piedi si riassestavano faglie profonde, facendo tremare l’Italia da Roma a Firenze a Milano. Oggi mi è chiaro: sotto la minaccia che tutto crollasse, niente cambiò nel senso in cui avevamo sperato. Mi è chiaro proprio mentre mi ritrovo da solo, in un appartamento ormai quasi vuoto, a scrivere quello che doveva diventare il mio libro sensazionale sul caso Calamai. Doveva. Perché si è trasformato nel racconto di come invece è stata la mia vita a crollare e a cambiare per sempre. In una settimana» (pp. 16-17).

La ragazza sbagliata, di conseguenza, non si presenta come un romanzo di fantapolitica, né un thriller, né un poliziesco di indagine su un delitto (come quelli che, erroneamente e banalmente, vengono etichettati come “gialli” dal colore di una copertina negli anni Venti del secolo scorso). Non è neppure un noir, anche ci si avvicina molto nell’impostazione. E’ una narrazione che si legge tutta d’un fiato ma non per questo si rassegna alla velocità di scrittura del genere o alla mancanza di approfondimento psicologico che spesso contraddistingue i romanzi d’azione. Simi punta non tanto (o soltanto dato l’argomento) sui colpi di scena o sulla spiegazione finale quanto sulla costruzione del personaggio principale Dario Corbo e sui suoi rapporti con quelli che incontra e con cui si confronta nel corso della vicenda.

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SUL TAMBURO n.70: Antonio Paolacci, “Piano americano. Il romanzo che non scriverò”

Antonio Paolacci, Piano americano. Il romanzo che non scriverò, Milano, Morellini Editore, 2017

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di Giuseppe Panella
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Antonio Paolacci di romanzi ne ha scritti e uno, il primo, lo ha pure ristampato. Eppure è insoddisfatto della sua attività di scrittore, della sua capacità di investimento sentimentale sulle parole scritte, sulla resa stessa di esse a livello di comunicazione e di confronto. Paolacci non vuole scrivere più e manifesta questo suo desiderio, questa sua necessità nell’unico modo che conosce: appunto scrivendo un romanzo. Rifiutandosi di scrivere un’opera narrativa, in realtà, la scrive (e ricorda molto il metanarrativo Gide quando cita se stesso come autore dell’opera che sta scrivendo e cioè Paludi). Non volendo scrivere un romanzo su un personaggio evanescente che passa inosservato, quasi un “uomo invisibile” e che per questo truffa e rende impalpabili le sue attività ai confini della legalità, lo fissa in realtà sulla carta come il protagonista di una storia che si vuole comunque scrivere, anche se non nella dimensione tradizionale della forma narrativa.

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SUL TAMBURO n.69. Alberto Rollo, “Un’educazione milanese”

Alberto Rollo, Un’educazione milanese, San Cesario di Lecce (Lecce), Piero Manni, 2016

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di Giuseppe Panella
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Il libro struggente di Alberto Rollo sulla sua formazione culturale, umana, sentimentale apparterebbe al genere letterario che molti critici amano definire auto-fiction (con un termine a mio avviso improprio) se non fosse perché al suo interno si opera un passaggio imprevedibile, una vera e propria “mossa del cavallo”, mediante la quale la storia personale dell’autore viene assorbita all’interno dei destini generali della città cui egli appartiene.

Nell’aneddoto iniziale in cui il piccolo Alberto viene offerto alla città da un cantante di strada, forse uno zingaro, che lo solleva in aria e chiede alle persone circostanti “Milano lo vuole?” è già inscritta tutta la successiva parabola della sua formazione di intellettuale.

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SUL TAMBURO n.68: Raul Montanari, “Sempre più vicino”

Raul Montanari, Sempre più vicino, Milano, Baldini & Castoldi, 2016

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di Giuseppe Panella
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L’ultimo romanzo di Raul Montanari rientra a pieno titolo in quella categoria letteraria (quasi un nuovo genere o sottogenere volutamente non codificato come tale) che è stato battezzato post-noir dalla critica e che si rifà ad autori che sfuggono alle regole del noir classico e tradizionale per approdare a un progetto di scrittura libero dai condizionamenti che il genere inevitabilmente comporta. Vi apparterrebbero autori come la Patricia Highsmith di Sconosciuti in treno o il Friedrich Dürrenmatt del ciclo del commissario Hans Barlach o del “requiem per il romanzo poliziesco” intitolato La promessa. Che cos’è il post-noir? E’ un romanzo che non presenta personaggi particolari, dotati di abilità investigative perspicue se non eccezionali (come nei romanzi di Chandler o di Hammett) oppure interessanti per le loro caratteristiche fisiche e morali ma persone comuni che si trovano in circostanze avventurose o straordinarie spesso senza volerlo o per loro errore e spesso improntitudine. Si tratta di persone “normali” in situazioni non comuni costrette ad affrontarle con i (pochi) mezzi a loro disposizione. Il risultato è una sequenza di eventi misteriosi che trovano uno scioglimento, spesso tragico (ma non sempre), alla fine di un percorso di ricerca scandito da colpi di scena, di trovate bizzarre, di soluzioni inedite.

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SUL TAMBURO n.67: Paolo Leoncini, “Emilio Cecchi. L’etica del visivo e lo Stato liberale”

Paolo Leoncini, Emilio Cecchi. L’etica del visivo e lo Stato liberale con appendice di testi giornalistici rari, Lecce, Milella, 2017

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di Giuseppe Panella

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Emilio Cecchi è sempre stata una figura di (illustre) intellettuale controverso. Il giudizio sul suo metodo critico e sulla molteplicità dei suoi interventi nei più diversi campi della creatività culturale pure – Cecchi è sempre stato oggetto di discussione all’interno della schiera degli altri critici a lui contrapposti (fossero essi militanti e/o accademici, filologi puri e/o critici ideologicamente orientati, storici e/o teorici della letteratura). Leoncini rende conto, in maniera esatta e appassionata, di quanto Cecchi abbia rappresentato nella cultura italiana del Novecento.

Il suo studio risulta un’esplorazione all’interno del mondo etico e letterario dello scrittore, quest’ultimo inteso in tutte le sfaccettature possibili, dalla storia dell’arte alla critica cinematografica, dal reportage di viaggio all’analisi di taglio socio-politico. Ne emerge in maniera nitida e netta quella “parola-mosaico” di cui si era fatto espressione icastica il giudizio di Enrico Falqui. Come scrive quest’ultimo, infatti, e come Leoncini riporta:

«Le parole di Cecchi s’inseriscono nella pagina […] con la precisione e col risalto delle tessere nel riquadro d’un mosaico, la vibrazione […] è nella lucente scaltrezza […] la risoluzione ‘strofica’ di capitoli e capitoli è quasi sempre in chiave di poesia. E dà luogo a quella trasposizione fantastico-stilistica per cui da un’impressione nettissima si travalica in un’astrazione nettissima […] Cecchi tocca l’immaginazione anche prima di aver fatto breccia sulla comprensione […] Ogni gravame letterario è messo da parte e a volte, quasi parrebbe, scartato, irriso […] Dove occorre, il periodo è libero, saltante, insinuante: vi si riconosce la voce, lo sguardo, il gesto dell’autore […] E segni che da prima parevano fingere un tatuaggio, finiscono col rivelarsi come le vivisezioni operate in un corpo nell’intento di scrutarne le fibre più addentro» (p. 23)

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SUL TAMBURO n.66: Franco Manescalchi, “Riviste di poesia del secondo Novecento a Firenze”

Franco Manescalchi, Riviste di poesia del secondo Novecento a Firenze nella memoria di Franco Manescalchi, Firenze, Polistanpa, 2017

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di Giuseppe Panella

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Quale è stato il ruolo di Franco Manescalchi nella cultura poetica del secondo Novecento a Firenze?

In che modo questo ruolo è stato centrale non cos’altro che a livello di testimonianza?

Il libro, attraverso la memoria evocata e ancora viva dei fatti, cerca di dare una risposta a questa domanda. Le riviste le cui vicende vengono riproposte ed evocate nel nucleo centrale del libro sono state parte importante della ricostruzione culturale del paese all’alba della caduta del fascismo e in vista della fondazione di una nuova coscienza morale e politica per l’Italia repubblicana appena nata. Nel primo dopoguerra, infatti, insieme alla continuazione di riviste già consolidate e nate in periodo fascista (L’Approdo di Carlo Betocchi, Letteratura di Alessandro Bonsanti, ecc.), sorgono e vivono, spesso come meteore, espressioni di gruppi ristretti di intellettuali e di scrittori che si pongono il compito di svecchiare la cultura provinciale fiorentina (e italiana), proponendo giovani autori, rilanciando correnti e personaggi apparentemente dimenticati, creando occasioni d’incontro e di amicizia letteraria.

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SUL TAMBURO n.65: Cinzia Della Ciana, “Passi sui sassi”

Cinzia Della Ciana, Passi sui sassi, prefazione di Adriana Gloria Marigo, Arcidosso (Grosseto), Effigi, 2017

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di Giuseppe Panella

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Si tratta della prima raccolta di poesie di Cinzia Della Ciana ad essere pubblicata in forma organica ma non è certo il suo primo tentativo di scrittura lirica e di messa in scena poetica del suo universo interiore. La tentazione della poesia, infatti, attraversa da sempre la sua scrittura e la sua modalità di intervento letterario e anche il suo romanzo d’esordio (Acqua piena d’acqua pubblicato per il medesimo editore nel 2016) non è mai privo di concessioni alla liricità di una narrazione densa di eventi descrittivi e non soltanto aneddotici o puramente narrativi.

Passi sui sassi è un libro “petroso”, scabro, rotto, frantumato, impietoso. Scrive Adriana Gloria Marigo nella sua densa Prefazione alla raccolta della Della Ciana:

«In questo scenario petroso, la parola di Cinzia Della Ciana segue la specchiatura: la parola è scelta e al contempo proviene dalle profondità psichiche, dagli ascendenti culturali, da certe radicalizzazioni geoantropologiche, dal centro di una terra che risuona di voci trecentesche, molto sonore. È parola che s’aggruma attorno al suono bruno di densità potente e arcaica, parola che sembra coniata nella fucina di Vulcano, parola che non necessita d’aggettivazione tanto s’avvale di specificità immediata, verticale, regale, austera e che si distende in stellazioni semantiche provenienti dalla capacità di rinnovare “i contorni più sottili delle parole” (Walter Pater)» (p. 8).

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SUL TAMBURO n.64: Amelia Casadei, “La grotta della Chimera”

Amelia Casadei, La grotta della Chimera, Firenze, Polistampa, 2017

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di Giuseppe Panella

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Chi abita la grotta della Chimera? Tanti personaggi bizzarri e misteriosi, tante figure diseguali e inespresse, tante occasioni perdute. La Chimera è il simbolo dell’imprevedibile e dell’aspirazione all’altrove, il suo volto impaurisce e sconvolge, il suo rito fondativo è l’aspirazione umana a trovare quello che non c’è laddove il piacere e il dolore si esauriscono e svaniscono tra i bagliori guizzanti della speranza e dell’amore.

 

Non so se fu un dolce vapore, / Dolce sul mio dolore, / Sorriso di un volto notturno: / Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti / E l’immobilità dei firmamenti / E i gonfii rivi che vanno piangenti /
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti / E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti / E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera (Dino Campana, Notturni. La Chimera)

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SUL TAMBURO n.63: Virgilio Moretti, “Il vicinato e i campi. Elegie”

Virgilio Moretti, Il vicinato e i campi. Elegie, Siena, Editrice Il mio amico, 2015

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di Giuseppe Panella

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C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per ridere e un tempo per piangere, un tempo per seminare e un tempo per sradicare le piante, un tempo per parlare e un tempo per tacere – ammonisce Salomone il saggio nell’Ecclesiaste. Il tempo delle culture agrarie da sempre è scandito da eventi sempre uguali e mossi da moventi sempre simili nelle attese e nei risultati: la semina, la crescita delle piante, dei fiori e dei frutti, la raccolta, la vendemmia, la conservazione dei prodotti ottenuti, la programmazione sempre la stessa e sempre diversa del futuro prossimo.

I riti agrari che si tingono di religiosità diffusa e spesso inconsapevolmente pagana, la conservazione di pratiche tradizionali tramandate nel tempo, la sicura ripetizione di pratiche antiche e legate alle generazioni scandiscono i ritmi delle Opere e i giorni che Virgilio Moretti riscrive nel suo libro. Come Esiodo ha fatto nel poemetto che lo ha consegnato alla storia della letteratura occidentale, l’esame delle attività agricole più significative è legata al loro significato mitico-cultuale e alla loro dimensione psicologica. L’opera esiodea viene classificata come un testo didascalico e descrittivo ma ovviamente si tratta di un giudizio troppo riduttivo: il poeta greco di Ascra abbozza nella sua analisi dell’attività lavorativa rurale del tempo suo una scansione narrativa legata a una vera e propria filosofia della storia (il passaggio dall’Età dell’Oro della felicità produttiva primigenia all’Età del Ferro attuale cui si giunge dopo aver attraversato l’Età dell’Argento, del Bronzo e degli Eroi) e le attività lavorative dei contadini vanno inquadrate in questo contesto generale (e drammaticamente pessimistico).

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SUL TAMBURO n.62: Stefano Petruccioli, “I miglioratori del mondo. Utopia e democrazia tra letteratura, fumetto, filosofia”

Stefano Petruccioli, I miglioratori del mondo. Utopia e democrazia tra letteratura, fumetto, filosofia, Bergamo, Moretti & Vitali, 2017

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di Giuseppe Panella

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Prima di tutto bisogna chiedersi chi siano “i miglioratori del mondo”. Sono coloro i quali aspirano, in realtà, più che a migliorarlo e a renderlo più adeguato alle esigenze umane, a cambiare il mondo in profondità, a creare un nuovo modello di Uomo, a rendere la vita perfetta e agibile per sempre e non solo per il limitato orizzonte di ogni individuo che vive nel presente. “I filosofi finora si sono limitati a interpretare il mondo, si tratta però di cambiarlo” – hanno scritto Karl Marx e Friedrich Engels nella undicesima delle loro Tesi su Feuerbach. Il fatto è che per rendere la realtà umana abitabile e gestibile per tutti, per portare la felicità sulla Terra, per permettere al mondo di essere ordinato, confortevole e compiutamente trasformato, libero dagli impacci della Storia e dalle angosce della mancanza di libertà e dell’impossibilità di sopravvivere senza stenti e sofferenze, quello stesso mondo deve essere distrutto e il nuovo sorgere sulle macerie del vecchio. Occorre distruggere il presente per organizzare il futuro, è necessario cancellare il passato per preparare in maniera adeguata l’avvenire dell’umanità. Si tratta di realizzare in modo compiuto e onorevole l’utopia che permetterà di cancellare diseguaglianza e dolore e instaurare il regno della libertà e dell’uguaglianza umana. Questo può compare perdite umane e dolore e sofferenza a chi si oppone al cambiamento o la fine di intere generazioni ed epoche della vicenda umana: c’è da pagare un prezzo di illibertà e di sopraffazione per una libertà futura mai conosciuta prima e per la felicità possibile da ottenere per tutti al costo dell’infelicità di alcuni. Ogni rivoluzione, ogni trasformazione storica, ogni cambiamento epocale comporta questo necessariamente. Ma quello che bisogna chiedersi è se questa palingenesi, questa “grande trasformazione” avverrà da davvero. I “miglioratori” miglioreranno davvero il mondo?

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SUL TAMBURO n.61: Andrea Verri, “Per la giustizia in terra. Leonardo Sciascia, Manzoni, Belli e Verga”

Andrea Verri, Per la giustizia in terra. Leonardo Sciascia, Manzoni, Belli e Verga, prefazione di Ricciarda Ricorda, Mira (Venezia), ArtPrint Editrice, 2017

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di Giuseppe Panella

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La bibliografia su Leonardo Sciascia e la sua produzione letteraria, saggistica, aforistica, teatrale (e chi più ne ha più ne metta) è ormai così vasta e così ampia da risultare incontrollabile anche al più attento dei critici e /o dei lettori. Questa raccolta di saggi di Andrea Verri sarebbe sfuggita anch’essa se non fosse per l’originalità delle connessioni e dei rapporti che costruisce a partire dallo scrittore siciliano per giungere a lambire e affrontare gran parte della cultura letteraria italiana. La cultura letteraria dispiegata da Sciascia nelle sue opere è stata enorme e i collegamenti presenti nella sua produzione sono stati di grande ampiezza e notevole qualità fino a formare una vera e propria ragnatela di riferimenti letterari. L’intertestualità, quindi, come tecnica di indagine a livello di analisi della tessitura stilistica e ideologica presente nelle opere dello scrittore siciliano costituisce il contributo metodologico più significativo presente in questo volume di Verri mentre a livello tematico molto significativi sono i diversi sondaggi compiuti riguardo la sua relazione con alcuni autori classici italiani e il suo possibile riscontro nel complesso della produzione stessa sciasciana.

Come annota Ricciarda Ricorda nella sua intensa prefazione al volume:

L’attenzione al dato etico sembra essere il filo rosso che consente di accostare all’analisi del manzonismo di Sciascia il rilevamento del suo interesse per Belli, la cui continuità nel tempo Verri riporta a ragione proprio alla dimensione morale evidente nella produzione del poeta ottocentesco. Anche in lui, dunque, lo scrittore siciliano cerca quanto più gli sta a cuore, cerca, nonostante tutte le differenze e la distanza, se stesso» (p. 3).

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SUL TAMBURO n.60: Paola Rondini, “Crepapelle”

Paola Rondini, Crepapelle, Roma, Intrecci Edizioni, 2017

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di Giuseppe Panella

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Un romanzo enigmatico, un romanzo ricco di pathos, un romanzo che allude a una realtà sfuggente e disorientata, un romanzo senza idillio – e si potrebbe continuare a lungo a inanellare definizioni per un testo narrativo ricco e straziato come questo, frutto di una deliberata volontà di nascondere i retroscena per potere (e sapere) mostrare meglio ciò che soprattutto conta e che viene esibito sulla scena della realtà sconcertante e senza asse centrale che si trova costretto a mettere in evidenza.

La cifra stilistica di quest’opera narrativa è, infatti, l’allusione: gli eventi narrati vengono accennati, sfumati, avvolti in una nebbia di dubbio o allucinati dalla mente di chi li vive ma mai descritti per quello che sono stati veramente (o che si presume siano stati). I diversi personaggi che si succedono sulla scena non sanno che cosa vogliono o che cosa hanno voluto fare: non lo sa il dottor Giacomo Selvi nel momento in cui compie scelte decisive per la sua vita, non lo sa Greta Lensi quando decide di sottoporsi a una complessa operazione di chirurgia estetica che dovrebbe riportare il suo volto alla passata freschezza e giovinezza, non lo sa l’astrofisico Edoardo Valori quando distribuisce per strada, davanti alla casa di riposo per anziani in cui vive, dei fogli che contengono la rappresentazione della lemniscata di Bernouilli il che gli permette di continuare a pensare di avere un ruolo nella vita di chi incontra per caso. Il racconto della vicenda umana e sentimentale di Edo la cui fidanzatina Giselda muore per un tragico errore durante un rastrellamento di guerra ad opera dei tedeschi è al centro del romanzo e rappresenta il cuore pulsante della narrazione. La sua scoperta di un mondo parallelo a quello reale, un “infundibolo” (per dirla con un’espressione ricreata da Kurt Vonnegut nel suo Le sirene di Titano utilizzando un’analoga creazione linguistica di Beckett), lo porta a costruirsi un mondo tutto proprio mediante il quale sfuggire al dolore della perdita della persona amata e all’angoscia della vita quotidiana durante le vicende della guerra.

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SUL TAMBURO n.59: Emiliano Gucci, “Voi due senza di me”

Emiliano Gucci, Voi due senza di me, Milano, Feltrinelli, 2017

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di Giuseppe Panella

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Un bambino morto in circostanze misteriose osserva ciò che accade ai suoi genitori nel corso di vent’anni della loro vita e trova che poco o nulla è cambiato in essa. Sembra una variazione sul tema del Sesto senso (il film d’esordio di M. Night Shyamalan del 1999) o una ripresa di Amabili resti (romanzo di Alice Sebold del 2002, film di Peter Jackson nel 2009). Ma le cose non stanno così.

Il punto di vista del bambino non è l’unico a costituirsi come l’angolazione del romanzo di Gucci: lo sguardo dall’alto viene spesso sostituito e si intreccia con quello dei due protagonisti Michele e Marta. I punti di vista, quindi, alla fine risultano tre: quello del bambino defunto che non ha nome e che risulta senza età registrabile, quello dell’uomo il cui tentativo di recupero sentimentale con Marta viene descritto nella prima parte del romanzo, quello della donna che cerca di ritrovare l’uomo che ha perso come compagno di una vita insieme al bambino scomparso.

Tra i due protagonisti si apre uno iato legato all’incidente in cui il loro figlioletto è morto: non si saprà mai, infatti, se è perito vittima di un incidente dovuto a trascuratezza o goffaggine della mamma oppure sia stata lei a mettere fine alla vita del suo bambino in un momento di aberrazione e di perdita di senso. Il rapporto tra i due innamorati si interromperà in quel momento e non verrà più recuperato anche successivamente – inoltre sulle spalle della madre rimarrà sempre a pesare il dubbio che sia stata proprio lei a far morire il proprio figlio (così infatti il paese in cui abitavano interpreterà la vicenda condannando la mamma all’infamia del delitto volontario).

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SUL TAMBURO n.58: Simona Lo Iacono, “Il morso”

Simona Lo Iacono, Il morso, Vicenza, Neri Pozza, 2017

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di Giuseppe Panella

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Il titolo del quinto romanzo di Simona Lo Iacono (vincitrice nel 2017 della trentesima edizione del Premio Chianti con Le streghe di Lenzavacche, pubblicato dalle Edizioni E/O) si può estrarre dai versi di Salvatore Quasimodo che fanno da epigrafe al libro. I versi, citati dalla raccolta Giorno dopo giorno del 1947, esprimono lo strazio e l’angoscia legati alle vicende della guerra appena finita e le cui macerie sono ancora visibili agli occhi di tutti: “Vi riconosco, miei simili, / o mostri della terra. / Al vostro morso è caduta la pietà, / e la croce gentile ci ha lasciati. / E più non posso tornare nel mio eliso”. Il “morso”, di conseguenza, rappresenta il male di vivere, il dolore che nasce dalla sofferenza inflitta da chi ha dimenticato la propria umanità, l’impossibilità di condividere con gli altri esseri umani sentimenti di amore e di compassione. Lucia Salvo è soggetta alla necessità del male che la colpisce improvvisamente e inopinatamente, il “fatto”, gli attacchi epilettici che la lasciano stravolta e quasi annientata e che hanno convinto gli altri della sua natura di creatura “babba”, stupida, pazza, incapace di ragionare correttamente. Mandata a servizio a Palermo dalla nativa Siracusa, la ragazza si trova ad essere oggetto dei desideri lascivi del Conte figlio i cui desideri nella vita si riducono essenzialmente alla soddisfazione del ventre (i cibi succulenti ed elaborati che vengono cucinati dai “monsù”, i cuochi di scuola francese che dettano legge sul gusto delle grandi famiglie patrizie di Palermo) e al godimento sessuale ottenuto facilmente grazie a signorine mercenarie e compiacenti. Lucia, appena arrivata a palazzo e sottoposta al controllo severo e minuziosamente feroce del nano Minnalò, si rifiuta di soggiacere al desiderio impetuoso e insincero del Conte figlio, sempre in attesa del matrimonio combinato con Assunta Agliata, una ragazzina testarda e capricciosa che patti di alleanza precedenti e legati di famiglia gli impongono di prendere in sposa. Questo suo rifiuto così inconsueto per l’uomo lo getterà in una crisi profonda che lo condurrà poi successivamente alla consapevolezza della vera natura dei propri istinti sessuali (e a ri-conoscere il proprio desiderio omosessuale nei confronti del “castrato signorino”, il cantore di famiglia innamorato di lui).

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SUL TAMBURO n.57: Fabrizio Coscia, “La bellezza che resta”

Fabrizio Coscia, La bellezza che resta, Siena, Melville Edizioni, 2017

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di Giuseppe Panella

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Con questo suo non facilmente definibile testo narrativo (né romanzo, né saggio, né testo di critica letteraria), Fabrizio Coscia tenta un’interpretazione molto azzardata e molto affascinante del problema fondamentale di ogni vita umana: quello della morte che attende tutti ma che ognuno vive, fino all’ultimo, a modo suo – con rassegnazione, con coraggio, con rabbia, con volontà di sapere, con la certezza che dopo il trapasso ci sarà un’altra vita, con la sicurezza che dopo di lui non ci sarà più nulla, con pudore, con sfrontatezza, con desiderio …

Coscia esamina, con la consueta acribia, le opere finali di una serie di intellettuali e di artisti verificando, attraverso una ricostruzione del loro dispositivo formale ma anche ovviamente del loro contenuto, come scrivendo o componendo o registrando opere musicali (è il caso di Glenn Gould) o dipingendo, essi si siano avviati alla morte, si siano apprestati “a cominciare a morire” (come dice un personaggio del romanzo Chadži-Murat di Tolstoj, il soldato Avdèev, che è stato ferito gravemente e che sa che la sua vita è al termine).

E’ il caso dell’”ultima stazione” di Tolstoj – la sua fuga finale che culminerà con la morte in una piccola stazione, Astàpovo, sulla linea ferroviaria a duecentocinquanta miglia a sud-est di Mosca.

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SUL TAMBURO n.56: Paolo Codazzi, “Il pittore di ex-voto”

Paolo Codazzi, Il pittore di ex-voto, Napoli, Tullio Pironti Editore, 2017

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di Giuseppe Panella

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Il fortunato salvataggio e il destino felice del marinaio Tommaso Ferrando, naufragato con il piroscafo “Perugia” nell’Oceano Pacifico nel 1904, campisce sulla copertina di questo nuovo romanzo di Paolo Codazzi (che sostituisce quasi totalmente il precedente Il destino delle nuvole del 2010 che pur narra una storia analoga a quella presente nelle pagine di Il pittore di ex-voto).

L’ex-voto è di solito una tavoletta di legno su cui pittori di non grande qualità innovativa dal punto di vista artistico (o più prosaicamente degli efficaci realizzatori di croste) ma molto abili nell’immedesimarsi nel pathos dell’evento rappresentato e nel renderlo efficacemente.

Il pregio di un pittore di ex-voto non era la sperimentazione pittorica che porta a compimento né la resa mimetica dell’opera né la fedeltà al soggetto ma la sua capacità di mostrare la fede di chi ha ordinato il quadretto e la forza miracolosa e inarrestabile della divinità che ha permesso al miracolato di sopravvivere. E’ la fede, quindi, a sostenere il quadro, non la verità – chi ordina l’ex-voto per dimostrare riconoscenza e devozione alla Madonna o ai Santi autori e intercessori del fatto miracoloso non lo fa per realizzare un'(improbabile) opera d’arte ma per testimoniare che “lassù Qualcuno lo ama” e che è sceso sulla terra per salvarlo da morte sicura (o dalla perdita di arti, mani, piedi, braccia compromessi da incidenti del più vario tipo e livello). Inoltre la dipintura del fatto miracoloso permette di porre in bella evidenza la predilezione del santo o della Madonna autore/ ice del salvataggio nei confronti del loro devoto diletto e salvato per la sua devozione precedentemente dimostrata (come riferiva Michele Rak in una conferenza da me ascoltata nel 1982 e che costituiva la presentazione molto articolata di un grosso libro, Per grazia ricevuta. Le tavolette dipinte ex voto per il santuario della Madonna dell’Arco, Napoli, CST Cooperativa editrice, 1983, in cui analizzava la semantica della rappresentazione votiva).

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SUL TAMBURO n.55: Roberto Lasco, “Frammenti lirici”

Roberto Lasco, Frammenti lirici, Lecce, Youcanprint Self Publishing, 2016

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di Giuseppe Panella

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L’esordio poetico di Roberto Lasco è classico e temperato – i suoi Frammenti lirici testimoniano un afflato riflessivo e sentimentale non indifferente. I temi che Lasco tocca e approfondisce sono legati alla tradizione lirica italiana – come lo stesso titolo della raccolta intende testimoniare – ma nella sua scrittura non mancano novità di un certo pregio e rilievo:

«Vivere. Agitato, riordino il caldo sapore / dell’esistenza. / Succede che l’attimo è sfuggente / perché coglie l’essenza, / che compare misera e stanca / in compagnie estetiche. / Libero le ali consumate / dal veleno del tempo, / che corre per anelare / sicuro dell’impeto / che mi trascina leggiadro / fra mete incantate. / Il vivere per il vivere / s’atrofizza in distese d’immenso, / quasi a significare che il vago / ha conquistato l’essere. / Echi lontani, dispersi nell’aria / rivelano l’intimo gioire / di chi pensa che tutto s’ottiene / senza il plauso dell’infamia. / Giardini sommersi appaiono / come scene di un teatro che / ha perso splendore perché svilito / dalla coltre della saggezza» (p. 18).

“Vivere per vivere” è la risposta all’infinito protrarsi dell’attesa di fronte alla difficoltà a selezionare e a catalogare il tutto, all’impossibilità di dargli un senso. Il “caldo sapore dell’esistenza” è quello che la poesia deve recuperare, ritrovare, riassaporare e far rilucere nel limbo traslucido della coscienza. La scrittura poetica si pone il compito, difficile e meraviglioso, di librarsi nel cielo terso e lucido di ciò che è destinato a durare, liberandosi dal “veleno del tempo”. Infatti, la bellezza del mondo si dispiega in tutto il suo fulgore nel tempo senza tempo che costituisce il teatro della vita resa purificata dalla forza della parola del verso.

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SUL TAMBURO n.54: Roberto Cecchetti, “La metrica dell’apparenza”

Roberto Cecchetti, La metrica dell’apparenza, Carmignano (PO), Attucci Editrice, 2017

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di Giuseppe Panella

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Esiste una metrica dell’apparenza valutabile e considerabile come l’effetto di un rapporto organico e definitivo con la realtà della vita e delle cose? E’ possibile trovare la verità sottesa e nascosta dietro le vicende dell’esistenza di ognuno e soprattutto dietro la propria?

Roberto Cecchetti prova a raggiungere questo risultato analizzando e ricostruendo un’estate significativa della propria vita (quella dei suoi diciotto anni, l’anno della separazione forzata e apparentemente inspiegabile tra suo padre e sua madre).

Il suo romanzo-autobiografia di esordio individua in una serie di episodi, di figure-chiave, di macchiette e di stereotipi umani destrutturati e ricostruiti secondo questa loro qualità rappresentativa la possibilità di dare un senso e di individuare un significato a una vicenda che altrimenti rischierebbe di non averne. Romano Madera nel suo breve testo introduttivo scrive del racconto-scontro di Cecchetti con il mondo che si tratta:

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SUL TAMBURO n.53: Henry Ariemma, “Aruspice nelle viscere”

Henry Ariemma, Aruspice nelle viscere, Borgomanero (Novara), Giuliano Ladolfi Editore, 2016

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di Giuseppe Panella

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La lettura delle viscere degli animali (uccelli come le colombe ma anche ovini come agnelli e montoni) costituiva una pratica comune tra gli antichi nell’ambito dell’attività divinatoria dei sacerdoti (maestri nell’aruspicina o estispicina erano stati gli Etruschi e la pratica sacra che li vedeva trovare responsi e verità nella profondità dei corpi degli animali sacrificati costituiva gran parte del rapporto tra il popolo e gli Dei da esso adorati). Gli aruspici trovavano nelle viscere e negli organi che le compongono le tracce di un futuro che solo la divinità poteva conoscere e che agli uomini si rivelava soltanto per accenni, per allusioni, per frammenti, per sospetti: i corpi dei volatili o degli ovini contenevano un segreto che solo occhi esperti e qualificati potevano scorgere e sanzionare.

Tale pratica divinatoria, forse, assomiglia a quella dei poeti che estraggono il futuro della lingua a venire dal corpo enorme dei vocabolari (o della lingua parlata) che sventrano e dissezionano per estrarne la verità nascosta.

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SUL TAMBURO n.52: Giorgio Delia, “In partibus infidelium. Appunti su alcuni poeti in dialetto dell’Italia repubblicana”

Giorgio Delia, In partibus infidelium. Appunti su alcuni poeti in dialetto dell’Italia repubblicana, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino Editore, 2016

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di Giuseppe Panella

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Ci sono zone della cultura italiana contemporanea e, in special modo, quelle legate alla poesia dialettale che sono spesso considerate dei continenti misteriosi, ancora inesplorati, dagli studiosi e dai critici letterari che dovrebbero o potrebbero occuparsene e non lo fanno per difficoltà endogene ed esogene. Quelle endogene sono costituite dalle poesie stesse in esame e dalla loro più o meno esplicita cripticità, ermeticità o difficoltà espressiva; quelle esogene, esterne, invece sono legate alla scarsa conoscenza dei dialetti usati che, per effetto dell’omologazione culturale, del disuso e della disaffezione nei loro confronti non sono più effettivamente ben conosciuti neppure tra gli esperti di storia della poesia italiana.

Giorgio Delia non appartiene al novero di tali studiosi disattenti, anzi ha investito molte delle sue energie di critico letterario, oltre che nello studio di Benedetto Croce come cultore di letteratura, in quello del poeta che predilige tra tutti: Albino Pierro.

Il suo ultimo libro raccoglie, infatti, scritti e approntati su «opere di poesia edite fra il secondo Novecento e l’inizio del Duemila», in un arco di tempo non vastissimo ma sicuramente sufficiente a far comprendere il metodo di lavoro e la prospettiva di poetica di alcuni di essi (il saggio “Come lavorava Pierro” – alle pp. 67-112 del volume– è emblematico al riguardo) . Gli autori esaminati e analizzati non sono stati prescelti sulla base di limiti geografici o storici di sorta e sono stati esaminati a partire dal «meridiano più a sud dell’Italia», da luoghi inseriti in una dimensione ben definita della Basilicata (Albino Pierro, Domenico Brancale), della Calabria (Giacinto Luzzi, Dante Maffia), della Sicilia (Nino De Vita), e «nel momento in cui ne hanno avvertito maggiormente lo stato di abbandono perché giammai rassegnati alla morte dei dialetti» (p. 7).

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SUL TAMBURO n.51: Marino Magliani, “Carlos Paz e altre mitologie private”

Marino Magliani, Carlos Paz e altre mitologie private, Genova, Amos Edizioni, 2016

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di Giuseppe Panella

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Più che di mitologie private sono in questione, in questa raccolta di racconti, i sogni e le aspirazioni letterarie di Marino Magliani. Molti dei testi contenuti in questo suo libro che è quasi una sintesi dei suoi temi maggiori e delle sue aspirazioni letterarie più forti sono riflessioni sull’arte dello scrivere, divagazioni poetiche sulla vita e le sue difficoltà maggiori, progetti di ulteriori romanzi.

E’ noto (e comprovato anche da prestigiosi riconoscimenti ottenuti negli ultimi anni) che il tema che maggiormente mette alla prova la mente narrativa di Magliani è quello dell’esilio (letterale e letterario insieme). Perché Magliani è uno scrittore per vocazione ma ha potuto estrinsecarla e metterla in valore solo fuori dal suo terreno naturale di coltura (la Liguria rocciosa e spesso abbandonata del territorio di Imperia) e ha dovuto trapiantarla in terre straniere e più o meno accoglienti (l’Argentina la Spagna la Germania IJmuiden vicino ad Amsterdam dove vive attualmente e dove preferibilmente lavora e produce letteratura).

Per questo motivo, Villa Carlos Paz in Argentina rappresenta il luogo del dislocamento assoluto e, infatti, proprio nel racconto con questo titolo, l’Io narrante vive le sue stesse esperienze di estraneamento assoluto e di doloroso quanto necessario trapianto di sé in un corpo estraneo e spesso ostile, un trapianto che però non è solo una mutilazione di sé ma anche un arricchimento poderoso della propria soggettività. I viaggi, la morte si potrebbe dire, parafrasando il titolo di una raccolta di saggi di Gadda: i viaggi sono l’anticamera, la prefigurazione della morte e quest’ultima consiste nella rarefazione della vita. La scrittura rende conto di questo processo: la sabbia, la povere, i residui solidi eppure volatili di cui si nutre il primo testo del libro ne è metafora chiarificatrice e illuminante.

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SUL TAMBURO n.50: Patrizio Fiore, “Il ricamo mortale”

Patrizio Fiore, Il ricamo mortale, Napoli, Tullio Pironti Editore, 2016

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di Giuseppe Panella

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Il “ricamo mortale” del titolo richiama iconicamente il mesotelioma pleurico che Orazio Niccoli, medico in servizio da anni presso l’ambulatorio per extracomunitari dell’ospedale Santa Maria di Loreto Mare di Napoli, riscontra in una ragazza di 28 anni, un’età in cui è molto difficile che questa patologia si manifesti. E’ il sintomo di un’esposizione all’amianto che si rivela mortale nei casi in cui avvenga prolungatamente. Questa scoperta sconvolge il medico:

«Quella diagnosi, inappellabile, lo aveva lasciato inebetito. Dopo tanti anni di duro lavoro, tanti turni di pronto soccorso non aveva perso il “vizio”, come molti colleghi gli rinfacciavano, di farsi coinvolgere dalle condizioni dei suoi pazienti. Eppure, questa volta c’era qualcosa in più: lo aveva avvertito a pelle sin dal primo momento in ambulatorio. Quella povera ragazza lo aveva attratto immediatamente: se si fosse trattato di amore, sarebbe stato un perfetto colpo di fulmine. Ma non si trattava di amore, piuttosto di quel suo sesto senso che gli faceva captare immediatamente l’intensità della sofferenza, la devastazione della malattia, l’angoscia del possibile exitus. […] “Le cellule esaminate sono compatibili con la diagnosi di mesotelioma pleurico in fase avanzata”. Mesotelioma pleurico: una vera e propria condanna. Una neoplasia rara, ma ad alta malignità e con il 100% di letalità, cioè tutti quelli che ne risultavano affetti erano destinati a morte certa entro massimo due anni» (p. 79).

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SUL TAMBURO (extra): Ugo Fracassa, “Per EMILIO VILLA. 5 referti tardivi”

Ugo Fracassa, Per EMILIO VILLA. 5 referti tardivi, con una nota di Aldo Tagliaferri, Roma, Lithos, 2014

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di Giuseppe Panella

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Su Emilio Villa non c’è molto nella letteratura secondaria relativa alla poesia italiana del secondo Novecento e quello che si può leggere tende a unificare tutta la sua attività di artista, in uno sforzo certo meritevole (la monografia di Aldo Tagliaferri, per l’editore Skira di Milano, ad es. è un’analisi assai rilevante sotto il profilo metodologico e umano così come la ricostruzione di Elena La Spina per il catalogo della mostra di Reggio Emilia a lui dedicata). La monografia “per saggi” di Ugo Fracassa, invece, privilegia aspetti significativi dell’opera poetica di Villa pur senza perdere di vista la sua prospettiva artistica. I 5 referti tardivi contenuti nel libro rappresentano, invece, un’ “opera di carotaggio” (come li definisce Aldo Tagliaferri in Dell’ordine e/o della fuga, la sua cospicua nota finale al volume, che chiarisce e ribadisce alcuni dei punti centrali nel discorso di Fracassa).

Va chiarito fin da subito che l’equazione che vede Villa discepolo del futurismo paroliberistico non trova nei saggi contenuti in questo libro nessuna conferma (nonostante la vulgata lo voglia figlio tardivo del movimento di Marinetti) dato che la matrice plurilinguistica di molta della sua opera di mezzo trova in altri modelli e altre fonti un possibile appiglio (ma Villa non risparmiava i suoi distinguo critici anche nei confronti di Pizzuto, ad es. , o del Finnegans Wake di Joyce).

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SUL TAMBURO n.49: Adam Vaccaro, “Seeds (Semi)”

Adam Vaccaro, Seeds (Semi), selected, edited, translated and Introduced by Sean Mark, New York, Chelsea Editions, 2014

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di Giuseppe Panella

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Da molti anni, Adam Vaccaro conduce una ricerca attenta, sofisticata e puntuale su un’idea di poesia che lo contraddistingue e alla quale si è consacrato con risultati eccellenti: da La vita nonostante (Milano, Studio d’autore, 1978) a La casa sospesa (Novi Ligure (AL), Joker, 2003) la sua attenzione di poeta è stata concentrata su una serie di nozioni teorico-psicologico-esistenziali culminanti nell’idea di adiacenza poetica, idea che presuppone la condivisione espressiva di sentimenti ed esperienze che si fanno realtà concreta nel momento in cui vengono trasformate in parola viva e senza ulteriori mediazioni. Al centro del pensiero poetico di Vaccaro, allora, si trova questa nozione-chiave che indica la condivisione di una tendenza, di una capacità di cogliere le radici di ciò che è presente senza sterili tradizionalismi o rivendicazioni del passato ma alla luce di un impegno di redenzione del futuro. Scrive Sean Mark nella sua utilissima introduzione alla raccolta, un saggio dal titolo emblematico di “Accendere segni”. Sulla poesia di Adam Vaccaro:

«Spendiamo qui qualche parola per spiegare un concetto chiave della poeta vaccariana, quello dell’“adiacenza”. Rinunciando alla pretesa di un’adesione stringente alla Cosa (evento, esperienza o oggetto d’indagine filosofica che sia), la parola poetica può solo aspirare a collocarsi nella sua prossimità (ad-jacere), e da questa prossimità ne può raccogliere le sensazioni, percezioni ed immagini che, insieme, costituiscono la nostra esperienza di mondo. Atmosfere, suoni, parole, fonemi e il linguaggio, anche scarno e frammentato, tendono ad approssimarsi il più possibile all’evocare la Cosa, o un particolare paesaggio, scenario o esperienza: adiacenze che colgono una molteplicità di percezioni» (p. 12).

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SUL TAMBURO n.48: Andrea Fallani, “L’ascesa della Luna”

Andrea Fallani, L’ascesa della Luna, Borgomanero (Novara), Giuliano Ladolfi Editore, 2016

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di Giuseppe Panella

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L’allusione è, quasi naturalmente, a La caduta della luna di Giacomo Leopardi, composto presumibilmente nel 1836, è forse l’ultimo testo poetico scritto dal poeta di Recanati prima di morire (addirittura sul letto di morte, se si deve credere all’aneddotica di Antonio Ranieri, sovente propensa a un suo“mitizzare pallido e assorto” in nome dell’amicizia di un tempo). Ma non è questo il problema, non è questo quello che conta. L’imagery di Fallani, tutta protesa a ridosso della grande tradizione lirica italiana (da Leopardi appunto a Pascoli o a Montale – come con accortezza critica annota Giulio Greco nella sua nota introduttiva titolata Cantore della vita), è intrisa di soluzioni liriche legata al passato ma si impone, con freschezza e impazienza insolite, con il suo desiderio conclamato di un’originalità tutta legata all’esplorazione di un continente che appare anch’esso nuovo e inedito allo sguardo del poeta. Fallani ha le idee chiare sulla poesia e sulla sua funzione espressiva e si prova a risolvere il problema del rapporto tra passato e presente con soluzioni tutt’altro che scontate. Il suo libro si configura, inoltre, come l’inizio di un probabile rapporto futuro e fruttuoso con la poesia e, quindi, allo stesso modo di tutte le opere di un esordiente, contiene tutto il passato prossimo del suo autore e segnala, pur nella sua maturità espressiva, una serie di tracce liriche da analizzare criticamente per comprendere la sostanza profonda della sua operazione poetica. In lui c’è, insomma, per dirla con il titolo di un bellissimo racconto di Stephen Crane, “il passo della giovinezza” e di questo bisogna tenere conto. Lo puntualizza in maniera accorta anche lo stesso prefatore del testo in una delle svolte critiche della sua presentazione:

«[…] Andrea Fallani può essere considerato il vero cantore della giovinezza, di quel periodo che volgarmente e superficialmente viene considerato il più bello, il più spensierato, il più felice dell’esistenza. Il poeta, infatti, documenta come all’interno dell’attuale società “liquida”, caratterizzata dall’assenza di certezze, di prospettive e di valori cui ancorare il progetto del futuro, il giovane preferisca “l’ascesa della luna” al sorgere del sole» (p.8 ).

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SUL TAMBURO n.47: Andrea Bassani, “Lechitiel”

Andrea Bassani, Lechitiel, Lecce, Terra d’ulivi Edizioni, 2016

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di Giuseppe Panella

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Lechitiel è un angelo: soccorre i disederati e gli infelici, conforta gli aspiranti suicidi, accorre laddove c’è bisogno di una parola di conforto, è al fianco di Gesù nell’Orto degli Ulivi quando il dolore e l’angoscia per la fine imminente stanno per prevalere e il “sudore di sangue” scorre a precorrere l’evento della morte inevitabile e tremenda.

Lechitiel appartiene alla schiera celeste angelica dei Principi (insieme ai Troni e alle Dominazioni) e quindi ha un ruolo determinante nelle vicende umane (chi lo invoca almeno due volte l’anno resta immune dalla tentazione di darsi una morte volontaria).

Lechitiel rappresenta lo sforzo degli uomini di trovare una ragione valida e inconfutabile per superare l’inutilità sempre insorgente di continuare a vivere.

Lechitiel costituisce la ragione della poesia nell’ottica di poetica di Andrea Bassani.

La poesia è un atto di carità ma non per questo motivo è caritatevole nel senso negativo e zuccheroso del termine, non è mielosa, non è la pratica melensa del dare un’elemosina a qualcuno che si trova in difficoltà per poi volgere altrove, in segno di disprezzo, il volto proprio rispetto a quello di chi si dice di voler aiutare.

La poesia si sente coinvolta nel dolore del mondo, si sente portata a partecipare, si sente capace di dare un contributo a risolvere i problemi che descrive e che conforta e di cui si accorge che non si parla abbastanza. La poesia, per Bassani, è un atto di dolore.

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SUL TAMBURO n.46: Marc Augé, “Football” & Alain Corbin, “Breve storia della pioggia”

Marc Augé, Football. Il calcio come fenomeno religioso, trad. it. di Eleonora Montagner, Bologna, EDB, 2016

Alain Corbin, Breve storia della pioggia. Dalle invocazioni religiose alle previsioni meteo, trad. it. di Valeria Riguzzi, Bologna, EDB, 2016

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di Giuseppe Panella

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Che cosa collega questi due brevi saggi, densi e succosi come limoni maturi e altrettanto capaci di dare sapore e colore a ricerche che altrimenti si rivelerebbero pure espressioni del tempo e della moda sociologici? Il calcio analizzato nel breve saggio di Marc Augé, antropologo culturale e studioso della contemporaneità più diretta, non è certamente lo sport che inflaziona gli schermi televisivi di tutto il mondo mentre la pioggia ricostruita nei suoi effetti soggettivi e letterari da Alain Corbin non è soltanto un fenomeno meteorologico ma una “categoria dello spirito”.

Lo “sguardo a distanza” evocato dall’antropologo francese e considerato caratteristico degli eventuali osservatori “uroni o irochesi o persiani” che avessero dovuto concentrarsi su fenomeni da essi considerati strani e inauditi (come avviene a più riprese nelle Lettere persiane di Montesquieu o in L’Ingenu di Voltaire) permette di riconoscere nel rito della partita di calcio settimanale (spesso praticato anche nei giorni intermedi della settimana in occasione di competizioni internazionali) un evento che va al di là del puro e semplice fatto sportivo. L’idea della partita di calcio come rito che ad Augé deriva da una rilettura critica di Durkheim è semplicemente il portato di un’osservazione empirica (l’afflusso di spettatori davanti alla TV per le partite di pallone o gli spostamenti in massa verso i campi da gioco nel periodo dei diversi campionati) che però si rovescia in un’affermazione teorica di respiro generale:

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SUL TAMBURO n.45: Diego Baldassarre, “Sinopie segrete”

Diego Baldassarre, Sinopie segrete, Falloppio (Como), LietoColle Editore, 2016

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di Giuseppe Panella

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Una sinopia è, nel linguaggio tecnico dei percorsi storico-artistici, il disegno preparatorio di un affresco, la sua fase iniziale che però si perde e si annulla nell’opera finale al momento della realizzazione compiuta di essa. Senza di essa, tuttavia, e senza la traccia lasciata sull’intonaco preparato per la pittura, l’opera pittorica non avrebbe corso e forse non avrebbe neppure senso.

Le “sinopie segrete “ del titolo alludono evidentemente al segreto corso della poesia, alla traccia nascosta che collega parole e immagini nell’ordito dell’ispirazione lirica.

Allude, tuttavia, anche e soprattutto alla mano del poeta che traccia linee di passaggio che collegano i suoi sogni e le sue emozioni alle parole designate per definirle e poi comunicarle a chi è in grado di accettarle e assimilarle come tali. La “sinopia segreta” del titolo allude probabilmente a questa necessità di produrre parole e versi che passano attraverso situazioni, spesso minime o non necessariamente significative come accadimenti, ma capaci di segnare e produrre impercettibili graffi sulla superficie verbale della realtà.

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SUL TAMBURO n.44: Marco Fagioli – Stefano Lanuzza, “Arletty, Sartre e Louis-Ferdinand Céline”

Marco Fagioli – Stefano Lanuzza, Arletty, Sartre e Louis-Ferdinand Céline, Firenze, AIÓN, 2016

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di Giuseppe Panella

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Céline-Destouches amava il cinema ma non solo per le sue qualità artistiche e attoriali: sperava di riuscire a guadagnarci una quantità considerevole di quattrini da lasciare alla moglie Lucette Almansor quando sarebbe scomparso dato che i diritti d’autore accumulati nel tempo non sarebbero bastati a questo scopo. Lo scrittore di Courbevoie credeva che dalle sue opere e dai suoi libretti per balletto sarebbe stato possibile ricavare dei soggetti cinematografici credibili e allettanti per registi e produttori. Questa si sarebbe rivelata una pia illusione: a tutt’oggi nessun film è stato realizzato a partire da sue opere letterarie o è stato basato sulle vicende avventurose e spesso rocambolesche della sua vita. Eppure le potenziali filmiche dei suoi romanzi erano ben chiare a Céline (il quale scrisse pure un trattamento mai realizzato dal suo grande romanzo Voyage à bout de la nuit, un testo che sottoposi all’interesse di Sergio Leone, grande ammiratore dello scrittore francese, assai propenso a realizzare un film ispirato a quest’opera ma troppo presto fermato dalla sua morte precoce).

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SUL TAMBURO n.43: Giulio Perrone, “L’esatto contrario”

Giulio Perrone, L’esatto contrario, Milano, Rizzoli, 2015

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di Giuseppe Panella

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Perché nella vita avviene l’esatto contrario di quello che si pensa o che si spera? Perché la verità appare soltanto come il rovescio della menzogna e non mostra il suo vero volto di assoluta chiarezza e luminosità? Perché ciò che sembra si illumina dell’alone del vero e si mostra come la dimostrazione lampante di ciò che non è? Come si fa a dimostrare l’esatto contrario di ciò che è la verità e farsi credere?

Riccardo Magris è quello che si potrebbe definire un Peter Pan: irrisolto, senza una relazione stabile, con un reddito assai incerto (e spesso risibile) basato su magre collaborazioni con una rivista di non grande rilevanza culturale come “TuttoGiallo”, vive in un appartamento assai modesto che condivide con Sandro, sempiterno lettore della Recherche di Proust e la sua compagna Rachele che di mestiere fa la domina cioè la mistress professionale con annessi e connessi.

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SUL TAMBURO n.42: Giovanni Papini, “Soliloqui di Betlemme” & Luigi Pirandello, “La messa di quest’anno e altre novelle di Natale”

Giovanni Papini, Soliloqui di Betlemme, con una nota di lettura di Franco Ferrarotti, Bologna, EDB, 2016;

Luigi Pirandello, La messa di quest’anno e altre novelle di Natale, con una nota di lettura di Massimo Naro, Bologna, EDB, 2016

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di Giuseppe Panella

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In questi due agili volumetti antologici, due dei maggiori intellettuali del Novecento italiani vengono “interrogati” sul loro rapporto con la festività del Natale e più generalmente con il sacro e la sacralità nelle scelte umane riproponendo alcuni loro testi narrativi erroneamente definiti come minori o laterali alla loro produzione più nota. In entrambi i casi si tratta di un risultato significativo e capace di portare a un giudizio critico su di essi tale da mettere a tacere qualche pregiudizio invalso sulla loro produzione. Papini mostra nei testi qui antologizzati grande empatia umana nei confronti di uomini e animali tanto da rendere questi ultimi i protagonisti di alcuni di questi scritti. Pirandello si rivela tutt’altro che cinico e spietato nei confronti delle miserie e delle stupidità umane anche se non rinuncia alla sua vena grottesca e talvolta “candidamente” cattiva (come Massimo Bontempelli definì l’opera del grande scrittore siciliano nel suo discorso emblematicamente intitolato Pirandello o del candore).

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SUL TAMBURO n.41: Riccardo Gramantieri, “Post 11 settembre. Letteratura e trauma”

Riccardo Gramantieri, Post 11 settembre. Letteratura e trauma, Bologna, Persiani Edizioni, 2016

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di Giuseppe Panella

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L’11 settembre 2001 due aerei americani furono dirottati dal loro consueto percorso di viaggio e si schiantarono sulle pareti di vetro e cemento delle Twin Towers, le Torri Gemelle, orgoglio del centro commerciale di Manhattan. Il suolo aereo americano venica violato pubblicamente per la prima volta. L’impatto sull’immaginario mondiale (e non solo americano) è stato talmente imponente da mutarne radicalmente le coordinate e le implicazioni socio-soggettive. Si tratta di una pagina di psicologia storico-sociale ancora tutta da scrivere e da verificare sotto il profilo scientifico ma le sue conseguenze non potevano non influenzare prepotentemente le arti più popolari (e non soltanto quelle più esposte dal punto di vista mediatico). Se la letteratura ha una funzione di risarcimento o di cicatrizzazione dell’Io ferito – come sostiene la maggior parte degli studiosi dei rapporti tra immaginario e processi di soggettivazione, dalla Melanie Klein a Heinz Kohut a Alain de Mijolla – è indubitabile la funzione riparatrice svolta dalla narrativa di anticipazione nel caso degli eventi dell’11 settembre. Questo ottimo libro di Gramantieri, di conseguenza, ha il merito di ricostruire i processi di funzionamento di tale processo risarcitorio e di verificarne l’attuazione a livello fantasmatico e narrativo. Nel caso dell’11 settembre, la letteratura anglosassone si è concentrata in una maniera che si potrebbe definire maniacale sui fatti avvenuti in quel giorno particolare e li ha trasformati in una data che facesse da turning point alla soggettività epocale della cultura del mondo occidentale. Non è un caso, infatti, che la maggior parte della produzione più popolare (e, come si diceva prima, non solo quella) abbia come quasi esclusivo oggetto dei propri plot narrativi e dei propri sviluppi fantapolitici gli eventi relativi al crollo delle Torri Gemelle. Tutto ciò è evidente negli esempi di letteratura portati come testimonianza nel libro di Gramantieri:

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SUL TAMBURO n.40: Marco Nicastro, “Il buio e la luce”

Marco Nicastro, Il buio e la luce, prefazione di Lorenzo Renzi, Villapiana (Cosenza), Edizioni Aljon, 2016

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di Giuseppe Panella

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Un quadro, molto celebre e apprezzato, di Michelangelo Caravaggio campisce sulla copertina de Il buio e la luce di Marco Nicastro, un’opera cui l’autore dedica una nota fitta e significativa che merita un momento di riflessione. Del dipinto e dell’opera di Caravaggio viene detto icasticamente:

«Caravaggio aveva questo modo unico di giocare con la luce; riusciva a dare valore e consistenza volumetrica ed esistenziale ai personaggi della scena proprio grazie alla quantità di luce e di oscurità che faceva posare su di essi. Gli uomini e le donne dei suoi quadri entrano ed escono dalle tenebre, ora quasi definitivamente, ora solo per poco. In questo movimento è simbolizzata l’esperienza terrena di ogni uomo, fatta inevitabilmente di luci e ombre, spesso immersa nell’oscurità ma sempre con una possibilità di riscatto» (p. 59).

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SUL TAMBURO n.39: Rino Garro, “Valigie. Storie dal Mario & Gianni’s Restaurant”

Rino Garro, Valigie. Storie dal Mario & Gianni’s Restaurant, Cosenza, Falco Editore, 2016

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di Giuseppe Panella

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Questo libro di Rino Garro è un racconto di poche pagine (36 per l’esattezza) ma denso e succoso come un limone maturo, fatto di intuizioni e di allusioni, di sogni e di speranze, di tragedia e di illusioni in un domani migliore. Scritto in italiano ma tradotto in inglese eccellentemente da Maggie Rose e poi edito con una curiosa ed efficace soluzione grafica per cui il testo inglese appare rovesciato rispetto a quello italiano in una curiosa giustapposizione delle parti, il racconto di Garro si può riassumere in poche frasi e situazioni topiche.

Un giovane calabrese che insegna a Firenze, disilluso e stanco ma non domo dalle tristi vicende precedenti vissute in Italia, desideroso di iniziare una nuova vita in Inghilterra, porta con sè una valigia ripiena di tutto il suo avere trasportabile (omnia sua secum portat). Questa valigia ritorna nei suoi sogni e nelle sue angosce fino a diventare il suo pensiero predominante e l’oggetto che domina in tutte le sue paure.

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SUL TAMBURO n.38: Cinzia Della Ciana, “Acqua piena d’acqua”

Cinzia Della Ciana, Acqua piena d’acqua, Arcidosso (Grosseto), Effigi, 2016

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di Giuseppe Panella

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Un romanzo familiare come la grande letteratura del Novecento ha abituato i suoi lettori a partire dai Buddenbrook. Decadenza di una famiglia per finire con Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez o Menzogna e sortilegio di Elsa Morante (uno dei libri certamente presenti nel serbatoio della mente letteraria di Cinzia Della Ciana per via della continuità familiare e il susseguirsi di tre personaggi femminili, nonna, madre e nipote, nella scansione temporale della storia). Tre donne affrontano le loro vicende e si confrontano con l’acqua del fiume dell’esistenza ed è proprio al suo corso impetuoso quando “tira giù argine e macchia“ che il libro è dedicato.

Acqua piena d’acqua è un’espressione tipicamente russa che sta ad indicare l’acqua come pienezza di vita e come metafora della realtà umana, il momento in cui l’essere vivi viene pienamente raggiunto come obiettivo. Ed è all’acqua che Cinzia Della Ciana fa ricorso tutte le volte che deve descrivere le vicissitudini e le peripezie (in gran parte negative) delle sue protagoniste – la piena dell’Arno a Pisa che chiude il romanzo, tuttavia, ne sancisce l’avvenuta liberazione dall’alveo e la sua libertà di dilagare e tracimare felicemente conquistata.

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SUL TAMBURO n.37: Gianluca Barbera, “La truffa come una delle belle arti”

Gianluca Barbera, La truffa come una delle belle arti, Reggio Emilia, Aliberti Gruppo Editoriale, 2016

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di Giuseppe Panella

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«A voler credere alle congiunzioni astrali il 1842 fu un anno colmo di prodigi. […] E, dulcis in fundo, il mio bisnonno Petreus, detto Pepé, stupì il mondo con l’esibizione di un esemplare di sirena ribattezzato la “Sirena delle Galàpagos”. Migliaia di persone si misero in fila per ammirarla, ignare del fatto che si trattava di un banale innesto tra la testa e il torso di uno scimpanzé e la coda di un tonno essiccato. La creatura aveva la bocca spalancata, la coda piegata verso l’alto e le braccia protese, come raggelate in uno slancio disperato. Pareva morta tra indicibili tormenti. Anni dopo Pepè avrebbe ricordato la cosa con queste parole, sputando a terra: “Era una creatura brutta e rinsecchita, di colore melmoso, lunga un metro e mezzo, ed emanava un odore nauseabondo, ti assicuro…”. L’aspetto repellente della sirena non tenne lontana la folla dei curiosi venuti da ogni parte, disposti a scucire senza batter ciglio l’esorbitante prezzo del biglietto, per nulla scoraggiati dal fetore che quell’essere rattrappito emanava» (pp. 13-14).

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SUL TAMBURO n.36: Emmanuel Bove, “Una visita serale e altri racconti”

Emmanuel Bove, Una visita serale e altri racconti, trad. it. e postfazione di Claudio Panella, Saluzzo (Cuneo), Fusta, 2016

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di Giuseppe Panella

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Nella bella collana bassastagione curata da Marino Magliani e Stefano Costa, viene pubblicata una significativa raccolta di racconti di Emmanuel Bove, scrittore maledetto e randagio, autore di un gran numero di testi di narrativa non facilmente qualificabile nel genere e conosciuti per la loro ricerca stilistica singolare e apparentemente spiazzante. Una visita serale e altri racconti contiene sette storie di Emmanuel Bobovnikoff (il suo nome di nascita che però non usò mai per firmare le sue storie mentre condivise con il suo più autorevole nom de plume quelli di Jean Vallois e Pierre Dugast), sette momenti di vita, sette vicende tra il bizzarro e lo straziante che alternano laminuziosa descrizione di stati d’animo a ritratti di personaggi umorali o disturbati o inquietanti descritti in precisi momenti della loro vita. Più noto come romanzi quali I miei amici (trad. it. di Beppe Sebaste, Milano, Feltrinelli, 20152, un romanzo che nel 1921 piacque molto a Colette) o La trappola (trad. it. di Carlo Alberto Bonadies, Genova, Il Melangolo, 1999, rifiutato in prima istanza da Gallimard perché trattava in maniera molto poco conciliatoria di “collaborazionismo” durante la guerra), Bove autore di racconti ha una specificità notevole e caratteristiche singolari che vanno adeguatamente sviscerate per comprenderle.

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SUL TAMBURO n.35: Alberto Casiraghy – Luciano Ragozzino, “Le emozioni delle mosche. Aforismi incisi”

Cover Ragozzino:Layout 1Alberto Casiraghy – Luciano Ragozzino, Le emozioni delle mosche. Aforismi incisi, Bologna, Pendragon, 2016

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di Giuseppe Panella

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Le illustrazioni di Luciano Ragozzino sono bellissime, gli aforismi di Alberto Casiraghy sono intriganti e densi di un umore nero pensoso e rassicurante nello stesso tempo. Il pessimismo che le contraddistingue, infatti, non è mai aspro o amaro come un limone maturato troppo in fretta, ma raddolcito dalla bonomia di una bontà programmatica e forse congenita, incapace di nuocere. Molti di essi meritano un approfondimento, però, una ri-lettura che le ripoerti alla loro dimensione originaria:

«Le emozioni delle mosche non interessano proprio nessuno» (p. 56).

se non le mosche stesse, animali fastidiosi e incalzanti, che non sembrano suscitare negli altri esseri viventi sensazioni che non siano di dispetto uggia o fastidiosa caccia mortale per loro.

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SUL TAMBURO n.34: Domenico Cacopardo, “Semplici questioni d’onore”

domenico-cacopardo-semplici-questioni-donoreDomenico Cacopardo, Semplici questioni d’onore, Venezia, Marsilio, 2016

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di Giuseppe Panella

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Concetto Granaleo, detto Tino, studente a Scienze Politiche, innamorato perso della cugina carnale Ornella che lo ricambia, è stato allevato dalla zia Antonia: la madre è morta quando lui era piccolissimo e il padre è scomparso da Messina il 31 dicembre 1943 e non ha più fatto avere alcuna notizia di sé. Il giovane è molto legato a uno dei suoi tanti cugini, Demetrio, con il quale ha condiviso esperienze di vita, di caccia e di aspirazioni al successo con le donne e con la futura professione. Ma una notte, al suo ritorno a casa in tarda notte, succede qualcosa: due individui pericolosi si introducono in casa convinti che il giovane non ci sia e uccidono la zia con un colpo di coltello in pieno petto. Tino sente tutto ma non si muove dal nascondiglio improvvisato di camera sua: in seguito accuserà se stesso di una vigliaccheria congenita e meschina, umiliante e vergognosa, ma salverà in questo modo la vita (come gli dice il cugino Demetrio cui confiderà la sua debolezza).

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SUL TAMBURO n.33: Mario Quattrucci, “Ogni giorno è quel giorno””

mario-quattrucci-ogni-giorno-e-quel-giornoMario Quattrucci, Ogni giorno è quel giorno. Versi, Torino, Robin, 2015

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di Giuseppe Panella

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Memoria / non è peccato fin che giova. Dopo / è letargo di talpe, abiezione / che funghisce su di sé (Eugenio Montale, La bufera) – è una delle quattro epigrafi che campiscono con nitore e secchezza espressiva sulla prima pagine del libro di Mario Quattrucci. Politico militante degli anni d’oro del Pci, operatore culturale (è Presidente del Premio Feronia Città di Fiano fin dalla sua fondazione), poeta e noto come il creatore della serie poliziesca legata alla Roma del commissario Marè (almeno dieci volumi ma potrei sbagliare il conto), il poeta romano si conferma autore duttile e capace di modulare tutte le gamme della scrittura lirica.

Ne è conferma questa sua ultima raccolta di poesie dove allo sperimentalismo delle poesie “in forma di rosa” (in un incontro-scontro-confronto con Pasolini) si mescola il lirismo della tradizione italiana e la capacità di legare “memoria e desiderio” (per citare solo di sfuggita Eliot).

Il poeta Quattrucci è scabro come una pietra pomice (quella del libellum di Catullo) e i suoi versi sono pervasi, da un lato, dalla nostalgia per un passato che è già trascorso e talvolta invano, dall’altro da una consapevole accettazione di un presente che non piace ma che pure bisogna prendere in considerazione e che è necessario, in qualche modo, accettare.

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SUL TAMBURO n.32: Simona Lo Iacono, “Le streghe di Lenzavacche”

simona-lo-iacono-le-streghe-di-lenzavaccheSimona Lo Iacono, Le streghe di Lenzavacche, Roma, Edizioni E/O, 2016

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di Giuseppe Panella

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Come può una famiglia di sole donne continuare a perpetuarsi se non fosse composta da streghe la cui attività meritoria (anche se considerata criminale) dura ininterrotta dal 1600? E’ il punto di partenza che scatena la scrittura di Simona Lo Iacono e la spinge a narrare una storia che trae origine in un determinato periodo storico (il 1938, l’anno del massimo consenso tributato al regime fascista in Italia) e si distende diacronicamente a raccontare le vicende di un paese e delle sue abitanti più ostinate e più straordinariamente coerenti nella resistenza al conformismo sempre imperante nella penisola e ai costumi bigotti e reazionari che lo contraddistinguono.

Le streghe di Lenzavacche (in realtà una piccola località nel comune di Noto che qui acquista respiro simbolico e molto più rilevante rispetto alla sua ampiezza topografica quasi a indicare e a prefigurare la lotta contro le prevaricazioni del Potere e la volontà di sconfiggerle sia pure parzialmente) è un romanzo che vuole indicare una strada e proporre delle soluzioni anche se si attiene al registro della narrazione storica di fatti quasi-veri.

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